“Io non domando fama, domando ascolto” scriveva Sibilla Aleramo, pseudonimo di Marta Felicina Faccio detta Rina, ed è solo una delle tante donne scrittrici della nostra letteratura e non solo che potrebbero ancora reclamare il diritto a essere lette e apprezzate, invece di finire in una lunga lista di nomi trascurati dal canone e dei manuali che gli uomini si sono ricamati addosso.
Incastrata per anni nella narrazione che di lei hanno portato i suoi tanti amori – Dino Campana, con cui è stata dal 1916 al 1918 e di cui ci resta un appassionato carteggio; il pittore e scultore futurista Boccioni, per dirne alcuni – che le valsero l’appellativo di “puttana della letteratura italiana”, la figura di Sibilla Aleramo ha una storia e una coscienza anticipatrice che premono per essere riscoperte.
Rina Faccio nasce nell’agosto del 1876 ad Alessandria, da genitori piemontesi della piccola borghesia. Trascorre la fanciullezza a Milano, da cui poi si trasferisce per recarsi in un borgo delle Marche – che lei chiama il “sud”, secondo la prospettiva di allora – per un incarico del padre in una fabbrica dove anche lei inizierà a lavorare. Il rapporto con la figura paterna resterà per grande parte dei suoi anni di gioventù come quello di guida; mentre la madre, condannata alla vita delle donne del tardo ottocento, cede a una condizione limitante e alla depressione che Aleramo rifiuterà fino al momento in cui non riuscirà a leggerla sulla propria pelle.
Nel 1892 la sua “fanciullezza libera e gagliarda” verrà infatti corrotta dalla violenza sessuale subita da Ulderico Pierangeli, un operaio che lavorava con lei e il padre. Nella migliore delle tradizioni italiane, da cui siamo riuscite a liberarci neanche troppi decenni fa, Aleramo sarà costretta a un matrimonio riparatore da cui nel 1895 nasce un figlio. Aleramo però si sente incastrata nel corpo e nella mente: soffocata da un marito la cui intelligenza è decisamente meno brillante della sua – che da sempre ha percepito l’emozione dello studio e della ricerca – e che continua a perpetrare la violenza dello stupro, limitandola nelle azioni e nel lavoro. Aleramo troverà ben poco conforto nella sua funzione di madre, tanto da finire per provare a liberarsi da questa realtà-prigione facendo uso del laudano in un tentativo suicida.
Aleramo però per fortuna sopravvive e dopo un primo trasferimento in cui fa ritorno a Milano – dove inizia a collaborare per la rivista Italia Femminile – per il lavoro del marito, nel 1902 decide di prendere definitivamente in mano la sua vita e di abbandonare il focolare domestico, e con esso il matrimonio e il ruolo di madre. Si trasferisce a Roma, capitale di cultura, in un’epoca in cui il dibattito sui diritti delle donne e l’emancipazione femminile erano già argomento politico, e all’età di trent’anni decide di fare un dono alla letteratura e alle donne delle future generazioni. Dopo quattro anni di lavoro e tre stesure, il 3 Novembre 1906 viene pubblicato il suo primo romanzo: Una donna – dettagliata autoanalisi di un rapporto di emancipazione.
Sibilla Aleramo non nasce romanziera, arriva alla scrittura quasi accidentalmente – oserei dire anche quasi per necessità. La scrittura diventa infatti per lei esplicitamente il luogo in cui riversare gran parte di sé; un mezzo attraverso cui passa la ricerca della propria identità. In Una donna troviamo larga parte del suo vissuto, dalla già citata fanciullezza fino all’abbandono dell’unità familiare in cui era rimasta incastrata. C’è il legame col padre, il disprezzo della madre fino alla riscoperta successiva; c’è la violenza e c’è l’esperienza del parto e della maternità. Aleramo – per la quale il legame tra scrittura e vita resterà per sempre il tratto distintivo della sua opera – però non dà nomi propri alle persone, non si impone nella narrazione, a partire dal titolo e da quell’articolo indeterminativo che vuole liberare l’esperienza femminile dal pericolo di restare sintetizzata nelle singolarità.
Non a caso viene considerata una pensatrice anticipatrice dalla corrente della differenza del femminismo degli anni ’70. Fin da subito, e proprio a partire da quella indeterminatezza, il suo intento non è tanto quello di raccontare di sé, ma quella di far risuonare nel suo vissuto quello di tutte le donne della sua generazione. La sua non resta però una convinzione da esplicare solo su carta, ma qualcosa da ribadire in ogni confronto.
Agli uomini del suo tempo faceva infatti notare come quanto la cultura che li ha cullati abbia portato le donne ad adattare la propria intelligenza a quella maschile, negandosi una propria ricerca individuale pur di trovare approvazione; e allo stesso tempo spingeva le donne a compiere una rivoluzione, a scoprire i caratteri specifici del proprio essere, rimasti per molto tempo anche a loro stesse celati.
Avvicinarsi alla lettura di Una donna, a distanza di più di un secolo e già a sessant’anni dalla morte di Aleramo, resta un’esperienza particolare. In primo luogo perché probabilmente molti degli stigmi sulle donne, che su di lei ricaddero in forma di giudizi e veti durante la sua carriera, non sono ancora del tutto superati: la fedeltà al marito, ma soprattutto il sacrificio come essenza stessa del materno. Aleramo sfidò i tempi e le convenzioni, e scrisse di sé e dell’essere donna in un modo in cui nessun libro di donne era ancora riuscito a fare. Ma soprattutto in un modo che resta tragicamente attuale.
Con fare probabilmente ignorante, pensavo di riconoscere tra le pagine di questo romanzo degli indizi proto-femministi, delle intuizioni che avrebbero trovato un nome solo successivamente, eppure mi sono sorpresa di riscoprire in Aleramo una precisione prima di tutto nelle parole. Aleramo, con una penna tagliente e dolorosa, parla dell’esperienza tragica di un vissuto femminile come il suo, così come scrive più volte la parola femminismo, come all’inizio della sua collaborazione all’interno di una redazione:
Un fatto di cronaca avvenuto nel capoluogo della provincia m’indusse irresistibilmente a scrivere un articoletto e a mandarlo ad un giornale di Roma, che lo pubblicò. Era in quello scritto la parola femminismo. E quando la vidi così, stampata, la parola dall’aspro suono mi parve d’un tratto acquistare intera la sua significazione, designarmi veramente un ideale nuovo.
E poi ancora:
“Femminismo!” esclamava ella. “Organizzazione di operaie, legislazione sul lavoro, emancipazione legale, divorzio, voto amministrativo e politico… Tutto questo, sì, è un compito immenso, eppure non è che la superificie: bisogna riformare la coscienza dell’uomo, creare quella della donna!”
Se è vero che molti dei diritti qui citati sono già stati ottenuti, e che l’obiettivo sulla coscienza femminile è stato poi puntato da molte delle donne del secondo Novecento, è sorprendente come Aleramo fosse già in grado di esprimersi sulla condizione delle donne con questa lucidità, passando dal corpo fino al focus – in Una donna solo parzialmente citato – della condizione sul lavoro.
D’altro canto, le vittime non piacevano a Sibilla Aleramo e in tutta la sua vita a venire provò a liberarsi da questa etichetta, a dare nuova linfa al significato di “essere donna”, a costituire nuovi legami con altre scrittrici politicamente attive, come Alba De Céspedes.
Visse con passione e alla ricerca di un sogno d’amore a cui non smesse mai di credere, così come visse di innamoramenti e di fascino per il talento degli uomini che le furono accanto. Venne giudicata per la seconda volta per questo, pagando il fatto di non aver avuto un solo uomo che la introducesse nei giusti salotti letterari, ma di averne avuti tanti.
Nel 1940 scrive tra le prime pagine di un diario che l’accompagnerà fino alla morte “[…] circola nel mondo un’imagine di me parziale, imperfetta e persino falsa […]“, ma anche “[…] Ma guai se dopo ogni feroce sconfitta non avessi avuto, sempre, il sostegno di credere in una virtù della mia voce, sia pur minima virtù. Io che non ho una fede ultraterrena. E forse poco fa ho mentito a me stessa dicendo che disprezzo tutto quanto ho scritto. S’anche non potessi più trarre da un me un canto, ciò non cancella che in qualche istante della mia vita io sono stata, sono stata poeta“.
È stata poeta ed è stata scrittrice, scrisse ancora molto rivelandosi nei suoi testi più personali e intimi. Ebbe una voce forte tanto quanto, e forse pure di più, di molti colleghi maschi eppure resta ancora trascurata e poco conosciuta ai più. Per fortuna, siamo ancora in grado di rileggerla e restituirle lo spazio che da millenni viene sistematicamente sottratto alle donne.