Verso la fase due: storie di lavoro e irrealtà

Sono quattro milioni e mezzo gli italiani che oggi rientrano al lavoro. È la Fase 2, un ponte gettato tra il lockdown e la vita vera. I dubbi sono tanti, legati alla linea dei contagi – attenuata ma non sparita – e seguono logiche Rubik dal Dpcm 26 aprile a scendere, lungo i tornanti di ordinanze regionali e poi giù per province e comuni. A guardarsi indietro c’è un monte di vittime: secondo la Federazione nazionale degli ordini dei medici sono 154 i medici morti per l’epidemia Covid-19; mentre sono più di 28.000 i contagi di origine professionale denunciati all’Inail tra la fine di febbraio e lo scorso 21 aprile.

Il parziale recupero delle libertà personali è avvelenato da troppe incognite: quale futuro senza sicurezza? Come dovrà essere ridisegnato il lavoro nei prossimi mesi? La maggior parte delle attività produttive che riprendono oggi sono al Nord. Secondo una stima del Centro Studi dei Consulenti del lavoro, effettuata utilizzando dati Istat, 2,8 milioni di lavoratori riprendono le attività nelle zone maggiormente colpite dal contagio. E a rientrare saranno prevalentemente over 50. La pandemia ha messo in luce gli effetti di anni di politiche di austerity e attacco al welfare, a crisi si aggiunge crisi ed è evidente che la ricostruzione richiederà un esame attento e un ribaltamento delle priorità, naturalmente dopo che le responsabilità di una serie infinita e imbarazzate di errori vengano acclarate, traendone le dovute conseguenze. Lo Statuto dei lavoratori quest’anno compie 50 anni ed è giunto il tempo di rimettere al centro non il profitto ma la sicurezza, la dignità. E le persone. Quelle che seguono sono storie di lavoro e irrealtà, di questo tempo assurdo che al di là di tutte le promesse fatte, delle lezioni apprese, sparirà divorato dall’oblio, sommerso da strati e strati di ritrovata normalità. Forse resterà un’immagine, una sola, come una cartolina dalla distopia dove non tornare mai più.


Mick De Paola, Unsplash

Sara, medico specializzando a Milano

Quale ricordo ti resterà del tuo lavoro durante l’emergenza Covid 19?

La solitudine. Sono sola da mesi, isolata da mesi, non posso tornare dalla mia famiglia, non posso vedere il mio compagno che è in Svizzera e non lo vedrò forse fino a fine anno, mentre a luglio avremmo dovuto sposarci.

Un momento nel quale hai realizzato l’importanza del tuo lavoro nel garantire ai pazienti cure durante l’emergenza.

Lavorando in terapia intensiva di base sai che il tuo lavoro è l’ultimo prima della fine, è cosi sempre purtroppo. Appena c’è stato il primo caso a Lodi abbiamo capito che la cosa era drammatica e che noi , volenti o no, avremmo fatto lavoro di trincea.

Senti che i tuoi diritti di lavoratrice siano stati rispettati?

No. Sono un medico specializzando, cioè studente universitario con borsa di studio, anche se nella pratica lavoriamo come medici a tutti gli effetti. Spesso non siamo considerati per quel che siamo e facciamo, ma ora si è toccato il fondo. I famosi posti letto di terapia intensiva in più che sono stati creati per l’emergenza richiedono personale formato, sia infermieri specializzati che anestesisti rianimatori. Stanno andando avanti grazie a noi specializzandi e a medici neolaureati raccattati con bandi regionali. Sto pagando un mutuo e in più devo sostenere l’affitto di una seconda casa fuori Milano, dormo da un mese su un divano-letto. Dovrei fare dei controlli, ma non riesco mai ad avere giorni liberi. Inoltre la risposta degli ospedali è: “Se lei lavora in un reparto Covid, non può venire a visita senza aver fatto prima i controlli”. Ma quali controlli?

C’è un’immagine che più di tutte riassume le emozioni di questi due mesi?

Immagini di sconforto e rabbia, miei, dei miei colleghi, dei familiari dei pazienti. Mi ricorderò anche della solidarietà tra noi colleghi.


Chapman Chow, Unsplash

Giorgio, conducente di autobus in Emilia Romagna

Com’è stato lavorare nel trasporto pubblico da quando l’Emilia Romagna come il resto di Italia è diventata zona rossa?

Ricordo lo stato d’animo che avevo, la realtà surreale, mi sentivo in un film, lavoravo e non vedevo nessuno in giro. E non è una bella sensazione.

Per te che hai lavorato poco durante il lockdown, l’emergenza inizia con la Fase 2, giusto?

Sì. Fino ad oggi la situazione è stata gestita abbastanza bene perché non c’era quasi nessuno. Ma da ora in poi si pongono una serie di problemi per noi autisti. Secondo l’ultimo Dpcm, se dovessimo essere a pieno carico siamo autorizzati a spegnere i cartelli e saltare le fermate. In Emilia Romagna questa cosa non è contemplata, non succede mai. Tendono a farti fermare sempre. Il Governo non ha definito nessun numero massimo di carico su un autobus. Si parla di spazio: 1 metro quadrato per passeggero. In un autobus di 12 metri, se sottrai la cabina anteriore e la distanza che hanno lasciato tra noi e l’utenza di 4 metri quadrati, restano 20 metri quadrati. Dunque 20 persone. Ma se si considerano sedili, passamano, aperture porta, è chiaro che lo spazio è ancora meno; nessuno sa cosa rispondere alle nostre obiezioni. Ci hanno inviato un prospetto: secondo i loro calcoli il massimo carico consentito in pandemia è di 24 passeggeri a sedere e 2 in piedi. È evidente che così le distanze non saranno rispettate.

Finora senti di aver lavorato in sicurezza?

No. Sin dall’inizio avevamo proposto di non aprire la porta anteriore e di aggiungere una fascia di delimitazione tra noi e l’utenza. Non siamo stati ascoltati dall’azienda. Solo quando abbiamo presentato una denuncia all’Asl sono stati adottati questi accorgimenti, già in uso in tutta l’Italia per la pandemia. A partire dalla Fase 2, con maggiore carico, anche con la porta anteriore chiusa nascerà il problema sugli autobus a due porte, per i passeggeri. Quando è presente anche la porta centrale, si può usare questa per scendere e quella posteriore per salire. Ma con una sola porta da cui salire e scendere i passeggeri presi dalla fretta si incroceranno, anche lì le distanze non si potranno rispettare. Per non parlare dell’efficienza del servizio: l’incremento secondo il piano previsto per l’emergenza è assolutamente irrealizzabile perché sotto prestazione.

Un momento nel quale hai realizzato l’importanza del tuo lavoro nel garantire alle persone un servizio durante l’emergenza.

Quando si è iniziato a parlare di Fase 2, della ripresa del lavoro per tante persone. Molte di quelle persone le portiamo noi al lavoro.

Un’immagine che sintetizza il tuo lavoro durante il lockdown.

L’autobus quasi vuoto, con solo medici, infermieri o dipendenti di supermercati. E quelli che spacciavano la marijuana.


Catia, piccola imprenditrice a Roma

Da quanto tempo hai aperto la tua enoteca e come è cambiato il lavoro dall’inizio della pandemia?

Abbiamo aperto da poco più di un anno, a novembre abbiamo festeggiato il primo anniversario. Il lavoro da marzo è praticamente rimasto bloccato. Siamo stati bravi a reagire subito e già a due giorni dalla chiusura di tutte le attività noi facevamo le consegne a domicilio. Ci chiedevamo come sarebbe andata, era un tentativo. È andata molto bene per le prime due settimane, poi anche gli altri si sono organizzati allo stesso modo e quindi adesso c’è più concorrenza nel campo.

Voi siete anche distributori di vini biologici in tutta Italia.

Sì, e da quel punto di vista devo dire che la nostra distribuzione si è ridotta molto, gli ordini sono calati notevolmente. Noi lavoravamo con i ristoranti, e adesso che sono tutti chiusi…

Come si è modificato il mercato?

Il mercato adesso cercherà di invitare a un maggiore consumo, anche i nostri produttori sono stati molto carini: hanno cominciato a fare le bottiglie da un litro per abbassare i costi e permettere alla gente di spendere di meno e bere di più.

Un momento nel quale hai realizzato l’importanza del tuo lavoro nel garantire alle persone un servizio durante l’emergenza.

Non c’è un momento solo! Il vino è la gioia, è l’allegria, come si farebbe in un momento del genere senza un bicchiere di vino?

C’è un’immagine che più di tutte riassume le emozioni di questi due mesi?

Le persone con le mascherine, non mi ci riesco ad abituare, non voglio!


Foto Giorgio Ghiotto

Nicolò, rider a Roma

Quale ricordo ti resterà del tuo lavoro durante l’emergenza Covid 19?

Il momento in cui ho realizzato che il mio lavoro non sarebbe più stato lo stesso: subito dopo la conferenza di Conte che annunciava il lockdown. In quel momento c’è stata un’impennata di consegne da supermercati e tabacchi: è stato chiaro che il lavoro era completamente cambiato e chissà per quanto tempo sarebbe stato così.

Un momento nel quale hai realizzato l’importanza del tuo lavoro nel garantire alle persone un servizio durante l’emergenza.

Da subito è stato chiaro che non stavamo più facendo i rider, ma offrendo un servizio utile a tutte le persone che avevano impossibilità nel muoversi, come gli anziani. Il fatto di poter dare un contributo importante ci ha inorgoglito. Anche consegnare l’hamburger o il sushi, o cose che non vengono ritenute beni di prima necessità e per le quali c’è chi polemizza: sono cose che danno a chi le ordina il contatto con la vita vera…perché negarglielo?

Senti che i tuoi diritti di lavoratore siano stati rispettati?

Le piattaforme per le quali lavoro hanno dato varie direttive regolarmente e con previsione assoluta. Effettuiamo le consegne senza contatto, lascio i prodotti in ascensore o fuori la porta. Ci hanno fornito dispositivi di protezione in kit di mascherine e guanti oppure il rimborso se le compro io. Addirittura una delle piattaforme per cui non faccio consegne da un po’ mi ha spedito tre mascherine a casa. Poi c’è stato chi ha avuto difficoltà a reperire dispositivi, ma è stato un problema trasversale e legato a un frangente in cui le mascherine mancavano anche per i medici. Io ho sempre lavorato in sicurezza e anzi ringrazio in questo periodo di avere un lavoro, oltretutto autonomo. Fare il rider ha salvato molti adulti e adulte in cassa integrazione, o liberi professionisti che hanno dovuto chiudere. Le piattaforme hanno avuto modo di assumere queste persone e garantirgli un reddito fino alla fine dell’emergenza.

C’è un’immagine che più di tutte riassume le emozioni di questi due mesi?

Ogni volta che passavo verso Prati in questo periodo c’era una fila interminabile di turisti in attesa di entrare ai Musei Vaticani. Due chilometri di fila. E adesso non c’è più nessuno.


Pasquale, farmacista a Napoli

Quale ricordo ti resterà del tuo lavoro durante l’emergenza Covid 19?

I primi giorni di panico, quando mancavano le mascherine e lavoravamo a battenti chiusi. Si parlava solo di contagi e morti al Nord, c’era assoluta insicurezza. Ricordo che avrei voluto tanto partire, chiudere la farmacia e prendermi una vacanza, ma non era possibile.

Complessivamente senti che la tua categoria professionale è stata tutelata?

Il presidente dell’ordine dei farmacisti chiede lo screening sierologico per tutti i farmacisti da marzo, e questo dopo un mese e mezzo non è ancora avvenuto. Che il motivo sia mancanza di fondi o difficoltà organizzative, il fatto di essere operatori sanitari a contatto con un pubblico che può presentare mille sintomatologie simili a quelle da Coronavirus, e non sapere se siamo venuti a contatto col virus è grave. Dalla Regione ci sono arrivate 5 mascherine chirurgiche lavabili e noi siamo 10 in farmacia. Quindi dispositivi di protezione a carico di noi titolari delle farmacie, sanificazione anche a carico nostro. Dicono che queste spese verranno detratte in qualche modo. L’ultima beffa sulle mascherine, per le quali dalla sera alla mattina si è deciso di calmierare il prezzo, mentre noi le avevamo acquistate a un prezzo superiore.

Quale immagine conserverai di questo periodo di lockdown?

L’atmosfera irreale del coprifuoco, al rientro a casa la sera.


Fonte WikiCommons

Alessandro, attivista Telefono Rosso Ex Opg Napoli

Come è cambiata la tua attività di volontario per lo sportello legale del lavoro dell’Ex Opg con la pandemia?

Con l’inizio della quarantena abbiamo dovuto organizzarci diversamente, non era più possibile incontrare le persone. È nato il Telefono Rosso, grazie al quale abbiamo potuto continuare ad assistere i lavoratori. Abbiamo ricevuto finora 600 telefonate da lavoratori in difficoltà, e naturalmente la pandemia ha modificato problemi, richieste, sono emerse nuove storie.

Cosa ti ha maggiormente colpito di questo periodo?

Le prime telefonate si concentravano soprattutto su questo: nella mia fabbrica non si rispettano le distanze di sicurezza e io non posso ammalarmi o rischiare di contagiare i miei familiari. Nelle prime due settimane abbiamo assistito a una mobilitazione operaia e di lavoratori incredibile, che non vedevamo da tantissimi anni. È stato evidente che c’erano due blocchi contrapposti che avevano interessi completamente divergenti. Lotta di classe vera e propria. È stato un momento assolutamente dirompente. Molte aziende in Italia hanno chiuso perché i lavoratori hanno deciso che non sarebbero andati a lavorare. E alcune fabbriche si sono trovate costrette a chiudere.

Cosa è successo dopo?

Abbiamo ricevuto molte chiamate dai lavoratori a nero al sud, e soprattutto in Campania, che non hanno nessun tipo di contratto e sono alla mercé dei datori di lavoro. Si sono trovati sprovvisti di qualsiasi tipo di sussidio, e noi non potevamo che sperare per loro il Governo emanasse presto un decreto per il Reddito di emergenza. Certo, con altre associazioni ci siamo organizzati per la spesa solidale, ma non si può arrivare a tutti. Dovrebbe uscire il decreto per il Rem a giorni, ma comunque arriva troppo tardi. Per quanto riguarda gli altri lavoratori: Conte diceva che il 15 aprile sarebbero arrivati i soldi per la cassa integrazione, a oggi questi soldi non sono arrivati. E così i bonus per i lavoratori autonomi, co.co.co, partite iva. E sono stati esclusi dei segmenti sociali enormi: penso agli artigiani, ai lavoratori autonomi occasionali. Il sito dell’Inps è stato inaccessibile per giorni e non oso immaginare le difficoltà per accedere al Rem.

Con le riaperture cosa accadrà?

La nostra paura è che con l’aggravarsi della crisi economica e sociale in questi due mesi appena passati, si torni a lavorare in condizioni non è detto di salute e sicurezza, perché il ricatto occupazionale a questo punto si fa tremendamente forte.

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