Non c’entra Schrödinger ma poco ci manca, perché un po’ come tutto quello che si aspetta e non ti colpisce al primo ascolto un po’ ti delude, così è difficile capire come considerare il secondo volume di Endkadenz, se da solo o come naturale proseguo di quello che l’ha preceduto. In entrambi i casi si perde qualche cosa per strada, una di quelle impervie, che non facilitano la comprensione come del resto i Verdena ci hanno abituato a intraprendere da sempre. Proprio come quel gatto che non sai se sia vivo o meno, questa seconda parte cancella la direzione introspettiva per seguirne una molto più fisica. Ti colpiscono allo sterno, piuttosto che alla testa, e ti fanno perdere il fiato, ma mai abbastanza. L’ingresso del Cannibale, prepotente e insensibile, è una falsa traccia perché non riesce mai a sostenersi, caccia fra i suoi simili e alla fine non è mai sazio. Trema insieme alla sua Simona e nella mancanza di stabilità di Dymo, colora tutto di quel nero in cui non riesci a distinguere gli oggetti ma di cui ti ricordi benissimo come sono fatti e che sono ancora lì. Persistenza. Un suono ingabbiato che aspetta di uscire. Alter ego, più cattivo e pestato, della versione in rosso.
Qualcosa non torna, rispetto al primo volume, e spesso si consuma in sé. Lo spazio che la musica si prende toglie ancora più ruolo alla voce. Non ci sono storie, c’è piuttosto un colloquio interminabile, fatto di simboli e parole segrete. Poco più di sussurri. C’è l’altro, in maniera prepotente, quel capitolo che abbiamo già letto tante volte. Facilmente fraintendibile, come un Natale con Ozzy al posto di Jingle Bells, che non ti lascia capire se la festa c’è o meno. Le atmosfere rimangono, le abitudini alla fine scompaiono, ma a volte rischiano di essere soltanto addobbi che sbiadiscono ogni anno un qualcosa di più. È una struttura che rimane incompleta da sola, ma che caricherebbe ancora di più la parte per cui è stata pensata. Questioni di Universal e di bilancio. L’originalità dell’incubo ne risente, ma questo è in gran parte perché davanti ai Verdena ci si aspetta sempre qualcosa di più del normale. E quello che per loro sembra essere un passo a metà, sempre considerandolo da solo, per altri potrebbe essere una montagna se non alta, molto ripida da scalare. Sembra quasi ritornare indietro nel tempo, ma con una maturità che ormai lascia spazio solo per un ricordo malinconico del tempo passato.
La ragione ritornerà, quella che sfugge ma è sempre con te – perché le cose non possono aver a che fare solo con il corpo -. Piove e tutto si mescola, i colori e i generi, fra un richiamo bop accennato e un rasoio alternative e noise, dalla batteria senza tregua e un basso ossessivo, si carica di un accenno di un genere che ormai assume su di sé un sapore post-rock, perché il moderno frammenta tutto quello che può toccare. Non c’è un vero e proprio singolo, una traccia che spicchi più delle altre come accadeva nel primo volume. Qui tutto prende senza riempirsi completamente, come il bere qualcosa all’infinito ma che ti lascia ancora una sete di fondo, ma non sai se sia la voglia di bere quel particolare o soltanto la gola che ne ha bisogno. Per incidere ha bisogno di sfruttare la chitarra fino a non lasciargli più forza, quasi costringendola a ripetersi nei momenti in cui si prende il ruolo da protagonista.
Decidiamo di aprire la scatola dei Verdena, e di guardarci dentro, di prenderci Endkadenz come un’opera sola, perché non si separano due corpi che dipendono l’uno dall’altro, e la questione di media aritmetica c’entra poco o nulla. Quello che è consigliato è di unirli, in ascesa graduale, allo stesso modo con cui Wow batteva riempiendoci, non tanto per confrontarli ma perché le due differenze si vanno ad annullare, come dovrebbe essere. Perché una volta che quella bestia esce dalla sua gabbia ti serve solo aggrapparti a qualcosa, che ormai è già tardi e bisogna andare via.
Il disco. per ora, potete ascoltarlo qui