L’ultimo giorno della mia vita felice , IV

Illustrazioni a cura di CO:MA

IV. Alex, interno sei

Che gambe. Dovevano pensarlo tutti quando la vedevano. Poi salivano e cambiavano idea. Solo dopo qualche settimana passata a vederla immobile, con i piatti da lavare sempre nello stesso posto e le prime mosche che giravano per il piccolo cucinotto, ci eravamo decisi di dirle qualcosa. Stava piangendo. “Ok, ma non c’è bisogno di tutto questo, li faccio io anche stavolta” smorzava il dramma Lev col suo sarcasmo da ragazzaccio cresciuto con le colf. Non la smetteva e mi era sembrato un obbligo abbracciarla, io che con gli abbracci non ci ho mai saputo fare, non che lei fosse messa meglio. La reciproca insensibilità si era risolta in una imbarazzante pacca sulle spalle da cugini che non si vedono mai. Abbastanza, però, perché potessi sentire l’acre odore di sudore femminile e il caldo del suo ventre contro la mia gamba. Certe cose non puoi farle a meno di notare, anche con Alex. Si erano davvero mollate, ed era una sorpresa un po’ per tutti noi. Le avevamo viste insieme poche volte e credevamo fossero solo amiche. Oddio, qualche dubbio ci era venuto, ma era sempre troppo tardi e c’era troppa aria colorata per poter approfondire il discorso. Avevo iniziato una sorta di dipendenza passiva dall’erba. Le lacrime asciugate ci avevano buttato in un altro fiume di parole e gli occhi non erano più rossi solo per quello, anche i miei, che pure ci stavo attento a non fare ogni sera la lavatrice. Ma perché poi ci preoccupavamo di queste cose, Lev si era rinchiuso in camera sullo schermo a provare a decifrare qualche film da cui prendere spunto o, meglio, da brevi video da caricare per un altro genere di slancio altrettanto poetico. Mi aveva abbandonato come sempre, ma me lo meritavo, me l’ero andata a cercare. Ci erano volute due ore per farla addormentare, l’avevo coperta e me n’ero tornato in camera. Col sonno profondo certe cose non le capisci subito. Alex si era infilata sotto le mie lenzuola e dormiva, di nuovo, e io non sarei riuscito ad addormentarmi prima di vedere l’alba. Non c’era nulla di sessuale, dopotutto, ma non eravamo così intimi da poterci permettere una cosa del genere. La mattina dopo ero sul pavimento, con le ossa che mi si spaccavano e un raffreddore da fieno. Lei l’avrei rivista solo la sera dopo, totalmente rinata, come se fosse tutto passato, senza cambiare il suo atteggiamento da stronza nei nostri confronti o posizione sul divano, scatenando un sospiro di sollievo che non provavo dai tempi del liceo. Continuava a essere un mistero, in ogni caso, e non mi ci ero poi mai messo davvero a provare a capirla e, tanto meno, avrei potuto aver speranza di farlo vedendola portare in casa quel piccolo micio tutto spelacchiato preso chissà dove. Sono le regole non scritte a cui tutti si attengono e la bestia ci aveva messo poco tempo per entrare nel cuore di tutti, un po’ meno nell’allergia del Lev che si riempiva di antistaminici ogni volta che se la portava a fare due passi al quinto. Quando nasci solitario l’unica cura è vivere fra tante persone che si ignorano, noi avevamo portato ogni incubo là dentro nella speranza che qualcuno se ne accorgesse ma eravamo troppo impegnati perché accadesse davvero.

“La prima cosa che farai sarà prendere quel mezzo spinello e buttarlo via, e non farlo mai più. Se ti salvi, se ti salvi, ovvio, abbiamo imparato la lezione noi due.” Si diceva davanti allo specchio oscillando “Quella puttana, micia senza palle.” Il mascara le era colato fino alle labbra carnose e i capelli erano terribilmente schiacciati dalla forma del divano su cui si era addormentata. Le erano passati tutti davanti e nessuno si era chiesto se fosse ancora viva. “Non gliene frega a nessuno lo sai. Siete degli stronzi, o magari sei tu che non vai bene. Devi farla finita con queste cose. Lo sai che per l’ansia troppo caffè non va bene. Lo sai che per la tua fragile psiche la droga non aiuta. Svegliati Alex, svegliati, sei viva. Sentiti il battito, va avanti anche se non gliene importa a nessuno. Pum pum pum, senti come rallenta.” Con due dita sul collo teneva conto del ritmo che la teneva ancora in piedi. L’altra stringeva così forte la lametta da farsi sanguinare le mani. “Solo un taglio. Le piacevano tanto le tue cicatrici, come le piaceva toccarle con la punta della lingua, sdraiate sul letto, mentre il suo ragazzo suonava nell’altra stanza e non si accorgeva di nulla.” Dal mobile del bagno aveva tirato fuori un astuccio colorato, da scuola elementare, ma dentro non c’erano pastelli colorati. L’aveva accuratamente aperto, tirando fuori garze e acqua ossigenata, che faceva più male. Con l’accendino a fiamma densa stava scaldando la lametta, nel suo personale rito notturno. Abbassati i pantaloni cominciava a tagliare in piccole parti oblique un segno già rimarginato. Il sangue lento usciva e c’era lo stesso odore della pelle bruciata di quel suo compagno sbadato che a chimica ci aveva rimesso mezza mano. Le sirene dell’ambulanza avevano dato il colpo finale alla professoressa che era svenuta e non si sarebbe più ripresa. Non era mai riuscita a togliersi di dosso quella sensazione, come quel primo piacere ancora acerbo e incomprensibile ma così era andata avanti, intorno le facce di quando cadeva e non piangeva più. Questo complicava le cose, e soffrire non era più soffrire, e stare bene non era una cosa semplice, e più trovava una situazione favorevole e più scappava. Poteva superarla, parlarne con qualcuno e farsi aiutare, ma che senso avrebbe avuto poi il resto. Aveva iniziato a tatuarsi così presto, ma le cicatrici non scompaiono con un po’ di inchiostro, e i suoi genitori avevano sempre pensato fosse meglio avere una figlia ribelle che una che si tagliava e non avevano mai fatto obiezioni. “Mamma sono io tua figlia” Le aveva urlato quando l’avevano lasciata nella nuova casa. Ma non si può aiutare qualcuno che non vuole salvarsi. Le aveva fatte scappare tutte, una dopo l’altra, tutte quelle che avevano perso la testa per la sua lingua. “Loro e quel gusto pseudo romantico delle bambine smarrite nel bosco. Nessuno vuole tornare davvero a casa una volta nel buio”. Si era medicata e aveva chiuso la porta del bagno a chiave, come sempre, attirandosi le inimicizie degli altri. Si era poi messa a letto con Andrea, come fosse ancora il lettone dei suoi genitori quando, ancora, si sentiva protetta dai piccoli incubi. Polly vuole un cracker dalla dispensa degli altri, ma per loro la fame non è mai abbastanza.

Qua il tempo non passa mai. Siamo ancora tutti seduti senza che nessuno muova un arto. Alex mi tocca la schiena facendo quello che probabilmente è un gesto enorme per i suoi problemi attorno al contatto fisico. Se lo sono portato via. Quando toccherà a me? Guardo Alex mentre un po’ di sangue mi finisce negli occhi. Tiene le palpebre aperte giusto per riuscire a vedere. Vecchia pazza. Si morde le labbra in una specie di piacere malsano mentre mi guarda. Continuo a guardarmi in giro, un lampione ottocentesco fischia, le macchine passano sempre con minor insistenza. “Allora? Raccontami tutto” mi dice quasi in attesa. Ha la faccia della colpevole felice. Io non ricordo nulla. Vuoto. Anche quel sottile piacere se n’è andato e il senso di liberazione con lui. Lev continua a telefonarmi e con lui Sara, la mia ragazza, quella per i momenti bui e meno per i momenti felici non ricambiati, da portare a festa e a cena fuori. E poi la distanza e quella faccia da saputella e il ritratto del mio fallimento come giovane uomo. Quanti pesi, quante bombe mai esplose sopra i palchi. “Non lo so, non lo so, ti voglio bene Alex”. La bacio sulla guancia, ma lei invece di ritrarsi mi tocca la ferita sulla tempia, rimaniamo lì, uno accanto all’altro.

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