Joshua Cohen è uno dei più brillanti scrittori americani contemporanei, con all’attivo due best-seller pubblicati da Random House, uno dei principali editori statunitensi, entrambi promossi a pieni voti dalle pagine letterarie di quotidiani e riviste di tutto il mondo. James Wood, sul New Yorker – a cui Cohen stesso ha collaborato più volte – l’ha definito “un romanziere puro, ma con un’apertura al mondo che hanno solo i grandi giornalisti”. Ha scalato le vette delle classifiche del New York Times e del Guardian e mantenuto il primato per numerose settimane. Eppure, fino a pochi mesi fa, in Italia nessuno aveva sentito parlare di lui, fino al momento in cui Codice non ha pubblicato, col titolo Un’altra occupazione, il suo secondo romanzo Moving Kings, del 2017; del primo, The Book of Numbers, 2015, si dice che se ne stia approntando una traduzione italiana per il prossimo anno.
Codice merita certamente un plauso sia per la scelta di investire e introdurre al pubblico italiano un autore che era davvero incredibile lasciare inedito, sia per averne affidata la difficile traduzione alla prosa di Claudia Durastanti, che prima che traduttrice, è scrittrice, e si è confrontata con un uno stile molto diverso da quello proprio. Una doppia scommessa che l’editore vince sul piano del prodotto – una confezione accattivante, un autore di un certo peso che scrive libri non di lettura immediata, una traduttrice-scrittrice che imprime ben visibile la sua firma sulla lettura – e ci auguriamo, anche sul piano del successo commerciale, così che possa aprire la porta alla possibilità di leggere cose che gli editori maggiori lasciano sugli scaffali delle librerie americane: come nel caso Colston Whitehead pubblicato da Sur, che ci ha fornito la possibilità di leggere un Pulitzer che clamorosamente Einaudi, Mondadori, Feltrinelli e altri hanno a lungo ignorato, e che è diventato l’autore di punta del catalogo dell’editore romano oggi in espansione.
In realtà la storia dell’editoria italiana è una storia che si scrive e si riscrive secondo queste coordinate da ormai numerosi decenni, e la scarsa lungimiranza nello scouting dei grossi gruppi editoriali italiani non è affatto una novità. Proprio in questi giorni, infatti, mi è capitata tra le mani una vecchia copia di Rumore bianco di DeLillo pubblicata nel 1985, praticamente a ridosso dell’edizione americana, da un editore indipendente napoletano: il defunto Pironti. Solo dopo il successo di Rumore Bianco, Einaudi si è decisa a ripubblicarne l’intero catalogo, fagocitando di peso tutto quanto era stato pubblicato in precedenza. Similmente, gli autori più interessanti tra le nuove proposte italiane nascono ancora sotto l’ombrello di Minimum Fax, per poi essere arruolati da Einaudi o Mondadori solo quando il loro nome è diventato ormai consolidato: vedi il caso di Pacifico, di Lagioia, di Raimo.
Ma andando allo specifico di Cohen, cos’è che rende questo libro così originale e unico nel catalogo degli scrittori americani, cosa lo distingue da quelli immediatamente associati al contesto ebraico, per esempio da Philip Roth o da Malamud, lo si percepisce già dalle prime pagine. Ad aprire Un’altra occupazione, ti sembra di ritrovare, traslata nel New Jersey, l’ambientazione de La ferocia di Nicola Lagioia, che peraltro, in USA è uscito più o meno nel periodo in cui Cohen pubblicava il suo secondo volume. Una storia di corruzione e di famiglie, ancora meglio, di come le famiglie si arricchiscono mediante la corruzione che poi diventa una corruzione morale, un cancro che appesta la famiglia dall’interno. Insomma, una narrative che ha una certa circolazione in Occidente in questi primi decenni del nuovo millennio, e che si è intensificata dopo la crisi del 2008. Tutti e due i libri hanno avvio dall’immagine di un capofamiglia che introduce una storia di successi personali e di difficile comunicazione con i figli – con una figlia, nello specifico. Siamo ancora sul terreno comune su cui si costruiscono le storie del New Jersy di Roth. Ma in realtà ti inoltri nelle pagine, e oltre alla sfasatura temporale – Lagioia ci trasporta indietro nel tempo, alla ricerca dell’origine della famiglia di palazzinari protagonista, verso gli anni Settanta e Ottanta, un po’ prima di quelle che avevamo conosciuto in Riportando tutto a casa (2010) di cui peraltro, per coincidenza, Cohen riprende la tematica dei figli assuefatti all’eroina, mentre Cohen pur variamente tornando all’indietro mantiene il focus sugli anni ’10 del millennio – e percepisci che c’è una grossa differenza.
Cosa rende diversa la storia di una famiglia di ebrei americani specializzati nel racket del trasporti da una famiglia di palazzinari pugliesi, e che rende molta più complessa l’imbruttimento morale da cui sono afflitti, è la risonanza etnica e il legame tra la comunità di origine e quella di arrivo negli Stati Uniti. Nello specifico della comunità ebraica: Israele. A quel punto, lasciamo la lucida analisi del degrado della buona borghesia che si è costruita mediante la successione di figli che hanno fatto meglio dei padri, ma in loro continuità, e ci addentriamo piuttosto in una storia che si intreccia coi rami laterali della famiglia, quelli che si spingono fino a Israele. Qui scopriamo la grande delicatezza nonchè la sincera onestà di Cohen, che evita di tornare sulla grande tragedia ormai storicizzata, per andare a investigare i dolori quelli che affligono le comunità ebraiche della contemporaneità.
La storia di David è quella di uno due fratelli che, in fuga dall’Europa, fanno scelte diverse, procedendo uno verso la nuova Sion e l’altro verso gli Stati Uniti, con tanto di cambio del cognome che ci restituisce in inglese il gioco di parole che ci fa pensare a una dinastia. Ci sembra di essere, di nuovo, in zona Roth, con la descrizione dei problemi dell’ebreo americano quando decide di allontanarsi dall’ortodossia dell’ebraismo tradotta nel classico quartiere residenziale del New Jersey, a Jersey City, dove l’autore è cresciuto, di sposare una shiksa, di crescere la propria figlia secondo costumi liberali e consoni allo stile di vita tardocapitalista. Una versione depotenziata, anche per motivi di contesto storico, della Merry di American Pastoral, che per fortuna non fa esplodere nient’altro che le coronarie di suo padre, sottoposto nel corso del libro a vari interventi cardiaci, ma che ha una posizione nettamente anti-Isreale nei discorsi in cui il padre cerca di trascinarla a proposito dei suoi cugini, e di fronte a lei, uno Swede che somiglia più a un Nathan Zuckerman o a un Barney del romanzo di Mordecai Richler, La versione di Barney, che neanche a farlo apposta, come American Pastoral è pubblicato nel 1997, pur trattandosi di un ebreo canadese e non di un ebreo del New Jersey. Ma siamo solo a inizio libro, diciamo a un quarto del libro.
Superate tutte le cornici, arriviamo infatti a capire che la storia al centro del libro è quella del nipote israeliano di David King, Yoav, e della sua nuova migrazione verso gli Stati Uniti, affrontando di petto il tabù più tabù della letteratura ebraico americana, ma anche di quella americana tout-court, nonché di qualsiasi discorso comprenda Stati Uniti e Israele e non limitatamente alle due comunità ebraiche che sono coinvolte nel dialogo. Il libro si libera di tutti gli involucri e giunge al suo cuore quando Yoav giunge a New York dopo aver terminato i cinque anni del servizio di leva obbligatorio e, come ogni giovane ebreo, aver trascorso un lungo periodo nella striscia di Gaza, per ritrovare il dialogo con il mondo vero. Allora, la questione Israeliana smette di diventare una chiacchiera di famiglia o per giovani militanti filo-palestinesi allevati a NYU, e diventa una speculazione lucidissima sulle responsabilità e le conseguenze, portata avanti con rigore e volontà di tenere gli occhi aperti, come non si era visto nella fiction americana dai tempi di La controvita (1985), il libro di Roth che per molti è quello più interessante, ma che nessuno cita mai in quanto contenente un discorso che nessuno vuole toccare. Eppure, di nuovo, a parte le doverose corrispondenze dovute al contesto comune in cui sono stati concepiti, il libro di Cohen ha poco da spartire con quello di Roth, ed è il motivo per cui mi piace pensare a Cohen come al più interessante tra gli scrittori ebrei contemporanei.
Col suo stile ellittico e frammentario, Cohen ci impegna a tornare costantemente avanti e indietro tra le pagine e ci spinge a chiederci chi sia il vero protagonista, se David, il proprietario della ditta di trasporti che vive oscillando tra difficolà e illeciti, o Yoav, suo nipote che per fuggire a una storia di occupazioni e violenze ufficializzate dallo stato finisce per riprendere un lavoro simile – gli sfratti imposti a chi non può permettersi di pagare l’affitto o il mutuo – nella condizione dell’immigrato irregolare che lavora al nero e si confronta con cuore più nero dell’America: una condizione non limitata alla comunità ebraica, ma che accomuna i suoi colleghi provenienti da qualsiasi altro contesto di immigrazione clandestina. Con una leggerezza unica, Cohen ci porta di fronte al cuore dell’orrore inconsapevoli, ci accompagna passaggio per passaggio senza annunciare cosa ci aspetta, e ci troviamo sorpresi ad assistere a una storia di traslochi che diventa una storia di precarietà che accomuna un numero consistente di americani.
La traduzione di Durastanti partecipa al gioco e vi contribuisce restituendo meravigliosamente la prosa pacata e posata di Cohen, mantenendone le rotondità e la ricchezza senza danneggiarne la leggibilità dell’inglese originario in cui è scritto. Anche la scelta del titolo, che col benestare dell’autore passa dall’originario Moving Kings ad Altre occupazioni, si rivela interessante, bypassando il gioco di parole originale introducibile, per costruirne un altro che subito ci introduce all’ambivalenza dell’etica ebraica e di chi si sposta dall’occupazione dei territori dei palestinesi a quelli delle vittime della più grande crisi immobiliare del mondo occidentale. Due tipi di sciacallaggio, in cui il giovane Yoav si trova sospeso, tutti e due di matrice ebraica, e che quindi mettono in questione la sua identità e la legittimità dell’ideologia del paese in cui è cresciuto, come in quello in cui vorrebbe vivere.
Alla fine di tutto ciò, ci rendiamo conto che la storia che Cohen vuole raccontarci è una storia di migrazioni: quelle del popolo ebraico e quelle dirette agli Stati Uniti, nelle loro evoluzioni negli anni. Insomma, un modo davvero originale per riaffermare che ogni migrazione ha dei caratteri specifici e dei disagi propri, è infelice a modo proprio, come nell’incipit di Anna Karenina a proposito delle famiglie infelici. Per quanto tutti gli americani abbiano una storia di migrazioni alle spalle, quello che accomuna italiani ed ebrei è il fatto di aver mantenuto un forte dialogo con la propria patria negli anni: gli italiani attraverso continui ritorni e ripartenze, attraverso le loro parentele; gli ebrei anche a livello politico. L’esperienza ebraica se confrontata con quella italiana dunque rivela un popolo tuttora migrante, e una nuova migrazione che porta gli ebrei lontano dalla loro Terra Promessa, che rifiutano preferendo l’intramontato mito della Terra dell’Abbondanza americana, com’era stato per i loro “ancestors”:
Dopo aver servito lo stato di Israele per trentasei mesi, o centoquarantaquattro settimane, o milleotto giorni, rimpiazzavano il grigio scialbo delle divise con i jeans, trasformavano le munizioni in passaporti e si precipitavano oltreoceano per trovare fortuna. Per trovare loro stessi, o gli stessi che un tempo erano stati, e dimenticare tutti gli ordini che li avevano legati. Storicamente, come è ovvio, era stata sempre quella la funzione dell’esilio o della diaspora. Il vagabondaggio era solo una misura di emergenza: gli ebrei vagavano in un paese finché quel paese non li espelleva, o cercava di distruggerli, e a quel punto scappavano ancora. (93)
E pazienza, se in questo libro il punto di vista dei palestinesi resta quasi taciuto, perché la possibilità di dare voce a chi subisce le politiche israeliane dall’interno continua a essere esplorata pochissimo.