L’ultimo giorno della mia vita felice, I

Illustrazioni a cura di CO:MA

I. L’ultimo giorno

Stavo rincasando da solo e mancava poco al portone di legno massiccio. Una manciata di metri e tutto avrebbe preso la solita, noiosissima, piega. Aprire l’anta e scavare nel frigo, rovistare fra gli alimenti bio di Alex, far saltare fuori qualcosa di marcio e che possa riempire la pancia e darti la forza per chiamare l’asporto. Giustificare l’ennesimo caffè freddo nella macchinetta e sacrificare un’altra sigaretta, come tanti studenti prima di noi. In pochi secondi, invece, senza neanche avere il tempo di capire come sia successo, si è stravolto tutto. Non era una giornata particolarmente memorabile ma nemmeno così tragica. Il tempo sopra Torino era quello che solo chi se n’è fatto schiavo su al nord può comprenderlo. Grigio, colonna sonora di un suicidio o dell’oblio di cui tutte le grandi città si fanno assassine, suono bianco delle nostre vite piene di rumori. Un clima creato per non uscire, dopo il collasso della sera prima su qualche divano preso in prestito da un amico, o per marcire davanti a uno schermo e una serie tv. Le tabelle di marcia si fanno per rispettarle e, controvoglia, ero dovuto uscire anche io. La pigrizia ci avrebbe salvato, ne sono sempre più cosciente ormai. Il marciapiede era così sconnesso da farmi inciampare un paio di volte, nonostante ci passassi quasi tutti i giorni. Una Mazda rossa mi ha suonato perché ci mettevo troppo ad attraversare la svolta su Via Po. Non l’avevo chiesto io, del resto, tutto quello sforzo. Mi sarebbe bastato appassire sul divano, a guardare il sole tramontare davanti a una birra e le stupide chiacchierate fra persone sconosciute che sono amichevoli solo per mantenere un clima decente in casa.


Eccomi, sulla solita via, le urla dei bambini nel parchetto che correvano dietro ai palloni e io che li guardavo con paura perché non mi arrivassero addosso con i loro giochi facendomi male o, solo, togliendomi dal mio isolamento. Io che transitavo stancamente nel loro regno per la mezz’ora dell’intervallo pomeridiano. Fanno ancora il tempo lungo? Ricordo di essermelo chiesto, e di aver sentito l’odore della mensa CIR e la retina per i capelli sporchi delle donne che ci davano da mangiare e che trovavo così malsane e allo stesso tempo attraenti. Stavo giocando con il moschettone delle chiavi di casa e mi ero accorto di quanto fosse comodo appoggiarlo sulle nocche come un arrugginito tirapugni di Detroit a difendere l’onore di quella sforna figli di mia madre. È stata una manciata di centesimi fra un pezzo e l’altro e quell’ingombrante rumore di ruote sul marciapiede, a trasformare la fantasia in un impulso a colpire quel piccolo ometto che mi passava di fianco. Uno di quei poveretti tutti pulizia e onestà che cercano di dar da mangiare ai figli nel grande progetto che si sono fatti. Una vita virtuale con ragazzine in chat dal nome imbarazzante, che ti svuotano la carta di credito solo per farti vedere un piccolo pezzo del loro immaturo seno da bambine. Non è passato più del tempo di uno sguardo nelle nostre scatole a forma di cuore per farli esplodere nei nostri petti. È bastato solo un colpo, scagliato da quello che non era più il mio braccio, per stenderlo a terra e farlo sanguinare. Le scarpe si sono velocemente sporcate di tutto quel sangue che il mio piccolo pugno aveva spillato. L’adrenalina mi ha fatto sentire bene, per un attimo. Poi l’orrore. Non sono una persona violenta. Ogni cambio di direzione avviene per un motivo ma il mio cervello, in quel momento, non sapeva dirmi da dove venisse, non avendo mai visto la faccia che avevo appena colpito in tutta la mia vita. E tutte quelle domande della polizia che io stesso avevo chiamato. Sono colpevole! Sono stato io! E gli porgevo le mani perché mi incatenassero. Ma succede solo nei film, quelli parlavano e parlavano con diversi accenti e io volevo solo del silenzio, che mi buttassero e mi seppellissero, perché avrei avuto troppe facce da guardare e a cui spiegare questa cosa. Seguendo un ordine non troppo bene prestabilito avrei dovuto spiegarlo ai miei genitori che mi mantenevano e non l’avrebbero più fatto perché minimo tre anni mi avrebbero dato, aggressione, omicidio premeditato e tutto quello che voleva dire. Gli avrei dovuto confessare anche l’esito dei miei pochi esami, mentre tutto intorno girava e non si fermava più. Ero finito dentro a una sbronza capitata per caso più che in un incubo. Il turno delle giustificazioni, senza saltare caselle, sarebbe arrivato davanti alla porta della mia ragazza, che custodivo così gelosamente lontano da me. Sarebbe stato più semplice dirlo a lei. Non aspettava altro per rinfacciarmi quello che ero diventato. I suoi sospetti avrebbero finalmente trovato una conferma. Non ero più lo stesso, sentivo già la sua voce stridula, questa città mi aveva reso troppo odioso e stanco, era ora di tornare a casa fra le sue braccia. No, troppe parole, non potevo continuare così: “Agenti, sono colpevole”. Ma questi se la ridevano. Avevo del sangue sulla mano e il moschettone si faceva sempre più rigido segandomi le dita. Alcune persone iniziavano a radunarsi intorno alla scena del delitto interrogando quelli che avevano visto sull’accaduto. Potevo sentire i loro indici accusatori toccarmi con la loro bassa moralità, mentre il resto della mano riprendeva tutto col cellulare. Doveva essere questa la celebrità che tanto cercavo. Fra di loro, preannunciati dall’odore che fa la naftalina sugli anziani, c’era quella fastidiosa coppia di vecchi reazionari, in prima fila a puntare il dito a ogni occasione. Il non morto vecchio Agenore, gagliardetto tricolore spillato sulla camicia nera e un’adolescenza mai davvero superata. Lui e la sua signora, i dannati vicini di corridoio.
Me l’avevano detto che sarei finito male, il mio odore era ancora troppo giovane per poter caricare le armi che ci sarebbero servite per sopravvivere, e loro lo avvertivano da tempo.

 

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