Dopo quattro abbondanti mesi di grigiore, capita tutt’a un tratto di scoprire che la primavera esiste, in una forma più o meno paragonabile a quella italiana, anche nel vivo dell’Ile de France, e che, con essa, arriva in città quella cosa che ti fa sentire almeno un po’ in vacanza: i festival.
La Villette Sonique, alla sua X edizione, si svolge nella bella cornice del Parc de la Villette, la città della scienza parigina, e propone tanti concerti gratuiti durante il pomeriggio, all’aria aperta e cinque serate indoor a pagamento, nella Grande Halle, bellissima struttura che ospita, tralaltro il Pitchfork Music Festival di fine ottobre e nei locali limitrofi. Al sabato il tempo è bello e il festival diventa un’ottima scusa per bere qualche birra sul prato, tra i gruppi che sì susseguono. Arrivo intorno alle 17, sullo stage grande stanno suonando gli Cheveu, il loro garage rock non è particolarmente invitante, ma costituisce un buon antipasto di sottofondo, in vista della serata alla Grande Halle, si scambia qualche chiacchiera, ci si gode il sole, mentre la batteria e le chitarre picchiano senza sosta. Continuo a cazzeggiare liberamente tra i vari stage senza troppo curarmi di quello che accade musicalmente parlando, la serata saprà ricompensarmi.
È tempo di entrare al coperto. Sul palco il finale del live di Vessel mi accoglie, la sua elettronica fredda e distaccata mi sa ancora troppo di antipasto ed io ho voglia della portata principale. Il cambio palco richiede un mezz’ora, poi le luci si spengono e con il solito piatto a due metri di altezza ecco arrivare i Battles. Orfani di Tyondai Braxton (già dal tour di Glass Drop), gli ormai tre americani presenteranno al pubblico una manciata di estratti dei loro due album intervallati da qualche piccolo assaggio del nuovo album, in uscita ad agosto. Dall’ultimo tour, la band non ha perso assolutamente di spessore e le loro canzoni cosi matematiche e super tecniche, si rivelano al solito estremamente godibili e divertenti.
Ice Cream scalda per bene il pubblico, ma è con il tripudio di Atlas che la platea della Grande Halle si infuoca veramente, si salta e ci si muove al ritmo pulsante di chitarra, basso e batterie. I ragazzi si divertono e fanno divertire, dialogano col pubblico, scherzano. Nel finale infilano un paio di brani nuovi, che rinnovano la solita formula, ma che non suonano certo come degli instant classic. Il tempo dirà la sua. Dopo un’ora tiratissima di show i tre si ritirano dietro le quinte… è tempo di un po’ di elettronica.
È sempre bello andare a un festival per ascoltare un gruppo e scoprire che quello che non conoscevi ti piace quasi di più. Clark, esponente della Warp Records è in qualche modo il lato più divertente di Aphex Twin, meno serioso è più dancereccio, costruisce uno show con due ballerine che si alternano sulla scena, sfoggiando sempre costumi diversi. L’elettronica calda avvolgente e ritmata dei suoi grooves avvolge la mente ma soprattutto il corpo e rende lo show molto fisico, un’ora abbondante che ti tiene su e ti fa venire voglia di non smettere mai di ballare. Il suo show è eccellente e lo si vede dai volti degli astanti.
Il giorno seguente è la volta degli Ought, band americana di ispirazione post punk. Non li ho particolarmente apprezzati su disco, ma devo ammettere che dal vivo, grazie al carisma del cantante e alla sua voce, lo show fila via liscio. Non c’è certo da gridare al miracolo e gran parte del concerto vira nel territorio del già sentito, ma le possibilità almeno, quelle ci sono.
Tutt’altra storia per il delirante progetto degli italianissimi Ninos du Brasil, che con il loro live ripetitivo ma divertentissimo sono riusciti a far ballare tutta la platea con il loro irresistibile groove di percussioni live e basi elettroniche. tanta roba, ossessivo compulsiva, ma divertente.
Il lavoro vero chiama e prendo un giorno di pausa dal festival e dai concerti. Si riprende il martedì, con un live che aspettavo tantissimo, da tanto.
Ci sono dei dischi che segnano periodi della vita, che si ascoltano prima con sospetto è indifferenza e poi tutto d’un tratto, ci fanno innamorare. Benji, per il sottoscritto, è stato uno di questi dischi. Partito in sordina con il suo ascolto definendolo stupidamente bello, ma noioso, mi ha fatto innamorare quando sono riuscito a spostare l’asticella dell’attenzione ad un livello superiore. Il concerto di Sun Kil Moon pertanto costituisce un tassello imperdibile. Si tiene nella bellissima sala della Philharmonie 2. L’apertura è affidata a Grouper che ci regala un live molto intenso, ma soporifero, un po’ come i suoi dischi che dispensano in ugual misura perfezione e sonnolenza, almeno per il sottoscritto. Minuta, discreta, si siede a terra e lascia partire le sue elettroniche, gioca con gli effetti e regala fraseggi chitarristici malinconici e ripetitivi, il movie visual che viene proiettato sul palco accompagna bene i brani di Ruins, la sua ultima fatica. La voce estranea e soffice sembra arrivare da mondi lontani e culla gli spettatori, che, comodi nelle proprie poltrone, a tratti, sembrano lentamente prendere sonno. Resistere è stata davvero dura, lo ammetto. Ciò nonostante l’ora passa e il palco si riempie di strumenti… qui i conti non mi tornano troppo, perché Mark Kozelek, nei suoi ultimi concerti, era solito presentarsi accompagnato da una chitarra e poco più e invece la batteria e il tom e piatto aggiuntivi montati sul palco, accompagnati da un notevole set di chitarre semi acustiche, suggerisce un’atmosfera più inerente al roots rock, piuttosto che ad un live acustico.
Kozelek infatti appare accompagnato da quattro musicisti, tra cui spicca alla chitarra niente poco di meno che Neil Halstead degli Slowdive. Il live ha il compito di raccontare al pubblico che dimensione assumerà Universal Theme, ultima fatica a nome Sun Kil Moon, uscito in questi giorni. Ad accompagnare i lunghi e incantevoli racconti di Mark ci sarà un rock duro e puro, senza alcun fronzolo elettronico e senza, probabilmente, nessun atmosfera acustica. Il concerto è incantevole e i pezzi di Benji, completamente trasformati in meravigliose ballate rock, incantano come non mai. Mariette apre il live conservando l’atmosfera roots che aveva nell’album con Desertshore. E poi arriva il turno di Micheline, che acquista una batteria ed un canto che si fa tratti sofferto e arrabbiato, urlato. Kozelek è in gran forma e alterna pezzi i pezzi di Benji con estratti dai suoi album con LaValle e Desertshore e con chicche provenienti dal nuovo album in arrivo. In certi momenti si sfocia quasi nel noise. Un Mark meno cantautore e più interprete, che sembra avere più voglia di cantare che di suonare la sei corde. Si diverte a dirigere la sua band, come un regista, ripigliandola ad ogni minimo errore, dall’attacco fallace di batteria alla chitarra scordata. Richard Ramirez si trasforma in una ballata dark elettrica e furiosa e I watch the song remains the same regala le usuali emozioni. Una nota a parte meritano i tre brani in scaletta tratti da Universal Themes: le già conosciute The Possum e Ali/Spinks 2, che infilano elettricità, reading e poesia e rock’n roll nel suono di Sun Kil Moon. Ma è con il tripudio degli oltre dieci minuti di This is my first day I’m indian and I work at a gas station che il live si fa delirante e illuminante. L’empatia tra i membri della band è perfetta, tanto da lasciare il pubblico a bocca asciutta quando dopo un’ora abbondante di musica, la band lascia il palco. Fortunatamente c’è tempo per un bis, per commuoversi sulle note di una deliziosa e indimenticabile Ceiling Gazing che insegnerà al sottoscritto la strana possibilità di tremare fino alla radice delle ossa. Epico.