Il gran giorno è arrivato, l’attesa è finita. Non è stata breve, sono ventisette gli anni passati dall’ultima puntata andata in onda di Twin Peaks. Era il 10 giugno del 1991 (in Italia l’episodio andò in onda la sera successiva) quando calava il sipario su una serie che era stata, per entrambe le sponde dell’oceano, un evento allora unico nel panorama televisivo. Tutto era cominciato poco più di un anno prima negli Stati Uniti e appena sei mesi prima in Italia, il 9 gennaio del 1991.
Chi ha ucciso Laura Palmer? divenne presto, prestissimo, il mantra che accompagnava pubblicità in tv, titoli su tutti i quotidiani e i settimanali che incorniciavano le edicole d’Italia. Silvio Berlusconi Communications, la casa di produzione del futuro premier, con quel logo dorato su sfondo nero, era la scritta che apriva ogni episodio su Canale 5. Mai una serie tv aveva goduto dell’hype (ma allora non sapevamo nemmeno cosa fosse) di Twin Peaks. Bastò una puntata, una sola, il viso esangue di Laura Palmer, la scoperta di quel cadavere abbandonato sulla spiaggia a un passo dalle segherie Packard per la creazione di un mito capace di resistere al tempo. Twin Peaks fu un punto di svolta nella storia della serialità televisiva quando il concetto di serie era ancora da venire e si parlava di film tv o più semplicemente di telefilm. Era il mondo adulto che s’impossessava di un oggetto pop, di consumo, trasformandolo in qualcosa di profondamente diverso che utilizzava gli stessi meccanismi per scardinarli dall’interno. Era il cinema, attraverso uno dei suoi più innovativi interpreti, che scavalcava lo steccato che separava il grande schermo dal prodotto televisivo, per provare un esperimento da cui non si sarebbe potuti più tornare indietro.
È impressionante l’impatto che Twin Peaks ha avuto sulle serie tv successive, al punto da farne quasi il (blue) Velvet Underground & Nico della serialità televisiva. Senza che nessuno sia riuscito a raggiungere i vertici della serie creata da Mark Frost e David Lynch.
Twin Peaks è stata tante cose in una: un thriller che si trasforma in esperienza metafisica capace, in chiave postmoderna, di mescolare alto e basso, drammaticità e faciloneria da soap, il kitsch e le filosofie orientali, il dramma con l’ironia affidandosi a un cast straordinario senza che vi fossero visi noti, senza la necessità di trucchi e nomi grossi per attirare pubblico. Con una colonna sonora che ancora oggi resta tra i vertici del genere. La piccola provincia americana che dietro l’apparenza dell’idillio nasconde i suoi segreti più reconditi, la violenza che sconvolge, il sesso che turba, l’adolescenza che si mescola in maniera imprevedibile all’età adulta.
Cosa possiamo aspettarci dalla terza serie con una distanza temporale così grande? Sky on demand ha provato a togliere la sorpresa pubblicando per errore le prime due puntate prima di rimuoverle, ma l’appuntamento è per questa notte alle 3 in contemporanea con la messa in onda statunitense. Sappiamo chi tornerà del cast originale (su cui emerge la mancanza dello sceriffo Truman) e sappiamo anche dei nuovi personaggi che saranno presenti in un cast che conta centinaia di attori e su cui emergono i volti (che già immaginiamo incastonati ai piedi delle cime gemelle) di Laura Dern, Naomi Watts, Amanda Seyfried, Trent Reznor e Eddie Vedder.
Sappiamo che ci saranno 18 episodi da un’ora, tutti firmati e diretti da Lynch (conditio sine qua non per la realizzazione del progetto), ma nulla di cosa accadrà. Logge bianche, logge nere, presenze oscure, il destino dell’agente Cooper che sembrava segnato nell’ultima puntata, il suo rapporto con Audrey Horne, la presenza onirica di Laura Palmer che continuerà ad aleggiare sulla cittadina americana più nota degli anni novanta, il motociclista James Hurley che alla fine della seconda stagione andava via: David Lynch non solo non ha concesso alcuna indiscrezione o anticipazione ma ha sottolineato il bisogno di entrare in una sala cinematografica come davanti a uno schermo della propria casa (il vero luogo deputato alla fruizione della serialità a differenza del cinema) senza conoscere nulla di ciò che si sta per vedere ma aspettando il buio e l’inizio delle immagini e della storia.
Una dichiarazione programmatica che, riannodando i fili a un tempo passato dove l’alternativa era forse una VHS home video di scarsa qualità e non certo il digitale a 1080p che ci promette Netflix nella sua crociata oscurantista o liberatoria (a seconda dei punti di vista) contro la kermesse francese di questi giorni, ci mostra Twin Peaks (e il suo creatore) come un reduce di un tempo lontano che prova a lottare per ricollocarsi dentro un’offerta enorme e non sempre di qualità, mettendo l’opera al centro della discussione ben al di fuori del grado di coolness che pure da un po’ di tempo avvolge tutte le serie tv e coloro che le guardano.
Twin Peaks è un ritorno a casa, in un luogo dove siamo stati bene, come ha ricordato lo stesso Lynch ma, fuori da trappole nostalgiche, è anche l’opportunità enorme di ammirare uno dei più grandi cineasti della sua generazione alle prese con un prodotto (cui pure deve tanto) in un paesaggio culturale, televisivo e cinematografico, terribilmente cambiato e non sempre in meglio.
C’è da augurarsi che Twin Peaks torni a essere quello che è stato al suo esordio: uno specchio deformante in cui guardarsi senza possibilità di fuggire lo sguardo, un modo per lasciarsi andare alla parte più oscura di sé dentro attraverso una serie capace di farsi non solo fenomeno di moda ma vero elemento culturale degli ultimi trent’anni.