Che ci piaccia o no, in questo momento abbiamo a disposizione del tempo. Tempo per pensare, per rilassarsi, per annoiarsi, per interessarsi a qualcosa di nuovo. Meno di quattro ore del vostro tempo è il nuovo gioiellino prodotto da Netflix, la miniserie Unorthodox, creata quasi interamente al femminile: ideata da Anna Winger e Alexa Karolinski, diretta dalla regista Maria Schrader e ispirata all’autobiografia di Deborah Feldman pubblicata nel 2012 da Simon & Schuster, Unorthodox: The Scandalous Rejection of my Hasidic Roots. La miniserie, che vanta il primato di essere la prima del catalogo Netflix in lingua Yiddish, racconta la vita di una giovane donna nella comunità chassidica Satmar (ebrei ortodossi) di Williamsburg, a New York, e il suo tentativo di fuggire. Gli ebrei Satmar sono per la maggior parte discendenti da sopravvissuti all’Olocausto, trasferitisi dall’Ungheria – per l’appunto da Satmar, città da cui prendono il nome – a New York, dove si trovano attualmente le comunità più numerose.
Le quattro puntate che compongono la miniserie seguono un percorso temporale che alterna flashback e il presente della vita della protagonista, la diciannovenne Esther Shapiro, detta Esty, che dopo un anno di frustrazioni legate alla sua vita coniugale decide di fuggire a Berlino: i flashback, tratti fedelmente dal memoir, ci permettono di dare un’occhiata all’interno di una cultura poco conosciuta, la quale presenta non poche controversie agli occhi di chi guarda. Esty, come la Feldman, vive in un limbo fatto di devozione verso le regole con cui è cresciuta e l’asfissia che quelle stesse regole le provocano. Le religioni ultraortodosse sono solitamente caratterizzate dalla segregazione dalla vita pubblica e sociale, dal rifiuto della modernità e dall’applicazione alla lettera dei testi sacri. Pertanto, le donne devono seguire dei precetti ben precisi, soprattutto in termini di modestia e di purezza (tzniut e niddah): è possibile indossare solo gonne, non si può cantare o ballare in pubblico, alle donne sposate vengono rasati i capelli e sostituiti con delle parrucche o copricapi, durante il ciclo mestruale e nei sette giorni seguenti non si possono avere contatti con i propri mariti.
È proprio dal matrimonio che la storia di Esty prende vita sullo schermo: nella cultura chassidica, in quanto discendenti diretti delle vittime della Shoah, il matrimonio rappresenta il momento cruciale che permette finalmente alla donna di compiere il proprio dovere, quello di ridare vita al popolo ebraico – in altre parole, procreare. Il matrimonio con Yanky, come in molti contesti patriarcali ancora vigenti, è deciso a tavolino e s’instaura fin da subito un rapporto di dominanza ben preciso: l’uomo è attivo – spetta a lui, al primo incontro, rivolgere la parola alla futura moglie – la donna è passiva, recipiente della prole che verrà. Una moglie che non è una madre, è una moglie (e una donna) a metà. Esty e Yanky per un anno non riescono a consumare il matrimonio e non stupisce molto che le colpe vengano addossate alla giovane, ridotta a un corpo giacente e sofferente sotto il peso del marito. La presunta incapacità di avere rapporti sessuali di Esty diventa di dominio pubblico nella famiglia di lui, che non perde occasione di sottoporre la giovane a esami e frustrazioni: a Esty viene negato il controllo della parte più intima di sé stessa e del proprio corpo, come se non fosse di sua proprietà. Una vita sessuale appagante è nei fatti un privilegio riservato agli uomini e poco importa se l’unico rapporto che i due hanno si tramuta in una vera violenza, purché il suo obbligo di madre venga compiuto.
Nel distacco dalla sua società, Esty inizia un percorso di riappropriazione del corpo e dei piaceri del corpo, anche quelli più semplici: mostrare i capelli, nuotare in un lago. Chi cresce seguendo dettami molto rigidi impara a vivere contemporaneamente dentro e fuori il proprio corpo, estranea di sé stessa. Tre scene catartiche vedono Esty alla scoperta della propria corporeità che raccontano le sue prime volte, ma che sono anche le nostre prime volte: una – molto potente – è quando vede attraverso uno specchio il suo sesso; la seconda quando indossa dei jeans – vietati alle donne ortodosse; l’ultima è la scena del rossetto, stesso rossetto che poi indosserà in un momento determinante della sua storia personale. Come la stessa Feldman che trova la propria voce nella scrittura, Esty la trova nella musica. L’arte rappresenta l’elemento di rottura con la propria tradizione: se un tempo negata, diventa la linfa vitale della rinascita. Il silenzio a cui è stata destinata per anni si spezza tra l’altro in un luogo fisico e nel contempo simbolico: Berlino, città multiculturale dinamica e sprizzante di vitalità, dove si chiude il cerchio per la storia personale di Esty/Deborah ma anche quella del popolo ebraico.
Unorthodox cerca di raccontare il tema dell’oppressione in un culto dove la diversità in senso lato non può essere accettata, ma nel contempo la frustrazione e il risentimento verso sé stessi per sentire ancora salde le proprie radici. È una storia di significati intensi e di grande sensibilità che inevitabilmente fa riflettere sulla propria condizione di libertà. Senza dubbio, è la rielaborazione critica del trauma personale e di quello collettivo, che ci lascia in qualche modo sospesi; in cui a volte è necessario allontanarsi e guardarlo da una prospettiva diversa, più ampia per comprenderne la portata. Punti bonus:1) interpretazione magistrale per Shira Haas, attrice israeliana, che ha prestato i connotati a Esty Shapiro; 2) la traduzione italiana di Unorthodox di Deborah Feldman sarà disponibile da maggio 2020 con il titolo “Ex ortodossa: il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche”, edito da Abendstern.