— Ei mondo, che succede? Sono giornate strane, e gli ultimi mesi di accelerazione pandemica sono riusciti a rendere ancora più evidente lo sconquasso che stavamo già vivendo, illuminando le sproporzionate disuguaglianze del mondo, o forse la rimozione quotidiana di quelli che Frantz Fanon chiamava i dannati della terra, gli emarginati all’angolino della storia. Sta succedendo qualcosa – cantava qualcuno tempo fa; e in quest’epoca di distanziamento sociale c’è pure una piacevole sommossa delle anime, un risveglio dei corpi, e forse ne avevamo bisogno in termini di speranza dopo essere stati inghiottiti dalla cappa conservatrice degli ultimi anni.
In un lungo articolo sull’Atlantic all’inizio del 2016, Peter Beinart scriveva che gli anni di Barack Obama avrebbero avuto l’effetto di spostare gli Stati Uniti verso idee più progressiste: i movimenti di protesta americani sembravano rinvigoriti, Occupy Wall Street aveva riacceso il dibattito su temi come le disuguaglianze economiche e sociali e il potere della finanza, e poi c’era persino la candidatura di Bernie Sanders a muovere le acque in una direzione più socialista. Sappiamo tutti com’è finita: Donald Trump ha inghiottito intorno a sé il dissenso e quella che doveva essere la new wave progressista immaginata da Beinart si sarebbe rivelata come una delle più fallimentari profezie degli ultimi anni. Anche qui nella vecchia Europa le cose non sono andate diversamente: i movimenti di protesta più consistenti degli ultimi anni sono stati quelli sovranisti che hanno mobilitato l’elettorato intorno alle retoriche della difesa dei confini o contro l’immigrazione, ne sono venute fuori esperienze come Brexit. Il nuovo linguaggio che sentivamo parlare in giro metteva in contraddizione due ipotesi di mondo come sovranismo e globalità, e un po’ ci trovavamo storditi a notare come il pensiero globale fosse diventato incapace di parlare alle persone – la lingua della globalità poteva apparire feroce nella sua celebrazione del capitalismo liberista, metteva gli emarginati ancora più all’angolo incapace di spiegare perché mai dovessimo accettare l’idea che da una parte ci fosse il 99 e dall’altra l’1 per cento. Non si può negare che quel linguaggio sia riuscito pure nell’effetto di respingere le persone, metterle all’angolino come fossero volti ignoti, vecchi e giovani corpi che si muovevano come disossati. Probabilmente in questi ultimi anni eravamo un po’ disorientati, sbandati dal movimento delle cose, ma se una quantità sempre crescente di persone era stata attratta dai movimenti sovranisti aveva anche a fare con il fallimento di un sistema che non riusciva a reggersi, e con la falsa promessa che bastasse chiudere i confini per sistemare i problemi – anche se poi la delocalizzazione in Cina o Vietnam nessuno la metteva in discussione, la stessa che continuava a riprodurre tutte le sproporzioni di un sistema di sfruttamento lontano dagli occhi. Eppure, con tutta la sua cappa di avvilimento e sonno pandemico, questo venti-venti ha pure riacceso qualcosa, una miccia, una luce sopra il disagio che ci portavamo dentro. Le grandi proteste nel segno di Black Lives Matter nelle strade d’America e in giro per il mondo dopo che George Floyd è stato soffocato da un ufficiale di polizia, hanno messo in moto un movimento popolare di persone stanche di subire – eccolo lì il disagio portato allo scoperto, la luce che illumina i problemi così che tutti possiamo vederli.
Immaginare un pensiero comune
Tra le vittime della pandemia di coronavirus nei mesi scorsi c’è stato Henri Weber, storica figura del Sessantotto francese, una stagione che ci riconnette idealmente a quella dei grandi movimenti di protesta e dei sogni possibili, così come le ferite che sono arrivate fino a noi. In una recente intervista Weber aveva raccontato che il Maggio del ’68 aveva avuto tre motori: era un movimento democratico e libertario contro ogni forma di discriminazione tra classi sociali, sessi, razze; era una lotta contro le forme autoritarie del potere (patriarcale, divino, eccetera); e una protesta contro ogni forma di alienazione degli individui dentro il sistema capitalista. Weber aggiungeva che con il crollo delle esperienze comuniste le nuove generazioni avessero perduto l’idea di una rappresentazione alternativa alla società capitalista e borghese, e si domandava: quali sono le nuove utopie? Bella domanda, davvero non abbiamo nemmeno un’idea di modello alternativo per il futuro e siamo destinati a schiantarci, o ancora cadere nei trucchetti da quattro soldi del sovranismo? Davvero manchiamo di una grande utopia, di una immaginazione da proiettare sull’avvenire? Negli ultimi anni il movimento che più ha provato a tenere assieme la costruzione di una possibile alternativa è quello climatico – anche se resta da indagare se non sia solo un altro modo di conservarci come razza umana sul pianeta, o se gli riesca di mantenere assieme una grande solidarietà tra istanze di cambiamento, tra ecologia e lotta contro le disuguaglianze e ogni genere di discriminazione. A tenere insieme il mondo come un corpo solo.
Quella che è una brutta parola con cui ci stiamo trovando a confrontare negli ultimi mesi, pandemia, per certi versi ha avuto pure una capacità eccezionale nel mettere in contatto mondi geografici e mentali – in un certo senso potrebbe avere quella capacità di risintonizzare la nostra immaginazione verso un pensiero in comune, a esercitarci a un pensiero che possa riguardare tutti, sommersi e esclusi compresi. E forse questo è davvero il tempo per liberare tutte le nostre forze creative, per immaginare, per fare uno sforzo di pensiero dell’impossibile, per arrivare a pensare quell’alternativa e utopia possibile. Uno dei pensieri più audaci che è emerso negli ultimi anni è l’invito ad andare oltre l’antropocentrismo, e l’individualismo-senza-condizione: è difficilissimo per noi che siamo cresciuti nella parte occidentale del mondo un’esperienza che si avvicina molto più alla spiritualità orientale – come facciamo a scendere a compromessi con tutto quello che abbiamo imparato negli anni a proposito dell’io-come-centro-del-mondo, e i nostri desideri a portata di mano che spesso (troppo spesso) coincidono con il possesso di certi oggetti, e i nostri sogni che coincidono con i nostri desideri, sempre totalmente immersi nel tipo di realtà in cui viviamo; come facciamo seriamente a immaginare che l’uomo non sia il centro.
In realtà il pensiero di non essere il centro può aiutarci: anzitutto è un sollievo saperlo, e poi può liberare l’energia sommersa di immaginazione tra noi e gli altri – immaginare tutti connessi come un grande collettivo che respira, non più come esseri singolari dalle vite irripetibili allo sbando. Pensare il corpo nero soffocato di George Floyd (e di tutti gli altri martiri del razzismo) come il nostro stesso corpo, e in generale che i messi all’angolino della storia da una parte all’altra del mondo potremmo essere noi al prossimo giro. È incredibile come anche solo partendo da questo piccolo esercizio di pensiero ci verrà il sospetto di non vivere nel migliore dei mondi possibili. E anche non fosse chiaro, la quantità crescente di protesta e disagio nel mondo lo mette in chiaro. Ci sono ancora enormi sproporzioni tra zone emarginate del mondo e l’Occidente (nell’Occidente stesso ci sono) e tanto per togliere ancora le parole a Fanon: « Il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei neri, degli arabi, degli indiani e dei gialli. E questo, noi decidiamo di non dimenticarlo più. ». Come possiamo credere a un sistema che si è retto sopra il disagio degli altri? Verrebbe da pensare che possiamo quantomeno immaginare di cambiare strada. Una strada che prende una direzione diversa dalle scorciatoie che ha messo in piedi il potere autoritario e la sua propaganda, un’alternativa che rimette al centro il concetto che la vita umana importa e senza distinzioni, che anche la dignità della vita importa, che non basta sopravvivere. Tutta la parte di paura e disagio in un mondo sfrenatamente ineguale, tutta quella parte di fragilità umana e dissapore che sono emersi negli ultimi anni, tutta l’amarezza del mondo va solo in cerca di un’alternativa, di un benessere possibile per ogni essere umano. Il venti-venti somiglia davvero al grido estremo dell’essere umano nel mezzo di un’ondata pandemica che sta portando via con sé tante vittime – lo si sente arrivare più forte a ferire, come un vento infuocato.