«Considerateli entrambi, il mare e la terra: e non trovate una strana analogia con qualcosa che è in voi stessi?» Herman Melville, Moby Dick.
Così inizia A Plastic Ocean. Nel 2011, il giornalista Craig Leeson è partito per realizzare il sogno di una vita: girare un documentario sulla balenottera azzurra. In Sri Lanka, nell’Oceano Indiano, riesce a trovarne una e mentre iniziano le riprese sott’acqua, si accorge che la superficie dell’oceano è ricoperta da plastica e residui di petrolio. Com’è possibile dal momento che le spiagge sono state chiuse per trent’anni a seguito della Guerra Civile? Cos’è successo dopo? Scorre il video di una balenottera di Eden che sta morendo perché dentro il suo corpo si sono annidati ben sei metri quadrati di teli di plastica. Purtroppo le balenottere non trovano alcuna differenza tra un krill e la plastica e quando aprono la bocca per nutrirsi, aspirano tutto, anche quello che non è commestibile.
A Plastic Ocean ci fornisce dati interessanti: 238 miliardi di litri di petrolio vengono usati ogni anno per rifornire gli Stati Uniti di bottiglie di plastica. Più del 90% di queste bottiglie viene usata solo una volta per poi essere gettata. Più dell’80% della plastica nell’oceano proviene da sorgenti terrestri. A guardarlo l’oceano però, in maniera un po’ superficiale, sembrerebbe limpido e blu. Ma grazie all’uso di una rete a strascico che cattura tutto quello che c’è di invisibile in superficie, vediamo subito tanti, troppi, frammenti di plastica: l’effetto dei raggi ultavioletti del sole, l’azione delle onde marine e il sale hanno finito per ridurre la plastica in briciole impercettibili, quelle che noi conosciamo con il termine microplastica.
Non è un processo estraneo alle nostre vite perché tutti noi abbiamo avuto a che fare con le microperle degli scrub facciali, dei dentifrici e dei cosmetici (e sono proprio loro una fonte significativa di microplastica oceanica). Dal primo gennaio 2019 è entrata in vigore la legge che vieta la produzione e la commercializzazione in Italia dei cotton-fioc in plastica, a eccezione di quelli compostabili. Sulle etichette di questi prodotti poi bisognerà riportare “informazioni chiare sul corretto smaltimento dei bastoncini stessi, citando in maniera esplicita il divieto di gettarli nei servizi igienici e negli scarichi”. Questo divieto era stato introdotto nella Legge di Bilancio 2018 insieme al divieto dei cosmetici contenenti microplastiche che invece entrerà in vigore dal 1 gennaio 2020.
«I nostri oceani sono guidati da cinque correnti circolari principali, o vortici. Sono creati dalla rotazione terrestre e dai conseguenti venti predominanti. Ogni continente è influenzato da questi sistemi. Accumulano i rifiuti che scorrono dai nostri fiumi e litorali e, col tempo, tutto quello che galleggia all’interno del vortice prima o poi si muoverà verso il centro del vortice.»
Il documentario ci trascina anche nel vortice del nord Pacifico, la zona di convergenza subtropicale. Negli anni Ottanta, a causa di questa corrente, è iniziato l’accumulo di quella che oggi noi chiamiamo: l’Isola di plastica. Nel 2012 lo studente di ingegneria Boyan Slat ha ideato e concretizzato un progetto finalizzato alla pulitura degli oceani dalla plastica: The Ocean Cleanup, avviato nel 2018 . Secondo gli studi effettuati dal suo team il processo di pulitura sarebbe praticamente a costo zero, poiché realizzato sfruttando la luce solare, l’energia delle correnti marine e il riciclo a terra dei materiali raccolti. Si stima che in cinque anni The Ocean Cleanup dovrebbe rimuovere il 50% della plastica che si trova tra la California e le Hawaii.
Il vortice del sud Pacifico invece è il meno studiato ma vediamo che la situazione non è poi tanto diversa. Vivisezionando pesci lanterna ormai morti ci rendiamo conto che la causa del loro decesso è stata proprio la plastica. Sorge quindi una domanda: se mangiamo pesce, vuol dire che anche noi stiamo mangiando plastica? «Il problema è che questa plastica assorbe le sostanze chimiche che galleggiano liberamente nell’oceano. Quando il pesce mangia la plastica, queste tossine migrano dalla plastica nei muscoli o nel grasso, le parti che ci piace mangiare del pesce.» In pratica sì.
Vietnam, Filippine, Cina, Sri Lanka, Thailandia e Indonesia sono i sei paesi da dove arriva la maggior parte della plastica. Il documentario si sofferma su due casi in particolare: Cina e Filippine. A Hong Kong si ricorda il disastro dei container caduti da una nave, rovesciando sacchi contenenti nurdle (pellet di materie plastiche) che si sono aperti in mare. Una call to action su Facebook ha cercato di coinvolgere tutti i cittadini che si sono resi disponibili e hanno capito quanto fosse grave il problema. Una situazione differente è quella nelle Filippine dove troviamo la Smokey Mountain 1 e la Smokey Mountain 2. La prima è stata chiusa nel 1995 ed è una discarica di due milioni di metri quadrati di tonnellate di rifiuti che contiene talmente tanto metano prodotto dall’immondizia che quando raggiunge temperature più alte, inizia a prendere fuoco. La seconda invece è stata avviata nel 1998 e copre un’area di cinquanta ettari. C’è un odore fetido, il terreno è ricoperto solo da mosche e sì – è una zona abitata da duemila famiglie. Fortunatamente c’è l’intenzione di avviare un progetto di biobonifica (l’uso di organismi naturali per trasformare sostanze nocive in sostanze che lo sono meno o non lo sono affatto) e di fitobonifica (l’utilizzo di piante verdi per disintossicare il suolo).
Un grande esempio viene dato dalla città di Austin, la prima città in Texas che ha bandito le buste di plastica. Brava anche la Germania che ha ideato un modo ingegnoso per far riciclare le bottiglie: queste si inseriscono in macchinari appositi che scannerizzato il codice a barre per risalire al tipo di plastica utilizzato, i fornitori la rivendono ai riciclatori per una quantità lucrativa di denaro e i consumatori ricevono 0,25 centesimi a bottiglia. Si tratta di l’economia circolare.
Il documentario si conclude con una serie di consigli pratici per ridurre l’uso della plastica. Ci sono moltissime cose che si possono fare e che io stessa sto attuando senza alcuna fatica perché rinunciare alla plastica – o in una sua grande parte – è possibile e non richiede grossi impieghi economici. Al supermercato si possono comprare le uova nel cartone rispetto a quelle confezionate nella plastica; si può rinunciare a comprare le bottiglie di plastica per quelle in vetro o portando in giro una borraccia per evitare di andare nei bar. Si possono comprare vasetti di yogurt più grandi rispetto ai classici vasetti da 125gr così come si può investire una piccola somma di denaro per acquistare borse in tela, magari con qualche stampa carina, per quando si va a fare la spesa. Di idee ce ne sono proprio tante ed è sempre dalle piccole cose che si può iniziare a fare la differenza. Lo dice anche Lady Gaga “If you have a dream, fight for it.” E io penso che il pianeta si meriti degli esseri umani che vogliano lottare per lui.