I. Ritorni
Suo padre se n’era andato il primo martedì di dicembre. Quel giorno pioveva e all’unico suo erede era toccato prendersi un taxi per raggiungere la città dall’aeroporto. Lo sciopero dei treni l’avrebbe abbandonato in uno di quei gate per compagnie low cost fino al giorno seguente, senza preoccuparsi di lui, costringendolo a mimetizzarsi tra i genitori con i carrelli pieni di valigie che, mentre si dirigevano verso la zona ristoro, non perdevano mai di vista gli zainetti rosa delle loro figlie. Anche loro erano rimasti fregati ma probabilmente qualcuno li sarebbe venuti a prendere. Tomy, invece, non aveva più nessuno in quella città, nemmeno suo padre, che aveva avuto la grande idea di morire la settimana più importante della sua vita, quella in cui avrebbe avuto un appuntamento con un rappresentante di Scribner o Gallimard, per presentargli il suo ultimo romanzo, dopo una serie di incongrui fallimenti sentimentali e professionali che lo avevano praticamente lasciato in bancarotta. La telefonata di Veronika, la badante romena di suo padre, una donna di centodue chili per un metro e cinquantotto di altezza rinchiusi dentro una vestaglia troppo stretta per poterla farla stare comoda, aveva interrotto il coito che stava avendo con Merthe, la ragazza tedesca conosciuta anni prima ma con cui era riuscito a concludere per la prima volta solo quella notte, dopo un paio di bottiglie a caro prezzo che gli erano servite per stordirla. «Padre morto, venire presto. Cosa farà Veronika adesso?» Gli aveva detto da un ricevitore dall’altra parte d’Europa. Avrebbe finito quello che stava facendo, ma l’erezione gli era scomparsa non appena aveva accettato la chiamata. Non che fosse sconvolto ma aveva bisogno di un’attenzione totale nell’atto sessuale per non far tramontare tutto, frutto di un’ansia da prestazione che si tirava dietro da tutta la vita e che, inutilmente, cercava di nascondere. La scusa di suo padre aveva funzionato con Merthe che, mentre finiva da sola, gli aveva dato un bacio e si era messa a dormire nel suo letto matrimoniale. L’appartamento era immerso in un caos ordinato, i vestiti sporchi si accumulavano dappertutto, le bottiglie vuote componevano muraglie in cui era difficile passare senza farne crollare una parte e rendere il passaggio ancora più pericoloso a causa dei vetri che si sarebbero infranti. Radunava in fretta le sue cose e le buttava, quasi senza accorgersene, dentro lo stesso zaino che, cinque anni prima, lo aveva portato lontano da casa. Ora ritornare sembrava una mezza sconfitta. «Non è colpa mia» si era detto sotto alla doccia, mentre mentalmente metteva Merthe tra quelle che non avrebbe più richiamato, o forse sì, alla fine gli piaceva e al suo ritorno avrebbe cercato un’occasione di rivederla. Dopo un po’ di tempo, si intende, abbastanza perché quell’inconveniente venisse dimenticato. Cercava di convincersi che l’interruzione erotica fosse da attribuire al colpo ricevuto per la notizia del padre e non alla sua difficoltà nel sentirsi a proprio agio davanti a una stangona di un metro e ottanta completamente nuda e sbronza e per cui si era masturbato più volte nelle domeniche senza ispirazione. Doveva anche chiamare Albert e dirgli che non sarebbe riuscito a presenziare a quell’appuntamento con gli editori per cui tanto lo aveva stressato negli ultimi mesi. Era la sua occasione, la stessa che, cinque anni prima, era stata la causa della partenza. Come un pianeta che chiude la sua rotazione e ritorna al punto di inizio, era ancora suo padre il motivo di tutto. Lo stesso uomo che, prima, non considerava il mestiere di scrivere un lavoro vero e l’aveva sbattuto per strada facendolo sentire una delusione, ora si metteva di nuovo in mezzo alla sua realizzazione, costringendolo a tornare a casa per seppellirlo. Come se, la sua morte, fosse stata l’ennesima riprova del fatto che sarebbe stato per sempre un fallito. Non era partito con le migliori intenzioni e quando arrivò all’aeroporto il suo umore non era migliorato, dover sborsare altri soldi per arrivare in centro contribuì a innervosirlo ancora di più. Era riuscito a imbarcarsi sul volo più economico per puro caso, al bancone della compagnia aerea rimaneva soltanto un posto riservato ma l’anziana dietro a lui si era intromessa fra le trattative per dirgli che gli avrebbe ceduto volentieri il biglietto del figlio che non poteva partire con lei. Questo aveva significato per Tomy, come schiavo di un antico senso del dovere, sorbirsi due ore ininterrotte di parole da parte della sua gentile salvatrice e compagna di volo. Quando la signora chiese a Tomy il motivo di tutta quella necessità di imbarcarsi sul primo volo per l’Italia, e alla sua conseguente risposta circa la morte del padre, ebbe il buongusto di mettersi a tacere, con sollievo delle sue orecchie stanche. Tomy era seccato per quella faccenda, non aveva ormai più rapporti con quella città, tanto meno con suo padre. Quando il taxi lo lasciò davanti alla casa di Corso Trieste il suo umore non era ancora cambiato. Veronika lo aspettava in lacrime davanti al portone, più per la perdita della sua rendita fissa che per la morte del suo assistito, baciandogli le mani e chiedendogli se aveva qualcuno a cui presentarla, che sennò come avrebbe fatto a mantenere suo marito e l’università di sua figlia, quella bella figlia che continuamente gli mostrava in foto, come se volesse fargliela sposare. Al suo interno la casa era spoglia, come spoglio era chi la viveva. Veronika ci passava poco tempo, solitamente non più di tre ore al giorno, per le pulizie e per cucinargli pranzo e cena, ogni giorno per gli ultimi cinque anni. Suo padre era già stato trasportato alla camera mortuaria, qualche suo amico aveva già predisposto le cose per lui, risparmiando a Tomy ulteriori disagi e facendolo respirare per la prima volta da due giorni. In casa avevano già preso tutto, tutti i quadri erano stati spediti a una sorella, alcuni mobili se li erano presi gli amici, sapeva che anche suo padre avrebbe voluto finisse così perciò disse a Veronika di prendere quello che voleva e di sparire il prima possibile, che comunque lui sarebbe rimasto poco e se ne sarebbe andato subito, dopo aver affidato a una agenzia immobiliare la vendita della casa. «Grazie signor Tomy, suo padre stato bene con Veronika, Veronika mai fatto mancare nulla. Morto nella notte, Veronika non c’era, trovato così la mattina. Tanta paura, signore, tanta. Veronika piange da due giorni» e proferiva un fiume di altre parole che Tomy non ascoltava, impegnato a ispezionare le poche stanze che componevano l’immobile, trovandolo piuttosto piccolo quando da bambino gli sembrava così ampio. C’erano le foto di famiglia appese alle pareti nello stesso modo in cui le aveva lasciate, ce n’erano alcune di sua madre, scomparsa tanti anni prima, ma nessuna che lo ritraesse. Come se suo padre quando gli aveva detto che non sarebbe stato più suo figlio se non si trovava un lavoro decente ci avesse creduto davvero.
Tomy sapeva che non era così perché più volte aveva cercato di riallacciare i legami, soprattutto negli ultimi tempi, come se avvertisse l’oscuro avvicinamento della morte. Tomy non si sentiva in colpa. La notizia l’aveva lasciato vuoto, ma più che per suo padre per il fatto che ora non aveva davvero più nessun motivo per tornare in quella città, la rottura dell’ultimo legame con il suo paese di provenienza se n’era andato. Avrebbe avvertito lo stesso anche se fosse successo un anno primo o uno dopo, la situazione non sarebbe cambiata, perché lui aveva dimenticato tutto e con suo padre il rapporto non era mai funzionato. Sempre al lavoro quando era piccolo, troppo presente e infelice quando era già cresciuto ed era troppo tardi per creare un legame naturale. Sapeva che l’affetto c’era, ma più per una naturale correlazione umana fra creatore e creato che per una effettiva necessità di vicinanza. Anche quando sua madre era morta il loro rapporto non era cambiato e non si erano avvicinati, ognuno troppo impegnato a vivere il proprio dolore per accorgersi dell’altro. Non che fosse un padre cattivo, non aveva mai alzato le mani su di lui né gli aveva impedito di fare quello che voleva, ma erano abitanti di due mondi paralleli che non si potevano mai incontrare. Era un pensiero fisso e senza possibilità di ritrattazione, almeno fino a che, entrando nella camera da letto buia, vide la prima e unica sua foto nella casa, accanto a quella della madre, come se fossero entrambi stati persi da quell’uomo così abitudinario. Le foto sul comodino formavano una specie di altare personale dedicato alle due persone che aveva sempre avuto ma che aveva perso, una per un tumore l’altra per un questione di orgoglio e di contrasto fra generazioni di stampo diverso. I vestiti erano già stati tutti portati via, regalati alla Caritas della vicina parrocchia, dove Tomy aveva tirato i primi calci a un pallone sotto il sole e l’afa di un agosto del ’95, quando aveva capito che quella strada non era praticabile per lui, eterno terzino di destra senza i piedi o i polmoni per fargli fare il salto di qualità. Il padre aveva predisposto ogni cosa, ogni parte della casa sarebbe dovuta andare a questo o all’altro parente, ogni singolo pezzo di arredamento a qualche amico del bar in piazza dove era solito passare le sue giornate. Restavano in salotto un grande scatolone e un giradischi, ed erano destinati a lui, l’ultimo regalo di un padre al figlio tradito e abbandonato. Tomy non sapeva cosa contenesse quello scatolone tutto impolverato, ma sentiva che c’era stato dentro suo padre e, forse, per la prima volta si rendeva conto che era davvero morto, che non esisteva più ed era finito chissà dove. Quel corpo paterno che due settimane prima gli aveva lasciato un messaggio in segreteria a cui non aveva risposto, lo stesso che ogni natale gli spediva un maglione costoso ma della taglia sbagliata e non mancava mai di chiedergli quando sarebbe tornato, non c’era più. In qualche modo aveva tradito anche lui suo padre non accettando le sue impercettibili e silenziose scuse. Ma era suo figlio e oltre agli occhi neri e alle gambe storte gli aveva lasciato anche lo stesso orgoglio e la stessa rabbia nei confronti di chi sbaglia.