La possibilità del farsi cenere di un mondo è allora un lampo improvviso e doloroso che sfigura la quiete di un’esistenza. Accettare la contingenza e la spettralità di ciò che riteniamo più intimo di ogni intimità, di ciò che definiamo più proprio di ogni proprietà, è, se mai possa essercene uno, un compito che atterrisce. Come nelle parole di Cristina Campo sul destino, ciò che rimane è “sottrarsi al gioco delle circostanze, affinché nulla ci raggiunga, fuorché l’inevitabile”
Gli omicidi seriali hanno rappresentato per diversi decenni una delle più misteriose – e per questo inevitabilmente affascinanti – personificazioni del male. Libri, film, serie tv, approfondimenti giornalistici hanno tutti cercato di raccontare, analizzare e dare una possibile spiegazione a uno degli incubi più ricorrenti della società “contemporanea”. Impiegando spesso gli strumenti della psicologia e della sociologia e, in altre forme, celebrandone la diversità fino in alcuni casi a trasformare i serial killer in divi al negativo dello star system, come spesso successo almeno da Charlie Manson in poi, il primo a sfruttare quei meccanismi del mondo pop che fino a quel momento gli aveva voltato le spalle. In qualche modo però, in tutti, di là dagli intenti e dagli esiti – ora nobili, ora inequivocabilmente morbosi – l’attenzione è sempre stata diretta verso la figura del serial killer con l’obiettivo di cercare una spiegazione a un male difficilmente comprensibile.
A ventisei anni mi sono sentito vecchio. Tutto era cenere. Sentivo che non c’era più nulla d’interessante – nulla a cui rimanere aggrappato
Ian Brady, The Gates of Janus
Ecco allora che si deve accogliere con calore il libro di Simone Sauza edito da Nottetempo – Tutto era cenere. Sull’uccidere seriale – che si propone, invece, di compiere un’operazione molto diversa: quella di affrontare la figura del serial killer come possibile porta d’accesso a quei meccanismi che ci riguardano tutti da vicino. Cartina di tornasole, dunque, possibile elemento paradigmatico da osservare e provare a conoscere non per misurare – in maniera assolutoria – la distanza che intercorre tra noi e loro, ma per stimare, invece, la vicinanza a dinamiche e “motivazioni” dalle quali nessuno di noi può dirsi assolto.
Simone Sauza – romano, classe 1989, collaboratore de Il Tascabile, Esquire, Not nero e Sky Italia, autore di alcuni racconti (Ragazzo industriale, Ancora una notte, piccola città delle lacrime) – ha alle spalle una formazione da filosofo, ed è proprio coi mezzi della filosofia – e in particolare dell’epistemologia – che ha affrontato questo viaggio.
Ma attenzione, sbaglierebbe chi arrivato a questo punto si aspettasse un saggio. Tutto era cenere – e qui sta uno dei suoi meriti principali – è un testo spurio che certamente fa propria la digressione saggistica, ma nel contempo filtra molte delle sue pagine con l’autofiction, fin dalle prime quando ne racconta la genesi avvenuta nelle settimane del lockdown del 2020 (e come accadeva per Ex Machina di Valerio Mattioli non si tratta di mero dato biografico ma di un elemento, un ambiente fisico e psicologico evidentemente capace di plasmare in un modo riconoscibilissimo la materia di cui si fa oggetto).
Ero sommerso. Incapace di alzarmi dal letto. Cominciavo a scrivermi gli appunti sulla pelle e mi ricoprivo il corpo con una grafia minuta come una trama di tatuaggi, poi l’inchiostro diventava rosso, simile alla notte che scivola nell’alba, e la penna tra le mani era un coltello, e io non facevo altro che incidere il libro sulla mia carne – questo libro ancora mai iniziato che si genera sotto la pelle dell’isolamento
Nato da questo isolamento, dominato da una forma sempre più parossistica di ossessione, Tutto era cenere prende il via da una clamorosa intuizione, che se comprensione è possibile, essa sarà data non dalla necessità di trovare una luce che passi attraverso una frattura, ma da “un buio, una qualità del buio che, come il negativo di una pellicola fotografica, chiarifichi le ossa del mondo”.
Attraverso il ricorrere a un pantheon personale di studiosi, filosofi, pensatori, registi – in cui mescola Cristina Campo con gli Swans, David Foster Wallace con Michael Haneke e Lars von Trier – Sauza prova a tracciare in maniera sistemica una parabola compresa tra le due catabasi che aprono e chiudono il libro. Solo a scorrere i titoli dei quattro capitoli: Sonnambuli. Una fenomenologia impossibile dell’esperienza omicida / Scopofobia. La questione dello sguardo / Celebrities. L’estetica del male e la macchina mediatica / Pura oscenità. La forma inumana del desiderio – è possibile intuire – e ricostruire per chi ha letto il libro, il percorso che Sauza fa compiere al suo ragionamento per sganciarsi da idee fin troppo sedimentate per essere ancora credibili – la serialità omicida come figlia di abusi e traumi familiari – fino a realizzare una traiettoria capace di portare le radici di quegli istinti, di quei pensieri e di quelle azioni dentro uno spazio molto più ampio.
Che tipo di mondo percepisce un serial killer? Cosa sono gli altri all’interno dei suoi schemi percettivi? Che tipo di scarto sancisce con la gente comune?
Il libro si apre su una delle figure più affascinanti della golden age dell’omicidio seriale, Richard Ramirez, The Night Hunter, e su un’affermazione che in maniera orgogliosa rivolse alla giuria durante il processo “Io sono al di là della vostra esperienza”. Una frase che certamente svela quel meccanismo d’identificazione di sé attraverso lo sguardo dell’altro che è propria di tantissimi serial killer ma che, soprattutto, nasconde una verità profondissima: e cioè che gli assassini seriali sono esseri umani capaci di superare un limite, una linea tracciata a terra che separa la propria esperienza da quella dell’uomo comune.
E utilizzo qui, questa espressione, non certo a caso. Perché in realtà il discorso di Sauza arriverà esattamente qui, non a confutare questa idea, ma a mostrare come il serial killer è in realtà vicinissimo all’esperienza dell’uomo comune, di cui non rappresenta un’eccezione né tantomeno una variabile superomistica, ma una possibile continuità che per ragioni diverse non conducono la persona comune – io, voi che mi state leggendo, le persone che affollano le vostre vite – a compiere delitti secondo questa peculiare forma.
Di ogni era, dunque, eravamo costretti a conoscere solo l’inizio. Un mondo è sempre capace di crollare in un istante.
Chiave del libro non è, allora, il tentativo di comprensione di un meccanismo ignoto per dare un senso all’azione dell’omicidio seriale, piuttosto la necessità di voler “gettare una luce nel buio” per chiedersi “se questa forma intima e profonda di estraneità, quest’esperienza dell’inumano che risiede nel serial killer, abbia qualcosa da dire al resto della popolazione. In altri termini, bisogna chiedersi se la possessione possa essere intesa come l’emergere di questa alterità, di questo fondo non-soggettivo al cuore della soggettività che sostiene l’esperienza umana”.
Non credere a se stessi è il primo passo verso la sanità.
L’incapacità del serial killer di risolvere in maniera “normale” il proprio trauma “lascia intravedere qualcosa: una ferità più originaria sopra cui la vita soggettiva si è formata come una crosta”; la sua iper-soggettività disfunzionale, la “forma impazzita di un ego ipertrofico” sono l’attuazione di dinamiche che riguardano anche noi, vittime di una fin troppo facile assoluzione.
Altro merito del libro di Sauza è nella sostanza del suo metodo che procede per “ipotesi di lavoro”. Non presenta la sua teoria come un corpo levigato e preciso, tutt’altro. Accompagna il lettore dentro le pieghe dei suoi ragionamenti, nel grigio del suo avanzare empirico nelle notti di lockdown, esponendo il fianco al dubbio lecito delle riflessioni che emergono dalla lettura. Sauza si pone domande senza forzare le risposte, conscio che il suo è un tentativo di battere una strada, non di rispondere in maniera definitiva a delle ragioni che appaiono, infine, ontologicamente inconoscibili.
L’agonia di un Dio non sa che farsene della spiegazione del peccato. Essa non giustifica soltanto il cielo (la cupa incandescenza del cuore), ma l’inferno (la puerilità, i fiori, Afrodite, il riso)
Georges Bataille, L’esperienza interiore
Nel suo far dialogare il racconto con la psicologia, la sociologia, con l’arte, Simone Sauza si spinge, quasi come fosse dentro a un’atmosfera lynchana, fin sulla soglia di una loggia nera dove la verità non è più intellegibile ma solo data, fino cioè al senso di un mistero ultimo che richiama in maniera fortissima e lancinante la condizione di una perdita che precede la stessa venuta al mondo – in questo sorprende la coincidenza, pur nelle sue differenze, con un’idea che Fabio Anibaldi Cantelli pone centrale nell’esperienza della tossicomania nel suo Sanpa – fino a raggiungere una dimensione cosmologica.
L’atto di uccidere in maniera seriale è dunque un esperimento di auto-testimonianza; ristabilisce un’impalcatura dopo le rovine. […] Un mondo sorge. Più fragile e alieno di quello precedente.
Uno dei passaggi più belli del libro è quello in cui Sauza sostiene che il serial killer risponde quasi in maniera più autentica a quella mancanza ontologica, mentre le persone “normali”- attraverso l’accesso a quella messa in scena di comportamenti psicologici e sociali che funzionano da argine e tengono lontani dal baratro di vuoti (tutto era cenere) – riescono a nascondersi quella verità cui il serial killer si offre integralmente.
È certamente il tratto più interessante di Tutto era cenere. Usando le parole dello scrittore Peter Vronsky nel suo Sons of Cain: “Forse non è che i serial killer siano costruiti [made], ma è che la maggior parte di noi è decostruita [unmade] da una buona genitorialità e dalle dinamiche di socializzazione”. Ci dice Sauza che l’estraneità latente, il “fondo non soggettivo della soggettività” è il “fondo inumano su cui si regge la stessa esperienza”. È solo nel serial killer che tale fondo finisce con prendere il sopravvento.
La socializzazione, dunque – letta come “stordimento, divertissement da questo strano sfondo che rischia di affacciarsi e travolgerci” – diventa la strategia tramite cui sottrarsi alla “visione del carattere anonimo e impersonale dell’esistenza che precede il nostro essere umani”. Un trauma originario e prenatale che nella figura dei serial killer “emerge e destabilizza il loro vissuto; ma si tratta di una possibilità che, in forme diverse, riguarda tutti”.
Nelle pagine dedicate allo “sguardo”, Sauza amplia la sua weltanschauung non solo attraverso l’esperienza personale – notevole il momento autobiografico che racconta di una “Porno Gorgone a Berlino” – ma, partendo dal Sartre de L’essere e il nulla – “l’altro possiede un segreto: il segreto di ciò che io sono” – giunge a una riflessione affascinante, capace di legare l’azione del serial killer all’ambiente che lo forma e in cui si muove:
Le città non sono entità fisse, che se ne stanno là, in maniera statica, secondo il progetto di un certo urbanista. Sono piuttosto un flusso, modellato dalle menti e dagli sguardi che lo costituiscono, e che allo stesso tempo costituisce le menti e gli sguardi che lo abitano. Lo spazio fisico raggiunto dallo sguardo del killer assomiglia a ciò che nella letteratura scientifica viene chiamato landscape of fear (paesaggio della paura): una rimappatura psicologica dell’ambiente geografico da parte degli animali predati, che trasforma il modo in cui lo spazio viene esplorato.
Fino a toccare un tema estremamente letterario e – nello specifico – bolañesco: quello degli snuff movies che gli consentono – attraverso quello che non esita a definire “la massima realizzazione di uno sguardo da nessun luogo sull’altro” – di raggiungere un paradigma – estremo – che vede nella “ripetizione e nella riproducibilità dell’immagine” non solo la giacitura di “un potenziale di violenza” ma il riflesso tutto di una società incapace di rapportarsi all’altro se non attraverso uno schermo.
In questa notte epistemica c’è anche qualcos’altro che agisce: una forza, la cui etimologia riporta proprio a un cielo senza stelle. Un disorientamento originario che ha il nome di desiderio. Su questo terreno si gioca l’ultimo tentativo di possedersi. L’ultimo fallimento.
Il viaggio di Simone Sauza non può che concludersi dove tutto ha inizio, nelle pieghe del desiderio. Qui – tra Sigmund Freud, Gilles Deleuze e Félix Guattari – prova a ricostruire le dinamiche del desiderio inseguendo le strade del cyberpunk tra Crash di James Ballard (e di David Cronenberg) e il più recente Titane – Palma d’oro al 74° Festival di Cannes – di Julia Ducournau fino allo sconfinato universo BDSM.
Le narrazioni che costruiamo intorno all’amore sano, al piacere sessuale normale, sono dispositivi di contenimento; meccanismi di difesa per disinnescare gli aspetti più violenti e sovversivi che un desiderio non disciplinato può portare con sé. Ma questi dispositivi limitano la nostra capacità di riscrivere il linguaggio della violenza in una forma condivisa di godimento e di potere.
Quando scrive che “c’è qualcosa di più vasto nella corrente del desiderio, di più imprevedibile, e ciononostante non oppressivo: una zona in cui dietro le lacrime e il sangue è svanito il dolore”, Sauza porta a compimento l’ultimo sovvertimento: “non che la perversione possa essere semplicemente una sublimazione della violenza, ma che la violenza stessa sia una ripetizione grottesca di qualcosa di più originario, qualcosa che scava il significato dell’umano dal di dentro. Una nicchia in cui la sessualità fuoriesce dal terreno psicologico”.
È l’ultimo tassello della sua ricerca, l’atto finale di una sconfitta, il raggiungimento di “una soglia oltre la quale la psicoanalisi non trova più terreno”.
L’esperienza dell’atto di uccidere seriale fa intuire concretamente la fragilità su cui si regge il nostro orizzonte di senso, l’opacità delle nozioni che il pensiero ha eretto come un meccanismo di difesa, come una sorta di barriera della specie, per rafforza-re un senso di dominio e padronanza sul reale: l’io, l’identità, il sé, l’interiorità.
Si commetterebbe un errore imperdonabile se si pensasse che la conclusione di questo percorso sia che tutti siamo potenziali serial killer, lo stesso Sauza nell’ultima e seconda catabasi che chiude il volume scrive: “Preferirei mi si criticasse che tutto questo non porta da nessuna parte. Perché proprio da nessuna parte, in un territorio senza coordinate, è dove questo discorso cerca di arrivare”. La sua ricerca è destinata, per così dire “a fallire” in quanto è proprio la figura del serial killer che si sottrae tanto ai paradigmi clinici che a quelli sociologici. “Perché c’è sempre un resto che eccede”, perché la sua esperienza limite “sfugge alla ricerca delle cause. Svicola da ogni spiegazione esaustiva e rassicurante. Si può tentare soltanto un passo di lato”. Ma al contempo, guardando dentro questo territorio sconosciuto abbiamo la possibilità di sfiorare quel limite per conoscere noi stessi.
Prima di chiudere questa – lunga – recensione sarebbe però davvero un crimine non fare cenno alla prefazione che apre il libro. Nei ringraziamenti finali Simone scrive: “Ringrazio Luciano Funetta per aver scritto la prefazione e per una frase che lui non può ricordare, detta tempo fa in un pomeriggio autunnale in una libreria di Roma, una frase che in qualche modo è stata fondamentale nel processo che ha portato all’elaborazione di questo testo”. Ecco, a Tutto era cenere sono arrivato in una rara serata trascorsa tra le mura domestiche in cui – come di tanto in tanto capita – cercavo nuove informazioni sullo scrittore di Dalle Rovine (Tunué) e Il Grido (Chiarelettere). E quello che Funetta fa nella “prefazione” è in realtà sostenere un ragazzo in cui crede ma ancora di più regalare a Simone e ai lettori un vero e proprio racconto in cui, perso nella visione – guarda caso… – de La cérémonie di Claude Chabrol riceve via mail l’’invito a leggere il misterioso manoscritto di S.S. Senza rovinare la lettura di questa introduzione/racconto è a Luciano, però, che lascio le ultime parole su Tutto era cenere:
“C’è qualcosa in questo libro, ho pensato, che non lo rende un’opera chiusa. Sembra piuttosto un inizio o uno degli snodi centrali di una forma più ampia che non esaurisce nel saggio la sua natura profonda. Dalla superficie della prosa lineare e ossessivamente precisa di S.S. affiorano di tanto in tanto macchie indistinte. Efflorescenze dell’io, brandelli di ricordi ossidati, lacerti di incubi, spettri di notti insonni. Sotto la quiete autoptica della forma speculativa qualcosa pianifica di venire alla luce, sussurrando un verso di Celan, “Die Welt ist fort, ich muß dich tragen”, o canticchiando tra i denti “This is why events unnerve me…”.