Una generazione

Ho riflettuto molto in questi mesi su ciò che siamo. Sui termini con cui la nostra abitudine a dimenticare rischi di annientarci, giorno dopo giorno. E renderci indifferenti. Dimenticare è una di quelle azioni che, come esseri umani, ci riesce piuttosto bene. Ci capita di volerlo, ma molto più spesso si tratta di un riflesso involontario come sbattere le palpebre, respirare o muovere il ginocchio quando veniamo colpiti sotto la rotula. Di un pensiero che semplicemente scompare o vaga nella memoria per un tempo indefinito finché una scintilla, all’improvviso, non lo risveglia. Fa parte del campionario di meccanismi di sopravvivenza con cui nasciamo, per questa ragione è difficile considerarlo una colpa o un problema eppure la memoria costituisce gran parte di ciò che possediamo. Un filo diretto che conserva viva la nostra identità, la definisce e nasconde quella speranza di lasciare, quando arriverà il giorno, qualcosa di noi in chi verrà dopo. Il concetto di memoria collettiva sottintende la sua profonda valenza sociale, basata sugli scambi indecifrabili fra noi e chi ci passa accanto. Perdere un ricordo, proprio per questo suo valore intrinseco, spesso implica la completa deriva di una società, la rende contemporaneamente incapace di esprimersi e di evitare gli errori, fragile e quindi più facile da manipolare. Uno dei primi aspetti su cui i regimi autoritari tendono ad agire per consolidare il proprio potere è proprio rimodulare la storia comune e il suo sistema di valori, cercando di instillare una cultura arrendevole e omologata che possa cancellare il dissenso e mascheri, con forza e violenza, la ricerca della verità che li sfida. Disporre di una generazione di giovani senza memoria permette di indirizzare la loro attenzione verso un’unica versione del presente e condannarli, di fatto, a essere la loro riproduzione più riuscita. Li affameranno, proponendogli sempre meno prospettive a più anni di lavoro, certi di poterla scampare. prenderanno alcuni di quelli riusciti meglio per convincere gli altri che qualcosa stia cambiando. Di questo passo non solo cominceranno ad odiarsi, l’uno con l’altro ma, peggio, significherà che avranno già cominciato a dimenticare.

 

 

Thomas Leuthard, Nothing Changes if Nothing Changes, 2011

 

Una generazione senza memoria

 

Era comune per i sopravvissuti ai gulag e ai campi di concentramento trovarsi senza voce mentre stavano sognando. Ne dava una ragione Primo Levi nei suoi scritti, descrivendo il sentimento del salvato come un’ora di meriggio, non buio né luce. La sospensione fra la vita e la morte, dove solo il dovere nei confronti di chi era rimasto sommerso gli dava la forza minima per continuare. Ma ne parlava anche Gabriel Garcia Marquez, nei Cent’anni di solitudine, quando il paesino di Macondo si trovava prossimo all’estinzione, non a caso, proprio per la perdita della memoria e del senso delle parole: «Visitación non lo riconobbe quando aprì la porta, e pensò che avesse l’intenzione di vendere qualcosa, ignorando che nulla si poteva vendere in un paese che stava affondando senza rimedia nell’aggallato della dimenticanza.» Potere e responsabilità. Pochi giorni fa, a proposito di parole e ricordo, il tempo ha segnato due anni dalla scomparsa di Giulio Regeni. Dalla sua esecuzione, vogliamo dire, che lo ha reso un sommerso. Senza colpe, esattamente come i compagni di Levi. Non erano violenti, non erano delinquenti, conducevano una vita normale nella maggior parte dei casi ma qualcuno abbastanza importante aveva deciso che non lo era più. Un’altra delle parole che ricorrono nelle pagine dell’autore torinese è la colpa, di essere sopravvissuti («Sopravvivevano i peggiori, cioè i più adatti; i migliori sono morti tutti.», scriveva ne La tregua) e di continuare a far parte della stessa specie di chi ha potuto solo concepire un progetto come quello della Soluzione Finale, e per i suoi carnefici che a Norimberga si sarebbero detti colpevoli di fedeltà e impotenza o vittime di un processo dissociativo in grado di annullargli la forza di volontà. Niente più di una amnesia, una non-colpa. Solo a chi dimentica è riservato il lusso di sopravvivere, rifletteva ancora Levi, perché il ricordo è una responsabilità dolorosa ma necessaria per non compiere gli stessi errori. Ma per Regeni non ci sarà nessuna giornata mondiale. Presto se ne dimenticheranno in molti, fra i tanti che c’erano prima, perché la generazione senza memoria vive di istanti, perché è così schiacciata da non poter fermarsi. La sua corsa è in salita e per arrivare in cima sembra necessario liberarsi di tutto ciò che potrebbe rallentare il suo percorso. Non perché seguano grandi progetti, ma perché il peso della contemporaneità è così imponente da lasciarli in un perenne stato di stallo. Sopravvivere e dimenticare. Una generazione pulita in un paese sporco, parafrasando Pasolini, che ci mette poco per imbrattarsi i vestiti del proprio sangue e, banalmente, a pretendere che quella macchia, così comune, possa sostituire l’idea di pulito.

Il risentimento e la maturità

Questa è l’epoca del risentimento. Delle fratture insanabili e delle sorprese spiacevoli, di un graduale ritorno alle dietrologie legate a simboli più o meno magici in grado di trasmettere un senso di sicurezza e compattezza in chi li segue. La maggior parte si stabilisce a debita distanza. Evita di confondersi, preferisce stare in disparte e avvertire un senso di disperazione che non conosce. Limitarlo, se possibile, o trovargli dei responsabili facilmente reperibili. Termini che, del resto, riempiono le pagine delle agende politiche da una ventina di anni e non creano modelli alternativi. In un’ottica di scelta in cui uno vale l’altro il discorso politico si ammuffisce sul voto utile e quello di responsabilità. Avanzano i gruppi di protesta, quelli che alla programmazione preferiscono la pancia, un organo non dotato di memoria che si sazia facilmente e più lo alimenti più sente la necessità di farlo.

Senza memoria, senza politica, ma con la pretesa che ciò di cui non si prendono cura lo faccia da solo invece di annientarsi. Un divario ampio, fra realtà e necessità, che riguarda un insegnamento impartito male, lasciato all’interpretazione e predestinato al silenzio, così come accadrà ai protagonisti di questo ragionamento, intrappolati in un sistema che vorrebbero poter replicare, quello dei propri genitori, ma che non è sostenibile per nessuno. L’assenza di una frattura generazionale, che potesse fungere da potenziale campo di scontro in termini di autodeterminazione e definizione di un’identità altra, ha trasformato il dissenso in una prevaricazione sfiancata, una guerra fra giovani insoddisfatti e risentiti. Le democrazie vacillano, sotto l’afflusso di movimenti che si organizzano contro di loro, col rischio che qualcuno sia troppo indeciso per sapere da che parte sia giusto schierarsi. Questo fronte di indecisione, alimentato dalle insicurezze e un sentimento di disfatta preventivo che protegge, lo fa con un corpo senza più vita, sfiancato da un’insostenibile riproduzione dell’identica soggettività malata. Volevamo solo la nostra felicità ma forse non siamo mai stati in grado di concepirla in un senso più esteso, che riguardasse le condizioni con cui questo sentimento possa effettivamente manifestarsi. Non ci siamo mai spesi in questi termini e chi lo ha fatto come Giulio Regeni a migliaia di chilometri da casa, si è visto respinto e abbandonato.

 

Thomas Leuthard, Beauty Lies in the Eye of the Beholder

 

Gli occhi degli altri

 

Corpi immaturi, destinati a perdersi sotto le continue invettive ricevute da chi li ha messi in questa situazione drastica. Stando ai dati degli ultimi tempi è molto probabile che intere generazioni, nell’ordine di una decina d’anni, funzioneranno come riserva per pagare le pensioni in un’idea di interscambio che non prevede garanzie per entrambe le parti. Metteranno da parte pochi soldi, prima di un inallontanabile momento di default, in cui prospereranno le risposte semplici, di petto e, infine, lo scontro. Il paese sporco, di nuovo, sarà immerso fra questi rifiuti di cui non potrà più preoccuparsi. Servirà un colpo, o forse un miracolo, per ristabilire i termini di umanità reciproca, per scontare il peso delle scelte sbagliate che sono state prese senza consultarli. Una responsabilità diretta, che coinvolge tutti gli individui e non ne salva nessuno. Non la politica, non chi gli aveva assicurato che si sarebbero presi cura di loro. E questo smacco capovolge le bussole, inverte le direzioni, e mentre le generazioni successive ritornano ai falsi miti, al fascismo come moda, al culto del simbolo, il tempo scorre sempre più veloce senza interpreti con abbastanza seguito per riprenderlo in mano.

Degli interpreti con abbastanza coraggio per comprendere, o solo persone con una memoria solida, è quello che manca, per immergersi completamente in questo sistema cancerogeno e destinato all’oscurità. Lasciarsi guidare, ristabilendo un antico legame non in termini di consenso, né in quelli di dominio. Ricominciare a immaginare un paese che li comprenda e gli restituisca una dignità, prima che si troppo tardi. Ampliare le vedute, prima che tutto si riduca a un contrasto rancoroso per poche briciole, è quello che dobbiamo a chi verrà dopo di noi, a quei figli e nipoti che potremmo non vedere mai per ragioni fin troppo evidenti.

 

La generazione senza memoria rischia di ritrovarsi arrabbiata senza saperne il motivo e non riuscire a incanalare la propria potenza in direzione del progresso e dell’evoluzione della società. Affideranno i propri voti in cambio di sicurezza, preferenze di razza e parità fiscali, quando dovrebbero pretendere di avere molto di più. Ma gli occhi, questi stanchi lavoratori, non sanno più da che parte guardare.

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