La US-191 è la principale arteria a nord e a sud di Price, nello Utah. Verso nord conduce a Salt Lake City. Dritto a sud porta a Green River e poi a Moab. L’uscita per la statale 117 è a circa trenta chilometri dal confine urbano di Price. Percorrendo una quindicina di chilometri verso est sulla 117, sulla sinistra, in mezzo a un nulla piatto e aspro, si può ammirare il Premiato Diner del Deserto.
Sulla carta Il diner nel deserto, romanzo d’esordio dello scrittore James Anderson, potrebbe cogliervi in fallo e sembrare un entusiasmante viaggio nel deserto degli Stati Uniti. In copertina all’edizione italiana appena uscita in libreria, un esempio di quello che potremmo definire come lo stereotipo di immagini-il-più-americane-possibili: Richard Heeps descrive la solitudine della vita americana dentro la luce artificiale di un diner deserto, con un’immagine che sembra quasi la citazione di un ritratto di Edward Hopper. Il problema è proprio in quel deserto di solitudini che non si incrociano mai: il diner, ovvero il centro di questa storia che non conturba, è assolutamente desolato. Dimenticate Jack Kerouac, e il suo On The Road americano-molto-americano: dimenticate le strade aperte e sconfinate del panorama degli States. L’effetto è quello di rinchiuderci dentro la claustofobica desolazione interno-States, dentro le sue strade, affogati dalla scrittura minimalista (ma non carveriana) di Anderson. A tratti incontreremo una motocicletta, ma la maggior parte del viaggio è a bordo del camion di un protagonista stufo di far consegne. Così stufo che a un tratto si invaghisce di una violoncellista — e non è chiaro neanche come sia possibile, perché la violoncellista in effetti non fa niente per sembrare interessante.
Le cose dovevano cambiare. Volevo che cambiassero. Come la maggior parte delle persone che sostengono di volere un cambiamento, in realtà volevo solo abbastanza soldi per mantenere tutto com’era, ma meglio.
Non mancano le belle trovate — come l’estratto che leggete sopra — nel corso del romanzo. Tutto dipende dalla frequenza di connessione che riuscirete a trovare con la storia e i suoi personaggi: se il tutto vi sembrerà una fantomatica promessa mancata, o se sarete piuttosto trascinati via dalla prosa statuaria di Anderson, che a tratti sorprende il lettore inondandolo di atmosfere noir. È un libro per la stasi e la contemplazione. Dai pensieri corti. I dialoghi brevi. Gli sbuffi dei protagonisti. Le vite spezzate dei suoi eroi poco eroici. Nessuno sembra avere un gran sogno: persino nel diner ogni passante sembra essere a pezzi. È un’America allo stato puro, quella che viene descritta nella ballata solitaria del camionista che continua a far consegne.
James Anderson riesce nell’operazione di farci guardare in faccia quella parte di Stati Uniti a cui facciamo poco caso: quella nascosta dalle grandi epopee familiari di Franzen, dai personaggi schizoidi e profondi di DFW, o dagli intellettuali dandy di Ben Lerner. È quell’America a cui facciamo fatica a guardare e seguire al microscopio, forse immaginando che abbia poco da dire – o che sia noiosa: eppure è lì fuori, da qualche parte, distesa all’ombra dei suoi deserti, nei diner affollati di sogni infranti, nelle tele annoiate di Hopper, e in qualche vecchio racconto di Cheever. È nell’ordinaria vita americana che continua ad andare avanti che Anderson ci racconta gli States. Per questo dovreste proprio provare a leggerlo.