È in sala l’ultimo film di Martin McDonagh (“In Bruges”, “7 psicopatici”), presentato lo scorso settembre alle 74esima edizione del Festival del cinema di Venezia e reduce dalla vittoria di 4 Golden Globe, tra cui quello per il miglior film drammatico e per la miglior sceneggiatura.
Ebbing, Missouri. Mildred Hayes (Frances McDormand) ha di recente perso la figlia, vittima di un terribile stupro. Frustata a causa dell’inadempienza della polizia locale nel trovare il colpevole dell’omicidio, decide di sfruttare tre cartelloni pubblicitari in disuso nei pressi della sua abitazione con lo scopo di far riaprire il caso. Nonostante le indagini riprenderanno come da lei sperato, in poco tempo la donna si ritroverà contro l’intera cittadina, indignata da quei manifesti che attaccano lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), amato dalla comunità e che sta lottando contro un cancro in fase terminale.
Quella che McDonagh dipinge nel suo terzo lungometraggio è un’America rurale, razzista, rabbiosa. Il significato del nome della cittadina fittizia protagonista del film non è un caso e va ricercato sia storicamente, in quanto Ebb è stata una piccola città del Missouri – stato sudista e schiavista durante la guerra di secessione – e morfologicamente, in quanto la radice “ebb” ha il significato di deflusso, decadenza, declino.
La decadenza della comunità ipocrita e violenta di Ebbing, e in generale, di una certa collettività americana, è l’America raccontata con l’agente Dixon (Sam Rockwell), accusato di aver commesso in passato un “crimine d’odio”, che però precisa su come oggi non si dica più “negro”, ma “persona di colore”; è l’America che ai tempi non voleva Obama e che oggi ha votato Trump; è l’America dei western- genere riletto in chiave contemporanea – dove la “wilderness” dei paesaggi americani diventa qui più che mai la natura selvaggia dell’animo umano. L’odio sembra essere l’unico mezzo di comunicazione conosciuto dalla comunità, una moneta di scambio che non (ri)paga mai.
I tre manifesti ben presto diventano una scandalo nazionale che fa rimettere in moto le indagini, dando una falsa speranza a Mildred: è necessario sì che la donna insista contro un sistema in stasi, ma è pur vero che tutto il rancore che la donna riversa nella causa non le ridaranno mai indietro la figlia perduta. L’odio chiama altro odio: lo dimostra la fine che fanno i tre manifesti analoga a quella che faranno le vetrate della stazione di polizia (tre vetrate con tre insegne “Ebbing – Police – Department”, la controparte dei manifesti).
C’è uno spiraglio di luce alla fine di questo tunnel pieno d’odio? Il finale del film ce lo lascia intendere: la protagonista sembra trovare la strada giusta, ma è ancora esitante, incerta, instabile quasi come quella “camminata alla John Wayne” dalla quale proprio la McDormand ha ammesso di aver preso ispirazione per caratterizzare il proprio personaggio. Sono i piccoli (grandi) gesti delle persone più inaspettate che ci fanno cambiare prospettiva sulle cose, gesti simbolici disseminati durante tutta la durata del film.
Il film è sicuramente tra i migliori dello scorso anno (anche se qui da noi è uscito in questi giorni), spaccato crudo e schietto dell’America come solo un certo cinema indipendente made in USA saprebbe fare (un Todd Solondz di “Happinness” ad esempio), ma che anche McDonagh rappresenta esplicitamente.. Oltre a Harrelson e Rockwell – già collaboratori del regista in “7 psicopatici” – e alla perfetta interpretazione della McDormand – ruolo scritto su misura proprio per lei – va segnalato Caleb Landry Jones nel ruolo del pubblicitario che affitta i cartelloni alla protagonista, attore che passando dai camei per Xavier Dolan e David Lynch fino a grandi ruoli da protagonista come in “Antiviral” di Bradon Cronenberg, diventerà nel giro di pochissimo un attore di rilievo nel panorama cinematografico americano.