Non esiste che una possibilità tra questo mondo e l’altro / Fuoco cammina con me
È passato un mese e mezzo dalla prima puntata della terza e attesissima stagione di Twin Peaks. Nove episodi, in otto settimane ci hanno permesso di entrare nuovamente nell’universo creato da David Lynch nel 1990. Le attese erano alte, con Lynch fermo dal 2006, anno di uscita di quello che nelle ultime interviste è stato sancito dallo stesso regista come suo ultimo e definitivo lungometraggio. Che cosa dovevamo aspettarci dopo ben ventisette anni dall’ultimo episodio?
Twin Peaks 2017 è una sorpresa solo per chi non conosce l’opera intera di David Lynch. Era impensabile, infatti, l’idea di un sequel che ripercorresse come Pollicino le stesse tracce lasciate nei boschi di sequoie della piccola cittadina non lontana da Seattle e dal confine canadese, dove nessuno può essere innocente. Certo è che forse neanche i più avvezzi alle due serie precedenti potevano aspettarsi uno scarto così forte soprattutto in alcune delle nove puntate che finora sono andate in onda.
In breve: la cittadina di Twin Peaks è relegata quasi sullo sfondo come un palcoscenico su cui ancora si muovono i fili che tengono in piedi la storia e il legame col passato, mentre due nuovi scenari si aprono: la città di New York e il North Dakota. Intanto su una scacchiera che si moltiplica all’infinito, una pletora impressionante di personaggi vecchi e nuovi appaiono e scompaiono portando con sé i consueti segni di un mistero profondo, di segreti che non possono essere svelati, di legami dei quali non riusciamo a cogliere tutte le connessioni. C’è ancora la stazione dello sceriffo (ma senza quello sceriffo), ci sono Andy e Lucy e un superbo vicesceriffo Hawk, c’è il Double R con Norma e un’ancora incantevole Shelley Johnson, c’è, soprattutto, la Roadhouse, dove le puntate finiscono con una band sempre diversa sul palco.
A voler leggere i segni era tutto già scritto nella nuova sigla: breve, con gli stessi caratteri dell’originale eppure con un senso di distanza immediato e angosciante. La nebbia a coprire le Douglas Firs sulle cime gemelle, l’inquadratura dall’alto sulle cascate sotto il Great Northern Hotel. E quel sipario rosso fuoco che ci introduce alla Loggia Nera lì dove avevamo lasciato ventisette anni fa l’agente Cooper posseduto dal demone di Killer Bob.
Il nuovo Twin Peaks, proprio in virtù dello stretto legame con il mondo della Loggia, più che alla serie originale sembra collegarsi al film del 1992, Fire Walk with Me verso il quale è almeno debitore di alcuni importanti passaggi che qui sembrano ritornare, a partire dalla presenza, che aleggia sul passato e sul futuro dell’agente Cooper, del misterioso Phillip Jeffries interpretato allora da David Bowie (e c’è chi è pronto a scommettere in un possibile cameo del Duca Bianco anche nella nuova serie, girata in parte prima della sua scomparsa).
Intorno al vecchio nucleo centrale c’è il mondo nuovo, attraversato da più Cooper: il suo cupo e tenebroso Doppelganger e il buffo e catatonico Dougie (difficile non pensare al divertimento sul set di Kyle MacLachlan), entrambi sospesi tra la Loggia Nera e un mondo che pure è difficile definire reale. C’è l’FBI, con Denise (David Duchovny) e, soprattutto, gli agenti Albert e Cole (lo stesso Lynch) questa volta affiancati dalla musa conturbante Chrysta Bell.
Volti nuovi famosi (Amanda Seyfried, Naomi Watts, Laura Dern, Jennifer Jason Leigh, Tim Roth) e meno noti destinati però a lasciare il segno pur nelle brevi apparizioni cui Lynch (per ora) li relega. In un set blindato, ogni attore ha interpretato la sua parte senza nulla sapere dello sviluppo della storia (ma sarebbe meglio dire delle storie) in una dimensione contemporaneamente d’immanenza e di smarrimento. La stessa che si prova nel tentativo di dipanare il mistero puntata dopo puntata: perché se è vero che la presenza di Laura Palmer è ancora fortissima (le pagine del suo diario che ricompaiono creando una nuova svolta nel caso) è innegabile che la terza stagione di Twin Peaks rappresenti un unicum nell’attuale panorama televisivo che solo la visionarietà di David Lynch poteva partorire.
Se agli albori degli anni novanta Lynch piegava la propria arte al compromesso televisivo realizzando un’opera ibrida capace di portare il fascino e il turbamento del male dentro i normali palinsesti televisivi, dando così il via a un concetto di serie, fino a quel momento, impensabile a cui tutti saranno debitori (da X-Files a Lost fino a True Detective), oggi, il nuovo Twin Peaks, lungi dall’essere un prodotto che ricerca il nazionalpopolare, si pone, invece, come antitesi di ciò che solo apparentemente si propone di portare a termine. Liberato dal peso della serialità (in fondo la terza stagione è un unicum che non necessita di feedback), presosi, con la forza del proprio carisma e della propria carriera cinematografica, la totale libertà d’azione, con la terza stagione Lynch realizza quella che appare non solo come la risalita verso il cuore di tenebra dell’orrore che si consumava nella misteriosa cittadina americana ma anche un’opera che riesce a essere nel medesimo tempo summa autentica e altissima del pensiero come dell’estetica (e conseguentemente dell’etica) lynchana e, insieme, incredibile scarto artistico verso territori inesplorati della serialità televisiva.
Proprio mentre il modello Netflix marcia con forza attraverso produzioni di sicuro fascino e indiscussa fattura che promettono di rivoluzionare la visione delle serie tv, il maestro Lynch spariglia nuovamente le carte e per riuscirci fa, in fondo, quello che sa fare meglio: puntare altissimo senza preoccuparsi più di tanto di chi ha la voglia (ma sarebbe più giusto parlare di fede) di seguirlo. La nuova stagione di Twin Peaks ha regalato momenti altissimi nelle prime puntate: dai venti minuti espressionisti che richiamano il cinema nella sua forma primordiale in apertura della terza puntata (snodo fondamentale in cui Cooper abbandonerà la Loggia) fino all’intero ottavo episodio dove dopo un avvio pur notevole, l’arrivo sul palco di una band così profondamente lynchana come i Nine Inch Nails diventa l’ingresso infernale, sulle note di She’s Gone Away, verso quaranta minuti capaci di mescolare esplosioni atomiche, visioni cosmiche, salti temporali spaventosi e la presenza di personaggi inquietanti che sembrano porsi come generatori del male assoluto.
L’ottavo episodio, in cui il gigante sembra avere epifania di Killer Bob partorendo dalla testa una Laura Palmer che, qui come in Fire Walk with Me, sempre più appare come un agnello sacrificale che cerca di opporsi al male, resterà a distanza di tempo come uno dei momenti più coraggiosi nella storia non solo della serialità ma della televisione tutta.
Immersi dentro atmosfere che richiamano Mullholand Drive come anche gli esordi di Eraserhead (ma è difficile nelle scene notturne non pensare anche ai fantasmi che attraversavano come una scarica elettrica Lost Highways) ci abbandoniamo alla mancanza di linearità nel nuovo Twin Peaks godendo dei frammenti che sembrano indicarci una strada alla fine della quale saremo ricompensati dal senso. Una sfida verso il pubblico dove nulla però è lasciato al caso, tessere di un mosaico complesso e delicato che a poco a poco ricostruiscono la verità che si cela dietro l’arrivo del male in una classe di una scuola superiore dove l’urlo straziante di una ragazzina nel cortile suonava come una macabra e agghiacciante campanella che metteva la parola fine all’innocenza della gioventù.
Tra le pedine di un gioco più grande teso a ricostruire un senso che sfugge ma che è già qui davanti ai nostri occhi c’è ancora James Hurley, c’è da qualche parte Audrey Horne, c’è, con un’incredibile metamorfosi, Bobby Briggs. Sono invecchiati, come siamo invecchiati noi, li abbiamo attesi e aspettati e come ogni attesa nulla è davvero come ci aspettavamo. Ma come ha detto lo stesso David Lynch, lui per prima e noi con lui, non aspettavamo altro che tornare ad abitare un luogo cui siamo stati incredibilmente legati.