Tre domande a Marta Lamalfa

In una Alicudi dei primi del Novecento, c’è una famiglia tra le più povere dell’isola che va avanti come può coltivando la terra e andando per mare. La fame costante viene arginata col pane di segale, unico cereale a resistere alla carestia, ma che mostra protuberanze nere mai viste prima. Tutti ad Alicudi le chiamano tizzonare e decenni dopo si è scoperta la loro natura: funghi parassiti, il claviceps purpurea, dagli effetti velenosi e psichedelici. Marta Lamalfa, autrice all’esordio con “L’isola dove volano le femmine”, edito da Neri Pozza, scrive di questa famiglia simbolo dell’epoca negli anni “avvelenati” di Alicudi, di cui fioccano le leggende. Le majare innanzitutto, donne streghe capaci di trasformarsi in corvi o gatti, di fare incantesimi e infestare la vita altrui con il malocchio, e, quando ne hanno voglia, persino volare tra le nuvole fino all’isola più grande, la Sicilia. Loro, così come molti altri misteri dell’isola di Alicudi, probabilmente furono conseguenza diretta dell’intossicazione collettiva durata dal 1902 al 1905, o forse – è questo il dubbio che con sapienza narrativa insinua “L’isola dove volano le femmine” –  sono il lato nascosto che l’isola mostra solo a chi vuole.

La leggenda delle majare e gli effetti allucinogeni della segale sono i perni che sostengono l’intero romanzo, ma la scrittura di Lamalfa non si ferma allo stereotipo della saga familiare in un Sud magico e misterioso, e segue con accuratezza la vita dei singoli componenti della famiglia protagonista. A spiccare nella terra assolata di Alicudi sono Caterina, giovane donna in formazione divisa tra le aspettative dei familiari e il fascino per le majare, Nardino, suo fratello più piccolo, che troverà un destino diverso da quello prospettato, e Onofrio, il padre, lavoratore agricolo, che si permette di sognare la rivoluzione contro i padroni.

Lamalfa si muove in questa storia antica che è fatta, più che di eventi, di suggestioni e linguaggio; quest’ultimo, in particolare, il dettaglio più di pregio perché la lingua della voce narrante e dei personaggi si fonde col tempo, arcaico e lontano, ma non smette mai di comunicare con lettrici e lettori moderni.

Marta Lamalfa, foto di Migliorato

L’intervista

Il contesto storico. Per il tuo romanzo hai scelto di raccontare una storia antica che però porta con sé un forte valore metaforico. Come è nata la decisione di scrivere di Alicudi e come si è sviluppata la ricerca storica per documentarti? Il valore metaforico, invece, delle majare, simbolo della libertà e autodeterminazione femminile, è cresciuto man mano che scrivevi o è sempre stato tra i tuoi obiettivi di narratrice?

Appena mi sono imbattuta nelle teorie di Paolo Lorenzi sulla presenza della segale cornuta ad Alicudi e sulle conseguenti allucinazioni dovute al fungo parassita che aveva contaminato la segale, ho subito pensato che questa storia avesse la potenzialità di unire due aspetti che cercavo da tempo di conciliare: le difficoltà quotidiane delle persone più vulnerabili – al tempo, infatti, l’isola di Alicudi veniva definita in consiglio comunale come “perfettamente dimenticata” – insieme alla narrativa del “fantastico” come chiave di lettura del mondo. Un romanzo storico che ne perde i connotati e diventa insieme magico. Un romanzo di battaglie sociali e di streghe volanti, in cui i limiti fra la realtà e l’immaginazione sono impalpabili.

Tutto questo, avveniva su delle isole che, in quanto nata sullo Stretto di Messina, rappresentavano il panorama del mondo che mi ha formata.

Da quel momento, ho cominciato a studiare, per capire come fosse la vita ad Alicudi in quegli anni, quali fossero le relazioni interne ed esterne all’isola, come vivesse la popolazione. Per esempio, mi sarei aspettata una popolazione dedita alla pesca, invece la maggior parte degli abitanti di Alicudi viveva di campagna ed era refrattaria al mare.

In questa fase di studio è stato preziosissimo l’Archivio Storico Eoliano, che ha ricostruito la storia di queste isole; mentre per l’immaginario mi sono servita in particolare dei disegni di Luigi Salvatore D’Asburgo-Lorena, principe di Toscana e arciduca d’Austria, che ha visitato le Eolie a fine Ottocento e le ha riportate su carta.

Rimaneva da approfondire la figura delle majare: mi è venuto in soccorso il lavoro di Macrina Marilena Maffei, un’antropologa e fiabologa che ha raccolto la narrazione orale delle isole Eolie, in particolare nel suo La danza delle streghe. Leggendo quanto gli eoliani raccontavano su queste figure, mi è stato immediatamente chiaro che le majare rappresentavano qualcosa di più che una mera leggenda: queste streghe possono volare e tornare sull’isola cariche di cibo, vanno in giro nude, ballano e si divertono nel buio della notte. Rappresentano, insomma, tutto ciò che le donne di Alicudi e delle altre isole non potevano fare, non potevano essere.

Dopo aver letto questi cunti, racconti orali, ho capito quale sarebbe stato il tema centrale attorno a cui far ruotare il romanzo.

Il lavoro di scrittura. Come si è sviluppato il lavoro di scrittura del romanzo? Da che spunto o suggestione è partita la costruzione dei personaggi? Ti ricordi qual è stata la prima scena scritta? E a proposito del linguaggio che utilizzi: trovo che sia più di una semplice contestualizzazione storica e che faccia parte dell’identità del tuo romanzo rendendolo unico e riconoscibile. Come hai lavorato alla costruzione di questa lingua?

La lingua è arrivata prima dei personaggi, prima della storia. Sono sempre stata convinta che lo stile dell’autore sia essenziale, ma questo deve prima di tutto rispettare, e rispecchiare, il mondo che si sta narrando. Desideravo che il mio romanzo avesse la forma di un cunto, l’ho immaginato come un racconto orale che si è tramandato negli anni e che alla fine è stato trascritto. Volevo che, a una storia così ombrosa, si contrapponesse una voce leggera, fiabesca. Quella voce doveva essere musicale, e mentre scrivevo pensavo che accanto a me ci fosse una comare di paese a dettarmela. Ho cercato di riportare su carta le anomalie del linguaggio parlato, le frasi senza linearità, lavorandole fino a trovarne un ritmo.

Quando mi sembrava di aver perso quella voce, per recuperarla leggevo qualche cunto trascritto da Giuseppe Pitrè. E più andavo avanti nella stesura, più questa narratrice diventava fantasiosa. Alla fine, sono dovuta tornare sulle prime pagine perché intanto la sua voce era diventata sempre più solida, sempre più viva.

Il primo personaggio a cui ho pensato è stata Caterina, la mia protagonista. Ho immaginato una ragazza che viveva dal lato opposto rispetto al “mio” mare, che non aveva conosciuto altro che quell’isoletta di appena cinque chilometri e che guardava verso di me e immaginava tutte le storie che sarebbero potute succedere al di là dei suoi confini. Attorno a lei, si è sviluppato il resto della famiglia degli Iatti.

Poi, con questa idea e qualche pagina abbozzata, mi sono candidata al Laboratorio annuale della Bottega di Narrazione, scuola di scrittura creativa diretta da Giulio Mozzi e Giorgia Tribuiani. In Bottega, uno dei primi insegnamenti che mi hanno regalato, e che porterò per sempre con me, è stato: “non scrivere”. Quel “non scrivere” significava che, prima di iniziare, avrei dovuto riflettere, documentarmi, strutturare le scene, definire i capitoli, capire la storia dei miei personaggi e come si sarebbe sviluppata.

La prima scena che ho scritto non esiste più all’interno del romanzo: i miei insegnanti, Simone Salomoni e Fiammetta Palpati, quando hanno letto le prime pagine, mi hanno suggerito che quel nucleo narrativo aveva la potenzialità di diventare la fine della mia storia, non l’inizio. E così è stato.

Foto Alessia Ragno

Il Sud. È una scelta coraggiosa e non semplice quella di esordire con un romanzo su un Sud così lontano nel tempo e dargli uno spessore che va oltre le dinamiche familiari. Ne “L’isola delle femmine” c’è, come si diceva prima, uno sguardo sulla condizione delle donne, ma ci sono anche storie sul lavoro e sogni di rivoluzione, elementi che, di fatto, ritroviamo anche nel Meridione contemporaneo. Secondo te la narrativa italiana attuale sta rendendo finalmente giustizia al racconto del Meridione o c’è ancora qualcosa che sfugge?

Credo che il Meridione sia stato molto esplorato in letteratura, talvolta abusato. La sfida è proprio non cadere nei soliti stereotipi e cercare di dare alla narrazione del Meridione un respiro più universale, senza ghettizzarla. Trovo che ci sia un bel movimento di voci ai giorni nostri, tra l’altro non solo letterarie, che stanno dando a queste terre la dignità che meritano.

Il mio romanzo è ambientato ad Alicudi semplicemente perché lo spunto da cui è partita la storia è successo lì, e perché sono territori a me familiari. Ma volevo parlare di libertà, di relazioni di potere, di povertà, e questi temi sono universali. Mi auguro che in futuro si possa smettere di parlare di scrittori meridionali e di letteratura meridionale. Limitarla in questi termini, significa relegarla ad altro rispetto alla letteratura italiana, quasi a una sottocategoria, a un genere.

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