Nessuno è profeta in patria, fin dal tempo dei Vangeli. Inoltre, di solito, profeti lo si diventa solo a posteriori, per riconoscenza postuma. Ma Andrea Camilleri, profeta, lo è stato già in vita. Con i suoi libri e con il suo personaggio feticcio, il commissario Salvo Montalbano, lo scrittore siciliano è riuscito a consacrarsi come intellettuale di riferimento del panorama culturale italiano, come icona della scrittura, come specchio di vizi e virtù dell’Italia che dalla fine degli anni Novanta ha arrancato, inciampando in molti sbagli, fino all’oggi.
Certo, l’affermazione è comunque arrivata tardi. Camilleri non è stato un enfant prodige. Figlio di un tempo in cui l’autopromozione sui social era ancora in là da venire, ha fatto la gavetta, si è dovuto strutturare, ha conosciuto fallimenti e bocciature. Per arrivare alla scrittura di best seller ha dovuto percorrere strade alternative, quanto mai proficue e fertili però. Nato a Porto Empedocle nel 1925, inizia a lavorare nel’42 come regista e sceneggiatore teatrale. Quindici anni dopo entra in Rai, quella mamma Rai che, tre anni prima, lo aveva rifiutato ma che dal 1957 lo accudirà con senso veramente materno, fornendogli quegli insegnamenti che, più tardi, lui metterà a frutto nella sua letteratura. Fondamentale, in questo senso, è la sua partecipazione come delegato alla produzione allo sceneggiato Le inchieste del commissario Maigret, interpretato da Gino Cervi. Sarà lì, adattando per il piccolo schermo le pagine di Simenon, che nascerà l’idea giusta, quella che cambia la vita: creare il Maigret nostrano.
Ci avevano già provato in tanti, ma invano. Bisognava mettere a punto la miscela giusta di fedeltà ai modelli esteri e originalità italiana. Si erano avvicinati di molto Fruttero&Lucentini con il loro commissario Santamaria, protagonista de La donna della domenica e A che punto è la notte?. Ma il loro tentativo di serialità si fermò a due libri, giusto una doppietta che includesse estate e inverno, ma senza possibilità di ulteriori sviluppi. Troppo complessa la loro scrittura, troppo approfondita la psicologia di tutti i personaggi, inclusi quelli minori. “Pensavamo di aver trovato il nostro Maigret,” affermeranno successivamente in un’intervista, “ma ci accorgemmo che non eravamo in grado di scrivere libri di 100 pagine. Ce ne servivano di più, molte di più, e non potevamo quindi far uscire un libro all’anno.” Inoltre, la Torino industriale degli anni ’80 non aveva il fascino per resistere nel tempo, per far affezionare i lettori di ogni regione d’Italia. Serviva qualcosa di più caratteristico, contemporaneamente familiare ed esotico, locale ma pan-italiano. E, perché no, esportabile anche oltralpe.
La formula alchemica effettivamente aurea la trova Camilleri. La prima avventura di Salvo Montalbano, La forma dell’acqua, esce nel 1994. Il successo di pubblico è discreto, solo una brace dell’incendio che divamperà, incontenibile, cinque anni dopo, a cui contribuirà in maniera decisiva la messa in onda della prima puntata televisiva, in cui al volto immaginato per Montalbano assume le fattezze di Luca Zingaretti. Da quel 1999 a oggi sono uscite 43 avventure librarie del commissario (includendo racconti brevi e raccolte) e 34 episodi televisivi, ognuno dei quali ha cementato il ruolo di Andrea Camilleri come maggiore autore italiano e, di conseguenza, intellettuale tout court. Convegni, onorificenze, interviste e idolatrie si sprecheranno, insieme alla certezza che, appena uscito un nuovo Montalbano, lo si troverà subito e per lunghe settimane al primo posto dei libri più venduti in Italia. Profeta, dunque, già in vita. Lume dell’intellighenzia italica, consultato su ogni questione d’attualità e giustamente riverito per il suo acume, che alla vecchiaia resisteva e, anzi, in essa si rinforzava. A tal punto da spingerlo a identificarsi, chissà con quanta effettiva finzione, con il vate Tiresia, come lo scrittore cieco ma geniale.
Ma, nonostante tutto ciò, noi contemporanei abbiamo veramente capito cosa Camilleri rappresentava? Non è questa la sede, né il momento, per un’analisi critica dei suoi scritti. Esistono ed esisteranno i detrattori che troveranno i suoi libri ripetitivi, il genere di poco conto, il clamore ingiustificato; i puristi che storceranno il naso perché l’alloro letterario non dovrebbe macchiarsi con il contatto del sudiciume televisivo. A fronte si oppone un successo di vendite sbalorditivo, un apprezzamento di pubblico trasversale, che ha varcato il confine nazionale. Non è questo il punto. Il fatto è che, piaccia o no, noi e l’Italia intera siamo cresciuti con Montalbano, con lui siamo maturati e invecchiati, procedendo insieme di pari passo, a braccetto, incontrandoci ogni sei mesi quando usciva un nuovo libro. E da oggi non sarà più così.
I gialli (o polizieschi, che dir si voglia) sono stati fin dalla loro invenzione uno dei generi più apprezzati dal pubblico dei lettori, forse per quel voyerismo insito nella natura umana che le disgrazie, specialmente altrui, ama vederle, analizzarle, scoperchiarle. Cosa sono i gialli se non raccolte di pettegolezzi, sbirciate nell’intimità delle vittime, allettanti rebus che solleticano le capacità speculative e di ragionamento, ma anche illazioni, sospetti, insinuazioni? I riferimenti nel genere sono stati, per anni, autori stranieri e del passato: Conan Doyle, Agatha Christie, Georges Simenon… Penne agili e fascinose, appetibili all’intellettuale come alla casalinga, ma purtroppo lontane nel tempo. Al di là dell’ambientazione, che per alcuni versi poteva anche risultare caratteristica, il problema vero era che gli autori erano ormai deceduti da anni e quindi, una volta lette tutte le avventure di Poirot, Miss Marple o Maigret, il rubinetto si era esaurito, non si poteva sperare in nuove indagini. Con il Montalbano di Camilleri, invece, si aveva la certezza di rincontrarsi e ritrovarsi, lettore e personaggio cambiati e invecchiati, ma sempre in contatto, sempre attuali. Tra le scarse certezze offerte dalla contemporaneità, c’era quella di poter tornare a Vigata e scoprire come se l’era passata Montalbano in quei mesi: come stava la sua fidanzata Livia, cosa ne pensava di questioni attuali come mafia, immigrazione, politica. Poi sì, c’erano anche i delitti, ma quelli, per assurdo, finivano in secondo piano.
A stringere il rapporto tra Montalbano e il lettore contribuiva anche la lingua, quel caleidoscopio di italiano e di dialetto siciliano ibrido, un po’ reale un po’ inventato. Era una sorta di codice segreto, di cifrata corrispondenza che coinvolgeva ogni lettore perché bisognava decifrarlo, caprine il meccanismo, ma una volta acquisita familiarità, una volta diventati intimi, filava via liscio e comprensibilissimo. Come se si stesse chiacchierando tra amici usando un linguaggio cifrato che, all’apparenza, esclude tutti gli altri. E poi c’era il cibo, una meravigliosa cornucopia di cucina siciliana che i protagonisti ingollavano con trimalchionico appetito e che lubrificava l’acquolina in bocca ad ogni pagina.
Insomma, ogni volta che usciva un Montalbano si finiva per dire: “Basta, sono tutti uguali, non butto più i soldi.” Poi però si passava davanti a una libreria… era Natale oppure inizio estate… si stava quasi per andare in vacanza… si era allegri, spensierati… “Chissà che fa Montalbano?” veniva da pensare fissando il riflesso della nuova copertina dalla vetrina. E, immancabilmente, cinque minuti dopo si tornava in strada con il nuovo volume sottobraccio. A casa bastavano due pagine, appena le righe necessarie per oliare il dialetto, e si era trasportati in riva al mare, guardando l’alba dalla terrazza della villa di Marinella. È racchiuso tutto qui il valore letterario di Andrea Camilleri. Un profeta, riconosciuto in vita. Ma più di tutto una presenza vicina, amica, che davamo per scontata. Solo quando nella vetrina non vedremo più il nuovo Montalbano ma l’ennesimo thrilleraccio americano, ci accorgeremo di quanto ci mancherà.