Livio è «uno sboccato scrittore» che si è tagliato le vene nel bagno di casa sua; Rufini, invece, è il dirimpettaio morto un mese dopo per infarto. Quello che rimane della loro esistenza aleggia nelle rispettive case, prigioniero di un futuro eterno in cui sono l’uno l’unica compagnia dell’altro.
Ci detestiamo da sempre ma rappresentiamo, nella condizione che io ho scelto e a lui è toccata, l’unica alternativa all’eterno silenzio che ucciderete anche chi è già morto come noi.
Le vicende di Livio, del suo compagno d’eternità, di chi rimane nell’assenza che hanno creato e dell’inaspettato che vivono, sono al centro del romanzo d’esordio di Valentina Evangelista, “Primo piano interno tre”, edito da Ensemble. Con l’autrice parliamo di esordio nella narrativa, del lavoro creativo che scrittrici e scrittori mettono nelle storie e della costruzione dei suoi personaggi.
Esordio. C’è una cura particolare di ogni autrice e autore per il proprio manoscritto, soprattutto tanta retorica sull’amore per la scrittura, ma si parla poco del lavoro creativo sulla storia. “Primo piano interno tre” ha il suo punto di forza proprio nella trama. Come nasce questo tuo esordio, o meglio come nascono l’idea e la storia che hai sviluppato. Cosa è arrivato prima? Una immagine, un ricordo personale oppure un personaggio?
Leggendo un racconto o un romanzo, ma anche ascoltando musica, ammirando una tela o guardando un film, mi chiedo sempre da quale scintilla, ispirazione o necessità siano scaturiti. Primo piano interno tre non è nato come un romanzo, ma da un racconto intitolato H2O, che scrissi qualche anno fa e che, per motivi diversi, mi sembrava non funzionare. Tuttavia, Livio, il protagonista, mi tornava spesso in mente chiedendomi più spazio e onestà per essere raccontato. L’intenzione che aveva animato il racconto, così, si trasformò del tutto e sui dubbi e le perplessità che avevo nel “rimetterci le mani”, si impose una domanda: può un personaggio sviluppare una volontà indipendente da quella del suo ideatore? Questo mi fece pensare alla creazione artistica come a una creatura gigantesca composta di molte parti, tutte connesse tra loro, e dotata di organi di senso molto sensibili, una creatura capace di battersi per mantenere intatte le proprie caratteristiche e di garantirsi la sopravvivenza. Da questa immagine Livio è riemerso, nel romanzo, con una forza che nel racconto non aveva, o meglio che io non ero riuscita a cogliere e, di conseguenza, ad attribuirgli. Si è mosso nella mia testa in maniera più compiuta e attorno a lui si è snodata la nuova trama fatta di immagini e frammenti che, messi in relazione e cuciti insieme, ho saldato su più piani che procedono a velocità diverse, gli stessi che compongono l’evoluzione di Livio, fatta di continui aggiustamenti, nuove cadute, cambi di passo e di pulsazioni.
Metaromanzo. C’è un romanzo nel romanzo in “Primo piano interno tre”. Il protagonista, Livio, è uno scrittore di cui conosciamo l’arrivo al successo, eppure questo non è abbastanza per appagarlo e quello che rimane di lui è un fantasma in un appartamento. Nella storia di Livio si innesca una sovrapposizione di piani narrativi in cui il tuo romanzo e i suoi si appaiano e si confondono fino al colpo di scena finale. Perché proprio uno scrittore? C’è qualcosa di fortemente metaforico nella vita di uno scrittore/una scrittrice che ti ha spinto a scriverne?
La scrittura è un processo creativo solitario. Gli stimoli giungono dall’esterno, dall’Altro da sé, ma tutto il resto è declinato al singolare. E la solitudine è un luogo piuttosto scomodo da abitare. Almeno, lo è per me. Quando ho letto e approfondito la vita e l’esperienza di scrittrici e scrittori che amo, l’elemento ricorrente che ne ho colto è lo scollamento tra il bisogno di “ripiegarsi”, abbandonando per un po’ la vita, e il senso di profonda solitudine e separazione che questo comporta. Non credo si tratti di una scelta, ma di una necessità che spesso si rivela complicata da mettere in atto e da far convivere col resto. In questa ricerca, i personaggi rimpiazzano, per un certo tempo, le persone in carne e ossa; si mettono a popolare quella solitudine in modo imprevisto, possono rivelarsi ingombranti, reclamare per sé dedizione, tempo, cura, energia. Tutte le volte in cui, da lettrice, mi sono imbattuta in personaggi capaci di stamparsi nel mio immaginario in modo potente, mi sono sempre chiesta come vivesse questo rapporto l’autore e soprattutto se una distanza dal suo personaggio potesse veramente esistere o se, per forza di cose, uno dei due fosse destinato a prendere il sopravvento sull’altro. I piani narrativi che si sovrappongono e si confondono in Primo piano interno tre, le presenze che lo abitano, la cornice surreale in cui il romanzo si muove, l’utilizzo della scrittura percettiva, il richiamo a pareti mobili e alla “quarta parete” in particolare, sono tutti espedienti che mi hanno aiutata a tenere più teso possibile il filo su cui danzano, in un fragilissimo equilibrio, realtà e finzione.
I personaggi. Livio è il tuo protagonista, ma assieme a lui ci sono il compagno di eternità Rufini e il fratello Sandro, più due figure femminili che non svelo. A mio parere le dinamiche tra i tre uomini sono l’altro punto di forza del tuo romanzo. Livio strafottente, irrisolto, a volte tanto romanzesco, innamorato dell’Arturo Bandini di John Fante; Rufini il vicino altrettanto burbero, ma agli antipodi rispetto a Livio, che però si ammorbidisce col tempo; e, infine, Sandro, il fratello di Livio, colui che fa della cura per l’altro la sua personale missione. Qual è la sfida nella scrittura di un personaggio credibile soprattutto in un esordio?
La sfida, nel mio caso, è stata quella di entrare in empatia con il protagonista spogliandolo di tutte le caratteristiche che sarebbero state rassicuranti per me e ponendolo, storto e compromesso, al centro della narrazione. Livio è, già dall’incipit, uno sconfitto, uno che non ce l’ha fatta a essere felice, che non ci ha messo abbastanza coraggio. Il fatto che, da morto, abbia avuto successo come scrittore, non cambia né migliora nulla di ciò che è stato ed è stata la sua esistenza. La scelta di un protagonista maschile e di due presenze, anch’esse maschili, che gli fanno “da spalla”, è scaturita dal desiderio di esplorare una comunicazione emotiva diversa dalla mia, ma che, paradossalmente, si accorda al mio stile di scrittura essenziale e asciutto. Livio, Rufini e Sandro li osservo ogni giorno, mi capita di incontrarli, mi incuriosiscono, ne invidio la capacità di esprimersi con strumenti diversi dalle parole. Primo piano interno tre è fatto di dialoghi, ma è anche denso di silenzi, gesti apparentemente trascurabili, sguardi accennati. È proprio su questi che desideravo si posasse la mia attenzione e sono sempre questi che volevo che il lettore riempisse da solo, o anche lasciasse vuoti, senza ammiccamenti da parte mia.
Che io abbia esordito con un protagonista che ha collezionato più di un fallimento, non è un caso. Le crepe, le ombre e i vuoti nutrono la mia curiosità e si trasformano in immagini vivide da manipolare. In più, ciò che volevo scardinare, era una narrazione in cui i colpi vengono assestati gradualmente e con intensità progressiva. Ho scelto, invece, di giocare in modo più audace e ravvicinato con il personaggio e con il lettore. Mi sono presa il rischio di una strada inconsueta, o almeno poco battuta, e credo che questo abbia permesso a Livio di esistere nelle tre dimensioni che nel racconto gli erano mancate. L’ho messo in una posizione scomoda fin dalla prima pagina, in questa “condizione” apparentemente definitiva che è la morte. E mi è parso che la sua credibilità dovesse necessariamente reggersi, oltre che su una precisa caratterizzazione della sua personalità, anche sul ribaltamento di ogni altro elemento narrativo.