Come il pane con la nutella dopo aver finito di fare i compiti negli anni delle elementari, come il bagno caldo dopo una dura giornata di lavoro novembrina, come il viaggio in Portogallo che tanto si era sognato, dopo una vita spesa a sudarsi il pane, la possibilità di fare ciò che ci piace segue sempre un sacrificio, un cammino. Bisogna raggiungerlo quel lusso, quello di fare il cazzo che ci pare. Il miraggio di tutti noi è stato, a quanto sembra, raggiunto da tre ragazzi neozelandesi che a suon di album hanno sempre cercato di bilanciare ciò che sarebbe potuto piacere al pubblico con ciò che piaceva a loro, arrivando persino a far amare ai fan ciò che loro stessi amavano. Stiamo parlando degli Unknown Mortal Orchestra che, con fatica e dedizione, si sono imposti sulla scena musicale psichedelica rock mondiale.
Gli UMO hanno saputo rinnovarsi continuamente e conquistare i fan senza giungere mai ad accordi facili con il mercato musicale ma cercando sempre di mediare una sorta di compromesso tra il loro voler essere innovatori e il cercare di intercettare, in qualche modo, lo spirito del tempo. Spinti dalla critica, da subito entusiasta dei loro primi lavori, gli UMO non hanno mai avuto paura di confrontarsi con la musica strumentale, con la sperimentazione, con l’insolito, incontrando sempre il favore del pubblico continuamente spiazzato e sorpreso ma capace di apprezzare il progetto che emergeva dalle varie sfaccettature musicali che fuoriuscivano dai dischi della band. Se l’intento della band è sempre stato quello di superare i confini di genere, con Sex and Food (il loro precedente album) gli UMO avevano provato a superare loro stessi, allontanandosi dalle atmosfere sospese e oniriche create dalla mente e dalla chitarra del frontman Ruban Nielson per spingersi nei meandri del funk, della disco, del vintage, magnificamente condensate nel brano di punta Hunnybee. Stavolta, con il loro ultimo disco, la band ha provato a sorprenderci nuovamente elaborando in maniera complessa il loro stile, introducendo influenze da Paesi lontani.
Per questa nuova impresa gli UMO sono partiti per cambiare aria e scoprire il mondo altro rappresentato dalla cultura millenaria del Vietnam. Ed è proprio alla capitale del Vietnam che gli UMO dedicano il loro IC-01 Hanoi. L’album composto da 7 tracce (dai titoli con numeri crescenti da Hanoi 1 a Hanoi 7) si pone come uno dei progetti più interessanti dell’anno e come magnifico inventario delle mille interpretazioni del rock contemporaneo. Dal garage rock allo stile più psichedelico che ha reso famoso il trio, senza negarsi delle scorribande di matrice jazzistica e nella world music: quest’ultima rappresenta il probabile fulcro artistico del progetto sotteso a IC-01 Hanoi.
Gli Unknown Mortal Orchestra, confermandosi ancora una volta campioni di contaminazione, hanno deciso non solo di registrare il loro album in Vietnam (negli studi Phù Sa) ma anche di mettere un po’ di Vietnam nel disco. Brani come Hanoi 3 vedono protagonisti alcuni strumenti tipici della cultura vietnamita e il linguaggio musicale dell’isola viene perfettamente integrato (seppur profondamente rispettato) negli stretti pentagrammi del trio. Hanoi 3 sembra essere un intermezzo di 2 minuti e 22 di quasi solo di sáo trúc, il flauto tradizionale del Vietnam, suonato da un musicista local,e Minh Nguyen, ma le influenze strumentali sono molteplici e disseminate per tutta la durata dell’album come una sorta di easter egg. L’intermezzo, per quanto apparentemente estemporaneo, non stona con il resto del disco e con l’idea che sta alla base dello stesso: esplorare fino allo sfinimento.
I brani rispondono a quest’idea e non rappresentano nulla di organico, sono esercizi di stile, pensieri fugaci, momenti cristallizzati in note, sospiri incasellati e catalogati numericamente. Come in un lunghissimo flusso di pensiero, come in un discorso affrontato di fronte alla seconda bottiglia di rosso, gli UMO suonano degli argomenti più disparati, saltano di palo in frasca, cambiano registro, proprio come i brilli gridano e ridono sguaiati per una battuta a sfondo sessuale un attimo dopo aver sussurrato sommessi della disgrazia di un conoscente comune. Il disco non è di facile ascolto, come era stato Sex and Food, maggiormente calato nella quotidianità di ognuno di noi, ma è ipnoticamente costante nel tenerci lì ad ascoltarlo, incuriositi dal prossimo cambio di rotta e da quella attitudine a chiedersi: chissà cosa c’è dopo…
Un concentrato di rock in salsa futurista che si apre con il free rock di Hanoi 1, con una batteria incalzante e una chitarra prog i cui passaggi ricordano gli assoli del precedente album, quasi a voler introdurre la novità senza farci sentire troppo lo sbalzo. Una blietzkrieg di un minuto nell’ordinata confusione creata da Nielson. In Hanoi 2 le atmosfere si fanno più pacate ed eteree, quasi romantiche nella loro capacità di manifestarsi per quello che sono: frutto di una libertà musicale incondizionata, figlia remota dell’insegnamento di Frank Zappa e dei suoi “discorsi” alla chitarra. Hanoi 3 ci teletrasporta in un mondo affascinante e misterioso, poco conosciuto, con uno stile etnico a noi lontanissimo. Ma la dolcezza del flauto tradizionale apre le porte, per contrasto, al postmoderno celebrato in Hanoi 4, con le tastiere che fanno da sottofondo all’angosciante e pesante incedere della chitarra ruvida e ansiosa. Un brano che ci fa stare scomodi sul letto su cui lo stiamo ascoltando, che ci fa venire quasi voglia di cambiare traccia ma che, allo stesso tempo, con la stessa irrefrenabile insistenza con cui ci si stacca le crosticine provocate da una ferita, ci fa rimanere lì immobili ad aspettarne le evoluzioni. In discontinua continuità, Hanoi 5 torna su atmosfere free jazz anche e grazie ai fiati suonati dallo stesso Nielson. Cambi di tempo, dinamiche esageratamente cangianti, mini solo di batterie che cadono nell’etnico in maniera inaspettata. Roba degna di Marinetti. Ma lentamente ci accorgiamo di stare vivendo uno spannung e che questo sta per raggiungere il suo culmine, il suo punto focale, lo scopo del viaggio, rappresentato dalla traccia 6, che è in realtà molte tracce (così da giustificare anche la lunghezza maggiore del brano) in cui coesistono le chitarre tipiche della band, uno scacciapensieri onnipresente e costantemente in azione e una batteria lenta e intensa. Il brano, però, ci racconta una storia, la storia di un sassofono che sembra confessarsi, raccontare degli avvenimenti importanti della propria vita a uno sconosciuto e che, sulle prime, deve mantenere un tono pacato e distaccato ma che, col tempo, si lascia coinvolgere e inizia a raccontare di sé con trasporto, racconta straziato dei propri dolori, delle proprie disgrazie fino ad andare in iperventilazione, gridare, alzare le mani contro quel povero sconosciuto, reo solo di aver voluto fare compagnia a un sax che sembrava triste e solo nell’angolo più buio del bar. Ma la pace viene ristabilita, e lo sconosciuto può lasciare il sax rassegnato al suo tavolo, mentre torna a casa nella notte. Hanoi 7, a questo punto, rappresenta il defaticamento dallo spannung creato in precedenza, la zona di limbo prima di tornare alla vita normale.
Forte di un bisogno, dell’esigenza degli Unknown Mortal Orchestra di dare sfogo e forma a qualche loro necessità espressiva, IC-01 Hanoi conferma le potenzialità e la classe della band che, al netto di un’incredibile capacità di sperimentazione, è in grado di rendere la sua musica piacevole, appassionata e mai, davvero mai, noiosa.