L’ora del tramonto è il momento più incomprensibile della giornata e per qualche strana ragione è capace di mettere d’accordo romantici e cinici. Chi non ha mai fotografato il crepuscolo? Ogni giorno intasiamo i social network di istantanee scattate con smartphone di ultima generazione che evidenziano sempre più i contorni, i colori e la profondità dei panorami che speriamo di non dimenticare mai, trattenendo nei ricordi soprattutto l’ultimo lembo luminoso prima che cali l’oscurità. I filtri poi fanno il resto.
L’ossessione per i tramonti deve probabilmente aver colpito anche il californiano Scott Hansen che da tempo vive una duplice identità, quella del fotografo e visual artist ISO50 e quella del musicista Tycho, e secondo fonti indiscrete risponde a entrambi i nomi sia di notte sia di giorno. Guardate, però, le copertine dei suoi ultimi album: Dive, Awake e dal 30 settembre scorso Epoch. Non c’è alcun dubbio che il chiodo fisso di Tycho sia il sole. Cosa vorrà comunicarci? Si tratta di un rebus? O di un messaggio da parte degli alieni?
Tycho richiede silenzio, concentrazione e cuffie. Spesso pretende di essere ascoltato su un prato o tra gli scogli che danno accesso al mare. E se al primo ascolto nessuno sembra averlo davvero capito, non è scontato riuscirci neanche al decimo. Epoch appartiene a una dimensione che si trova in bilico tra il passato e il futuro e che non conosce il presente; è un disco che va assimilato lentamente, senza fretta, digerito dopo immense quantità di caffè bollente.
L’unica certezza è che si tratta di un album che colpisce nei punti che fanno più male. I suoni cremosi come il miele delle precedenti raccolte sono stati spazzati via da un tappetto di sintetizzatori analogici che scavano come ruspe tra i resti di un locale notturno raso al suolo nel bel mezzo di un concerto. Non ci sono vuoti che non siano riempiti dalla potente accoppiata batteria + basso sia in tracce luminose come Horizon, Slack o Epoch, sia nelle più riflessive Receiver, Source e Continuum.
Su Field, verso i titoli di coda, rimaniamo a singhiozzare mentre le lacrime scorrono calde sul viso e la sala del cinema fino a poco prima gremita è ormai rimasta deserta. Epoch è un sentimento a cui non riusciamo a dare un nome, ma quando chiudiamo gli occhi avvertiamo un fruscio e improvvisamente capiamo. È il ritmo che ha finito di cucire tra loro undici canzoni molto diverse, trasformandole in pagine di uno splendido noir pieno di colpi di scena, e noi, proprio come quando divoriamo un libro meraviglioso, ci sentiamo orfani di qualcuno a cui non siamo in grado di dare un volto. L’unica soluzione è schiacciare “play” all’infinito.
Sono le 04:07: forse abbiamo prolungato i tramonti di Tycho fino a farli diventare quasi albe e non ce ne siamo resi conto.