Smaltito il cruccio per le paludi della Louisiana e accantonato il Twin Peaks-revival, il tributo di True Detective a David Lynch continua.
L’iconologia della prima stagione ci ammorbava con gufi, tazze tubolari da diner, anfratti boscosi e raffigurazioni rupestri. Allora le contaminazioni pedemontane di Twin Peaks si ricalibravano al Deep South: i grandi laghi turchesi si coagulavano in acquitrini color caffellatte e i colbacchi si risolvevano in esili cappellini di tela.
Ma cosa potrebbe accadere se l’immaginario di TD traslocasse, di punto in bianco, nei luoghi storici del teatro lynchiano? Nic Pizzolatto, che è un tipo sveglio, una risposta la ha già: True Detective atto secondo.
La nuova stagione è un’esplorazione dei siti californiani del noir anni 90, una rivisitazione appassionata di una certa estetica cinematografica.
Se la segnaletica rivanga le volte della Mulholland Drive, il particolare cromatico che scandisce le carreggiate, svelato un po’ alla volta dai fari che squarciano la notte, ci riporta alla sequenza dei titoli di testa di Lost Highway.
Il sangue bagna Los Angeles, ma una sorta di tensione primordiale sembra – ancora una volta – legare la serie alla saga di Twin Peaks.
A chi il giovane Paul Woodrugh, malinconico agente della pattuglia autostradale, non ha ricordato l’altrettanto fragile e piacente James Hurley?
Per il momento proiezioni, supposizioni, suggestioni. Ma siamo certi che Pizzolatto non mancherà di offrirci ulteriori segnali sulla paternità intellettuale – putativa – dell’opera.
Alle prossime sette puntate l’ardua sentenza.