James Lavelle è un po’ l’Elizabeth Taylor del trip-hop: la sua creatura UNKLE è passata, nel corso di 25 anni, attraverso almeno quattro matrimoni iniziati con grande entusiasmo e finiti male — old story nel campo delle relazioni sentimentali — che ci hanno lasciato in dono altrettanti album (più una colonna sonora) che, ascoltati oggi, uno dopo l’altro, suonano belli e dannati come dei fratellastri, somiglianti l’un l’altro quel poco che basta per dire che sì, la mamma è la stessa ma — come si usa malignare — sul papà meglio non sbilanciarsi troppo. Ogni volta, stagione dopo stagione, con caparbietà invidiabile, l’idea UNKLE si è reincarnata in qualcosa di diverso, anche se mai a caso e costantemente al passo con i tempi, trasformando così un potenziale punto debole in tratto caratteristico e diventando ufficialmente l’esempio più eclatante — di successo e di riferimento — di “progetto collaborativo” o, come fa più fico dire, “collettivo musicale”.
L’unico difetto che Lavelle, in tutti questi anni, non era ancora riuscito a eliminare dal DNA degli UNKLE era il fatto che ognuno di questi matrimoni — fruttosi quanto falliti — era, per così dire, tra consanguinei: compagni di banco al liceo prima (Tim Goldsworthy) e compagni di merende all’interno della leggendaria etichetta indipendente britannica Mo’ Wax poi (DJ Shadow, Richard File, Pablo Clements). La genetica stessa — oltre che qualunque corso pre-matrimoniale — ci dice che non è propriamente una cosa sana: è un po’ come fidanzarsi con la cugina, e poi lasciarla per fidanzarsi con la sua migliore amica, che a sua volta si mette insieme al tuo migliore amico, che poi la lascia e inizia a uscire con la tua migliore amica, che, da sempre, indovina un po’ chi è? Esatto: tua cugina. Oltre che con figli ad alto rischio di difetti congeniti, ti ritrovi invischiato per decenni nelle stesse dinamiche relazionali e, più il tempo passa, più diventa difficile distinguere la componente di energia positiva che genera creatività e linfa vitale dal progressivo sfinimento per questioni a cui fai fatica pure a dare un nome. La cosa peggiore è che rischi di farci l’abitudine, di pensare che sia la normalità.
Ecco, questo The Road: Part 1, che esce — con tutta la calma che ci vuole quando devi fare piazza pulita, aspettare che il respiro si regolarizzi dall’affanno e ripartire non dico senza guardarti indietro, ma almeno guardandoti indietro senza il rischio che ti venga voglia di far subito inversione a “U” per colpa di quella famosa “nostalgia canaglia” — a sette anni di distanza dall’ultima fatica a di Lavelle a nome UNKLE, è la lettera maiuscola dopo il punto di non ritorno: la risposta controllata di chi è stato in bilico sull’orlo di farcela, l’abitudine al peggio, ma è riuscito a ritrovare l’equilibrio spostandosi un passo indietro e realizzare che non poteva esserlo, la normalità.
Mark McNaughton ha scritto con la consueta arguzia “1998’s hip hop watermark ‘Psyence Fiction’ left UNKLE living in a certain DJ’s shadow.” Rilanciando il gioco di parole a cavallo di due lingue, possiamo dire che con questo album James Lavelle esce definitivamente dall’ombra di quel fenomenale debutto e — senza nemmeno perdere un attimo a socchiudere gli occhi per la troppa luce — inizia a proiettare la propria, riuscendo finalmente a partorire un vero e proprio “UNKLE record” e non la versione di qualcun altro di un disco degli UNKLE. Non dico che possiamo riassumere il tutto con drastico “meglio solo che male accompagnati” e lungi da me il pensiero di negare l’importanza di Joshua Davis e dei vari Goldsworthy, File e Clements nelle produzioni passate, però la sensazione di sollievo e liberazione qui è presente fin da subito, ancor prima di essere sicuri di aver davvero chiuso tutti i conti con quel che è stato, ma solo per il fatto di aver deciso di iniziare a farlo.
In questo senso non è un caso se l’album si apre con la voce dell’attore scozzese Brian Cox che ci (gli? si? — tutte le cose insieme, probabilmente) chiede: “Have you looked at yourself? And have you thought about the mistakes you’ve made?”. Strutturato se non esattamente proprio come un concept album, diciamo almeno come mezzo concept album, a tema “ricomincio da me”, The Road: Part 1 dichiara quindi fin dall’inizio il suo ruolo catartico, la sua funzione di fresh start, liberatoria da tutte le tossine di un passato a dir poco asfissiante. Che poi, “ricomincio da me” si fa per dire, visto che comunque, anche nel 2017, gli UNKLE — ora formalmente composti dal solo Lavelle — non rinunciano alla loro natura di aggregazione contaminata e chiamano a bordo un qualificatissimo roster privo di prime donne (se si esclude il vecchio amico di famiglia Mark Lanegan) ma in cui si distribuiscono equamente professionisti che difficilmente deludono (Leila Moss dei Duke Spirit, Andrew Innes dei Primal Scream, Jon Theodore e Troy Van Leeuwen dei Queens of the Stone Age, il batterista di Beck Justin Stanley) e nuovi nomi dal brillante futuro assicurato (Keaton Henson, Dhani Harrison, Elliott Power, Mïnk, YSÉE), molti dei quali usciti dal mazzo di carte raccolto per le selezioni della lineup del Meltdown, storico festival di Southbank a cui Lavelle ha partecipato nell’edizione del 2014 in qualità di curatore (ruolo in passato toccato a personaggi del calibro di David Bowie, Patti Smith, Morrissey, Nick Cave, Elvis Costello e Massive Attack). Paragonando i nuovi compagni di viaggio agli ingombranti ospiti dei dischi precedenti (Thom Yorke, Josh Homme, Richard Ashcroft, Badly Drawn Boy, Brian Eno, Jarvis Cocker, Ian Astbury — solo per citarne alcuni), c’è chi potrebbe storcere il naso, ma — onestamente — sbaglierebbe completamente il bersaglio dell’analisi: la raffinatezza dei dischi degli UNKLE sta proprio nel modo, nella perfezione e nella naturalezza con cui ogni pezzo risulta vero (quasi fosse proprio scritto da lui) se associato al relativo guest, ma allo stesso tempo sempre palesemente attorcigliato attorno allo scheletro di un ben preciso e riconoscibile “UNKLE sound”. Ovvero nel lavoro di orchestrazione e rifinitura sartoriale che Lavelle stesso riesce a fare, non si sa bene in quale ordine: sceglie l’artista e gli cuce addosso il vestito oppure compone la musiche e poi ne trova il perfetto interprete? Vista la qualità del risultato, direi che la risposta può passare in secondo piano.
Così — dopo quanto detto, la cosa non stupisce — l’album (come in reverse, dopo la spoken intro) parte da quello che dovrebbe essere un finale, ovvero con un commiato: Farewell è l’unica traccia a vedere la partecipazione di praticamente tutti gli ospiti in contemporanea, quasi una presentazione della squadra, in una specie di We Are the World, ma meno “volemosebbène”. Subito a seguire, troviamo Mark Lanegan che fa quello che deve fare in Looking for the Rain, il falsetto di Keaton Henson che ti raschia via l’anima sia in Sonata che in Sick Lullaby, una Nowhere to Run / Bandits che sarebbe stata capace di brillare anche in War Stories (quello che è considerato dai più “l’album rock” degli UNKLE), la title-track, che parte piano ma in breve si trasforma in delizioso big beat di cui sarebbero orgoglioso il lato psichedelico dei migliori Chemical Brothers, e infine la voce di Leila Moss, che in Sunrise apre un barlume di speranza in mezzo a questo cammino post-apocalittico.
Il tutto è intervallato da intermezzi parlati che teoricamente dovrebbero segnare le tappe della via crucis raccontata nel disco e questa, forse — l’ostinazione di presentare The Road come un lunghissimo concept, intendo — è l’unico, piccolo, difetto di tutto il lavoro. Pecca veniale in fin dei conti. Anche perchè c’è da capirlo, James Lavelle: dopo quasi dieci anni di silenzio l’urgenza di tornare in pista con una serie di statement — ovvero con la necessità che il messaggio che vuoi comunicare sia il più chiaro possibile e la storia lungo la quale vuole accompagnare gli ascoltatori più lineare che mai — è assolutamente giustificabile. Solo che non ce n’era bisogno: è come se in questa esigenza di limpidezza gli avesse fatto dimenticare che quello che gli serviva per non essere frainteso era già tutto nelle sue canzoni, canzoni costruite con attenzione attorno a una bellezza malinconica che non può non affascinare chi incontra e che vanno ben oltre — sin dal primo ascolto — il semplice cliché “electronic producer + guest”. Questo perché molti dei collaboratori di Lavelle sono artisti che in un modo o in un altro hanno già lavorato con lui in un passato più o meno recente, e si vede: c’è una certa familiarità che aleggia per tutto il disco e che permette da un lato — a lui — di tirar fuori il meglio dai suoi ospiti e dall’altro — a loro — di intuire le sue intenzioni e scivolarci dentro apparentemente senza il minimo sforzo.
Quando, dopo un quarto di secolo di produttive partnership con il meglio della scena internazionale, ti ritrovi in studio con ragazzi che prima ancora che tuoi colleghi sono innanzitutto tuoi fan — per dire, Elliott Power ha dichiarato di essersi avvicinato all’opera, sia musicale che visuale, di Lavelle grazie agli album degli UNKLE che aveva trovato nella collezione di dischi di sua madre — capisci che stai invecchiando, che è arrivato il momento di chiudere un’epoca (e soprattutto con un’epoca) e di rimanere saldamente ancorato all’oggi forte di una nuova consapevolezza del tuo ruolo attuale. Ma capisci anche che invecchiare non è necessariamente così male, soprattutto se trovi il modo di mettere tutto il tuo talento e la tua esperienza lucidamente al servizio dell’entusiasmo di quella nuova generazione che con il tuo lavoro precedente hai così pesantemente influenzato. Perché dal tempo non si scampa e da un adattamento intelligente fallito (nel senso darwiniano del termine) allo status di feticcio anacronistico il passo è breve e il confine labile. In altri termini, se eri così famoso negli anni ‘90 e oggi stai ancora facendo le stesse cose, delle due, l’una: o quella che stai descrivendo non è più la tua realtà oppure — se sei ancora invischiato in quel tipo di lifestyle — il tutto è abbastanza triste e ti meriteresti (giocando per un attimo con il nome della tua band) un sonoro “bella zio!”.
James Lavelle non vuole correre questo rischio, lo dice senza il minimo imbarazzo e solo Dio sa quando gli siamo grati per questo. “When you’re in the 90s, you have yourself a record deal (which was generally quite lucrative) and it was the lunatics running the asylum. ‘Here’s a record deal, here are the drugs, here’s the alcohol, everything is one big party and it’s great.’ When you’ve done that for 25 years, then at the age of 43 you want to make a record that’s a bit more present, mentally, and more personal, emotionally.” Con queste premesse, è quindi quasi inevitabile che questo finisca per essere, forse, l’album più concreto — pensato e sentito — di tutto il catalogo di un progetto innegabilmente innovativo e a suo modo visionario come quello degli UNKLE.
“Un uomo non riesce a conoscere la propria mente perché la mente è tutto quello che ha per conoscerla. Può conoscere il proprio cuore, ma non vuole. E fa bene. Meglio non guardarci dentro.” — dice il vecchio eremita dell’omonimo romanzo di Cormac McCarthy. Non è ben chiaro se e quanto il libro abbia influenzato questo lavoro, almeno in termini di contenuti e atmosfere, ma credo che non sia poi così lontano dal vero affermare che, proprio che con The Road: Part 1, James Lavelle, dopo aver essersi impegnato a costruire una carriera dando vita alle molteplici — a volte geniali, a volte bizzarre, spesso contaminate da tutta una serie di sostanze chimiche con effetti a ampio spettro — creature della sua mente, abbia finalmente deciso di andare contro quel consiglio spassionato e di ripartire chiedendo aiuto al cuore. L’impressione è che — contro ogni pronostico — abbia gradito l’esperimento e, anche se dove porterà questa strada non è così facile da prevedere, è facile immaginare che si rivelerà una direzione lungo la quale sarà molto piacevole — nella peggiore delle ipotesi — perdersi.