Illustrazioni a cura di CO:MA
II. Coniugi Bacchini, piano quarto
Eravamo appena arrivati dalle nostre piccole città di campagna, per motivi di studio o per una necessità di cambiare aria, Lev, Alex ed io. Quella casa in centro sembrava l’affare della vita per chi, come noi, era cresciuto con un personale mito dell’indipendenza, anche se eravamo tutti mantenuti. Io, ufficialmente, ero finito a Torino per la laurea e la disoccupazione che ne sarebbe conseguita, Lev per i suoi progetti ultraseri sulla vita, Alex, più benestante di tutti, per un motivo che nessuno sapeva. La mattina dell’ultimo giorno felice della mia vita era iniziato come al solito, sbattendo la porta e suscitando le urla dei Bacchini e dei loro cappotti di naftalina. La loro porta era sempre mezza aperta e, se guardavi bene, potevi scorgere l’appostamento del cavaliere Agenore Bacchini appena dietro l’uscio e sentire le rughe tendersi nel buio per insultarti. Si batteva anche lui, come tutti, nella sua personale guerra di trincea contro il mondo. Sua moglie, un piccolissima donna in pelliccia, tirava un sospiro di sollievo a ogni nostro rumore che spezzava la loro immobilità definitiva, in cui mancavano gli argomenti di conversazione all’ora del Pennyroyal e il genepy. Sbattere la porta, alzare troppo il volume dello stereo o soltanto qualche risata era un buon pretesto per fargli ricordare di quanto fosse più tranquilla la vita quando c’era lui.
Tutto in loro era reazionario ed è più dello stupido sinistrismo che ti nasce dentro una volta arrivato all’università. Non era solo quel fastidioso zerbino tricolore o la bandiera appesa fuori dal balcone, nostalgica pretesa di differenziarsi dalla giovane famiglia di arabi che gli stavano sotto. C’era qualcosa di più dell’evidenza. Sempre soli, neanche fosse un cliché annebbiato, senza figli o amici che li andassero a trovarli, al nostro arrivo dovevano avere sentito quell’emozione che nemmeno una pillola blu doveva più dargli da anni. Non facevamo casino, ma avevamo vent’anni, e se non avessero chiamato la polizia la prima settimana dal nostro arrivo forse, col tempo, avremmo iniziato a volergli bene. Nei primi giorni avevo avuto l’unico, e per fortuna ultimo, onore di entrare in quella casa buia – se avessi la nostra età capiresti quanto la luce possa essere dolorosa – in cui tutto aveva l’odore dei tempi lontani da noi.
Avevo bisogno solo di un pugno di sale per una pasta in bianco, e questi mi avevano tirato dentro per fare un giro della loro casa e parlarmi. Anziani soli, pensavo, non c’era nulla di sbagliato. Non ho mai creduto abbastanza al mio prozio quando mi diceva di non fidarsi mai di chi ti invita in casa propria e ti rifila un caffè terribile. In ogni stanza, a farla da padrone, c’era una litografia di Mussolini, il duce che dava da mangiare alle oche, il signore in procinto di scavare una pozza nell’Adreatino, giornali incorniciati del capo dell’Italia che spinge al sacrificio, Gianni Morandi e Giovinezza. Poi le cose erano degenerate, e ogni scusa era buona per andarsene. Dovevano averli percepiti quei miei brividi man mano che giravo per le stanze, perché poi il nostro rapporto divenne conflittuale e finì sul personale. Fiori tagliati, minacce di chiamare la finanza e farci cacciare fuori dall’Ingegner Tromini, noi e i nostri contratti in nero, e quell’insopportabile insulto ogni volta che si faceva un rumore che superasse la sopportazione dei loro cornetti acustici. Ma era Agenore il problema,era la sua presenza più del suo giudizio a rovinarci ogni momento semi felice. La signora, poveretta, era solo stanca dei giorni e di vivere con un tale stronzo ma, anche in lei, non avremmo mai trovato una vera alleata.
“Te l’avevo detto, quelli portavano solo guai”
“Avevi ragione tu Agenore, questi ragazzi di oggi non sanno stare al mondo”
“Ah, se c’era lui, mica li mandavano a Parigi, sarebbero stati belli istruiti, mica avrebbero portato quei vestitini da donna, ah no, ah no. Mio fratello non è morto per questi smidollati senza cuore e famiglia”
“E poi quel povero signore là per terra, abbiamo fatto bene ad andare via. Ho lasciato il nostro numero al signor Appuntato. Che ci chiami se vogliono sapere cosa facevano quei ragazzacci. Sempre musica ad alto volume e poi che musica. Ah no, ah no, non ci siamo”
“Brava donna, non ne fanno più come te. Ricordi quando quel ragazzo era entrato in casa nostra! In casa nostra! Nella casa della mia cara madre. Spero non me ne abbia da lassù, povera anima, quel comunistello qui! Era solo una tattica! Il sale! Chi non compra il sale quando va a fare la spesa! Ah no, ah no, questi qui non me l’hanno mai contata giusta. Ti ricordi quando si sono infuriati con noi perché gli avevamo detto che non avrebbero mai combinato nulla nella loro vita? Studiare! Io alla loro età ero già sposato! E mio fratello aveva già due figli! La terra! La terra! Mica i libri! Ah no, ah no”
“Ti verso un goccio di genepino, caro mio, dobbiamo brindare”
“Ah no, Ah no, che poi mi sale la pressione e al dottore glielo spieghi tu. Gliel’ho ripetuto troppe poche volte a quello là che sarebbe stato un fallito. E mi dispiace non essere suo parente, ma qualcuno glielo doveva pur ben dire, eh sì, eh sì. Drogato! Lo sapevo, lui e i suoi libri e chissà che cosa nascondono in casa! Dammi un goccio cara, che ho già la tachicardia e bisogna festeggiare.”
“Agenore stai bene? Ti vedo più bianco del solito”
“Ho solo male al braccio.”
“E lei passava di qua per caso giusto?”
“Stavo tornando a casa, gliel’ho già spiegato.” Questi non sembravano capire quello che dicevo.
“E perché lo ha fatto?”
“Non lo so”.
Stava passando una ragazza poco più in là, capace di oscurare il rumore della seconda ambulanza in arrivo. Mi è bastato uno sguardo per accorgermi che si trattava di Lucia che tornava dal lavoro. La sua camminata veloce le muoveva la gonna nera slanciandole le gambe lunghissime e sottili sulla via di casa. Aveva scostato la folla, disinteressandosi di quello che era successo e, mentre tutti parlavano, mi era sfuggito un sorriso, lo stesso di questa mattina sulle scale.