Prima di leggere alcuni libri aspetto che passino sopra mesi, se non anni. Ho questa consuetudine perché vorrei evitare di far cadere alcuni titoli nel dimenticatoio modale del momento. Uscite annunciate con squilli di tromba e poi, dopo qualche mese, nulla più. Se ne parla fin quando tutto fa brodo, dopodiché il libro può considerarsi bello che andato. È anche vero che ci sono titoli e titoli, quelli che riescono a creare un filone continuativo tra opera e autore, alimentando un certo modo di concepire la letteratura che va ben oltre il mezzo cartaceo, fino a sedimentare le proprie radici in aspetti della cultura che diventano complementi di nostra appartenenza.
Le storie creano basi solide che andranno poi a fortificare e ri-fortificare le nostre menti, le nostre anime, perdute nel trambusto giornaliero a cui siamo esposti. A questo punto privilegiamo l’autenticità del titolo, scegliendo accuratamente a chi affidare le sorti del voler condurre altrove i nostri sguardi. Ecco che, ad esempio, preferiamo le pubblicazioni sudate, quelle a cui le case editrici hanno lavorato sodo per far sì che un romanzo rientrasse tra le cosiddette pagine stampate. La giusta tiratura viene affiancata alle giuste presentazioni con tanto di ospiti perfetti, ovvero quelli che si impegnano per una letteratura lontana dai riflettori dei super ricavi nel bilancio della fine del mese.
Il ristorante, immagine tutta americana di McDonaldizzazione che negli ultimi tempi si è vista sempre più lanciata in avanti, consegna al lettore un quadro generale dove si incontrano le esigenze più strane che mai possano coesistere, un coacervo di disagio e cadute irreparabili fino a toccare il fondo liquefatto. I rapporti umani vengono sciolti nell’acido mantenuto caldo dalla Tierce, lo stesso acido che consentirà poi di ammirare le nobili origini di essi.
Si susseguono scopate, scopate desiderate e scopate deliranti. Corpi che si danno appuntamento sul retro del locale, in camere di motel e in case disabitate. I fluidi che emanano sono il risultato ultimo di una funzione spinta verso ogni limite. Con la maggior parte degli uomini Marie finge, lasciando il posto a orgasmi meccanici che sostituiscono il diametro della realtà con il vuoto, fino a falsificarla del tutto. Come se l’automatismo di un cancello non funzionasse nel momento del bisogno nonostante si premano i pulsanti del telecomando.
È questo l’esordio narrativo di Merritt Tierce. Love Me Back, titolo originale dell’opera, sembra essere un chiaro riferimento al tornare definitivamente in carreggiata. I continui tradimenti ad un marito poco più che adolescente, pagine di intermezzi dedicati alla figlia che fungono da resoconti finali su una vita vissuta scandendo un ritmo alla velocità della luce, la stessa che ti lascia a bocca aperta per l’edonismo inconsapevole che la protagonista mette in mostra sul palcoscenico della sua esistenza. Le sigarette, l’alcol e la cocaina, «bisogna perdersi per ritrovarsi» potrebbe insinuare qualcuno.
Nel frattempo il ristorante dove lavora Marie è diventato un microcosmo dove tutto assume le caratteristiche di una palla da tennis impazzita che fa su e giù per il rettangolo di terra rossa. George, Danny, Cal e i messicani con la roba nelle tasche, disponibili a fornire dosi magiche a chi ne ha più bisogno. I clienti, le mance abbondanti e i colleghi sempre pronti a tenersi qualcosa in più per loro. Gli occhi dolci degli uomini/clienti fissi, quelli che non aspettano altro che portarti a letto una volta per tutte e aggiudicarsi l’ennesimo trofeo nella battaglia che vede al centro di tutto i desideri più reconditi realizzarsi.
In Carne Viva c’è tutto quello che serve per partire alla scoperta di un mondo estraneo e colorito in ogni suo angolo buio. Merritt Tierce ha dato vita ad un grosso contenitore che riesce a mantenere nello stesso posto tutti i retroscena più disparati tra loro a cui possiamo pensare. È la fedele riproduzione di una stanza in cui finiscono tutti gli ammalati di questo mondo, indipendentemente dall’origine del loro dolore. Ossa fratturate, dita recise e stati d’animo febbricitanti. Ad ognuno il suo.
Ecco allora la lotta alla sopravvivenza impersonata dall’arrivo alla fine del mese. Una lotta che ti costringe a fare i conti con il passato, che ti fa accomodare proprio dinanzi a quello che è stato, suscitando sentimenti di rancore e di tristezza perché non si è riusciti a fare abbastanza. La ricerca a tutti i costi di un lavoro, un posto da cameriera in un ristorante frequentato da esseri umani persi nella loro stessa ingordigia, vaganti come zombie in un mare di sperma e vomito da sbronza colossale.
In tutto questo, l’editore che sceglie di inaugurare una nuova collana – in questo caso BigSur – con un esordio come questo di Merritt Tierce è la prova della volontà di contribuire alla costruzione di una letteratura che si contraddistingue per la sua portata sempre più diretta, sempre più schietta, una letteratura che si aggrappa alle assi che compongono il nostro vissuto, restistendo magistralmente ad ogni tentativo di disarmo. Marie, la protagonista di Carne Viva, mette in dubbio ogni sovrastruttura che le si presenta, riuscendo ad essere la testimone unica del suo stesso declino. Un declino necessario che riporta l’attenzione sui meandri nascosti lungo la discesa repentina, una corsa rappresentata dal gravitare inerme del suo corpo dinanzi allo scorrere del tempo.