Tre domande a Marianna Crasto

Nell’incipit de “Il senso della fine”, Effequ, esordio nel romanzo di Marianna Crasto, c’è un pavimento impolverato e una protagonista, nonché voce narrante, che trova finalmente cinque minuti per pensare alla fine del mondo. È stata annunciata in un 29 febbraio che sembrava qualsiasi, a darne notizia un giornalista televisivo «rigido e disinteressato».

Appesa alle sue frasi, pensai sei il nostro Tito Stagno con questa notizia anche più grande della Luna. Ed ecco quando ho iniziato ad amarlo: quando gli diedi un nome. Fu come se averglielo dato e amarlo fossero causa ed effetto o addirittura la stessa cosa.

C’è una relazione tra questa strana protagonista silenziosa e rimuginante e il Tito Stagno della sua epoca, che appare costi quel che costi, con cravatte selezionate con cura e uno sguardo che, man mano che si prosegue in quell’ultimo anno della Terra, si stanca e si spegne. Inizia, così, con una corrispondenza di pensieri ed emozioni con Tito Stagno e il pavimento, la vicenda della protagonista, una dipendente del centro commerciale Magna Grecia nell’hinterland napoletano, colta alla sprovvista dalla notizia, ma chi mai sarebbe stata preparata. Al suo fianco viene e va il ragazzo di DolceKasa, impiegato anche lui nel centro commerciale, che cerca di avvicinarla e conquistare gli ultimi scampoli di vita normale nell’amore timido che prova per lei.

«Non voglio avere paura di guardare la tv, la sera. Allora magari vieni da me e ci guardiamo un film, no? E se succede qualcosa almeno siamo insieme e se invece succede quando non siamo insieme nel frattempo avremo addomesticato la reazione, non credi?»

È il ragazzo a parlarle in un momento di vicinanza, ma lei indietreggia, annichilita e determinata a perdersi nel suo rimuginare protettivo; lui, invece, appare più solido e morbido, caratteristiche che conserverà quasi fino alla fine.

«C’era stato il prima e c’era il dopo e non appartenevano nemmeno alla stessa sfera dell’esperienza» pensa lei, e intanto conserva sprazzi illogici della vita prima del 29 febbraio tenendo il tempo su “If you wanna be happy” cantata da Jimmy Soul nel finale di Sirene, con in testa le immagini di Cher, Winona Ryder e una piccolissima Christina Ricci che apparecchiano la tavola ballando. La definisce «una melodia da stupida filastrocca impressa per sempre nei filamenti neuronali», che strano effetto che fa il trauma.

In questa “apocalisse a bassa intensità”, come definita dalle presentazioni del Premio Calvino di cui “Il senso della fine” è stato finalista nella XXXV edizione, la rovina collettiva è lenta ma inesorabile e ci si ritrova, come lettrici e lettori, a chiedere se è più importante l’amore della fine del mondo e se, paradossalmente, non sia più cruciale per la protagonista lasciarsi andare con l’amato di DolceKasa per vivere un futuro breve ma condiviso. In fondo è lui a mostrare i segni embrionali di una strana forma di conforto tra rivolte, città sommerse, morti simboliche raccontate minuto per minuto dall’invadenza della televisione, scenari apocalittici dietro casa o nel Centro Direzionale di Napoli. «Vivono tutti, solo tu hai voluto smettere» le dice, e l’ironia di questo rimprovero è nodale, così come è nodale il suo desiderio di stare insieme a lei quando tutto intorno ribolle e svanisce.

Se non bastasse l’idea singolare e brillante alla base di questo romanzo, c’è sempre la scrittura ad aggiungere ulteriore spessore: Crasto ritrae luoghi visti di persona oppure nelle videotelefonate con i genitori della protagonista, in Google Maps, l’altro feticcio della protagonista, e con la stessa capacità evocativa ritrae luoghi, persone, i loro comportamenti, le piccolezze e le ossessioni in tempi di stress post traumatico. Si occupa così, amorevolmente, delle anime che popolano questa storia schiacciate dal peso del nulla che incombe. E nell’apocalisse generale brillano gli accostamenti di parole e comportamenti bizzarri tutto sommato ben accolti da chi legge perché sono comprensibili in tempi così amari. Crasto scrive: «mi sorride morbido con tutte le parti della faccia», oppure di «mani ferme e garbate», o «In mezzo al petto mi si è accomodata un’angoscia da corteo funebre, non se ne va con un sospiro profondo, non se ne va con un sorso d’acqua fresca, non è nello stomaco, non è nei polmoni», o, ancora, «La bocca si arrotonda e si tende in movimenti scuciti dal senso». Solo alcuni esempi di una scrittura che abbellisce un finale inesorabile che arriva mentre ci si impegna a soffermarsi sulle singole frasi e sugli accostamenti di parole per scovare ogni singola implicazione e i suoi significati.

Il romanzo si divide in quattro parti, in ognuna l’incipit si ripete e cambia punto di vista, tantissimi sono i rimandi e le ripetizioni che collegano ogni frase. Ma il senso della fine emerge solo quando è Tito Stagno a crollare, lui che è feticcio, divinità, oracolo e scopo, ma che poi lascia il suo posto da centro delle giornate agli ultimi scampoli di vita. “Il senso della fine” è un romanzo futuristico, apocalittico e contemporaneo insieme, nella sua vicenda ci si specchia e ci si terrorizza, per poi tirare un sospiro di sollievo mai completo, ma accompagnato da un mezzo eppure rinfrancante sorriso nel finale. Che magia straordinaria.

Foto di Alessia Ragno

L’intervista

La fine del mondo. Non credo ci sia giorno in cui non ci pensi o non mi venga ricordato dalla tv, dagli articoli, da utenti qualsiasi nei social network. Eppure questo evento di portata incommensurabile non è il centro del romanzo. Il fulcro risiede, piuttosto, nella storia d’amore e il processo con cui la tua protagonista si arrende al contatto, elabora le resistenze e crea una propria dimensione anche quando tutto intorno sta crollando. Ho avuto la sensazione che man mano che si avvicinasse la fine, la narrazione di questo amore e dei pensieri di lei si facesse più rarefatta, quasi concettuale, fino a che ho visto una tenue, combattuta, ma inesorabile speranza. Mi chiedevo se fosse stato per te un seme di speranza intenzionale o se in qualche modo si è fatta strada da sola nel tuo universo narrativo. Insomma la vicinanza tra questi due protagonisti è più importante della fine del mondo?

Se dovessi ordinare per grandezza le cose che succedono nel romanzo, la fine del mondo sarebbe la più grossa, ma certamente non sarebbe la più importante.
Dopo qualche inciampo nelle prime fasi di scrittura, ho capito che stavo raccontando la storia di un rapporto tra due persone, e che la fine del mondo era qualcosa di assodato, paradossalmente un evento da cui partire. L’annuncio al telegiornale è un momento decisivo non tanto per l’umanità nel complesso – ormai per quello è troppo tardi – ma per la vita del singolo e per le scelte anche più piccole che dovrà fare: lavorare o no? Godersela fino alla fine o disperarsi? Comprare una pianta e prendersene cura, nonostante non se ne vedrà mai la fioritura? Dire qualcosa che non è stato detto o continuare a tacere? Fino alla domanda più importante, amarsi o no?
Non credo ci siano risposte giuste e risposte sbagliate per nessuna di queste domande e, in fin dei conti, i personaggi non fanno che sbagliare, ricredersi e tornare sui propri passi, raccontarsi bugie. Vale tutto purché funzioni, finché riesci a salvarti e andare avanti in un mondo a prospettive zero.

La speranza di cui parli non era qualcosa che volevo dimostrare a priori, anzi: me la sono ritrovata davanti come conseguenza quasi naturale dell’evoluzione dei personaggi ed è, in ultima analisi, il senso di questa fine: esiste, anche in condizioni estreme, un piccolo spazio personale all’interno del quale è possibile muoversi – verso l’altro ma anche verso sé stessi, con compassione – e fare qualcosa di buono.

L’ambientazione. Nel romanzo c’è una vera e propria fenomenologia del centro commerciale che si manifesta nelle descrizioni, nel rimuginare della protagonista e nelle reazioni della gente alla fine del mondo che avvengono anche nel Magna Grecia. Tutto sta morendo eppure la voce narrante dipende ancora dal pensiero del suo luogo di lavoro e dice: «appartengo sempre al Magna Grecia, sono una sua proprietà, schedata, profilata, raccolta nei computer, raccontata nei faldoni. Soltanto, ho al collo uno di quei guinzagli che si allungano. Non sono veramente libera, ma tutt’al più lontana.» Perché ambientare un romanzo apocalittico in un asfissiante, e talvolta illogico, centro commerciale della provincia?

Da un punto di vista molto pratico, il centro commerciale mi permetteva di inscenare sia reazioni estreme sia reazioni e azioni minime, quotidiane. Questa forbice di possibilità era estremamente utile per il tipo di storia che volevo raccontare, perché volevo che le dinamiche emotive dei personaggi risuonassero con gli spazi della storia. La protagonista tenta fino allo stremo di anestetizzarsi e non provare niente, di creare una zona neutra dell’esistenza, capace di ammortizzare gli effetti distruttivi di quello che succede fuori e dentro di lei. Di conseguenza il centro commerciale mi è sembrato il posto giusto: si cammina distrattamente, si lavora senza particolare coinvolgimento, i gesti sono automatici ed eseguiti sovrappensiero. Inoltre, visto un centro commerciale li hai visti tutti, quindi non c’è specificità negli stimoli che ricevi. Si tratta di un posto che, con la giusta predisposizione, può non toccarti minimamente, lasciarti indifferente.
In maniera speculare il centro commerciale è anche ricchissimo di stimoli: compri, spendi e desideri, un paradiso all’interno del sistema capitalistico. Un rovescio della medaglia che mi ha consentito di trovare le corrispondenze che cercavo con la folla indistinta e con il ragazzo di DolceKasa, con l’apertura e la curiosità che per buona parte del romanzo lo caratterizzano in maniera abbastanza netta.

Anche quando la storia si muove fuori dal centro commerciale in varie zone di Napoli o a Roma o dall’altro capo del mondo o negli appartamenti dei vari personaggi, ho cercato sempre di far dialogare i luoghi con i caratteri e con le relazioni che andavo intrecciando. Ci tenevo che i vari elementi si corrispondessero o richiamassero per contrasto, così da restituire un universo compatto, che desse il senso di un movimento anche disordinato, ma comunque organico.

Foto di Alessia Ragno

L’idea e lo stile. Per chiudere una domanda a bruciapelo che, ne sono consapevole, risulterà altisonante. Il tuo è un esordio nel romanzo, ma non sei nuova alle dinamiche della narrativa. Quando hai capito che da questa storia sarebbe nato un romanzo, ovvero quando è nato il seme della vicenda e come è iniziata la sua costruzione e i ragionamenti sul tono che gli avresti dato?

Le storie che ho scritto sono nate sempre da una piccola ossessione. Di solito è una frase o un insieme di parole che mi suona bene o mi emoziona. Si insinua nella mia attenzione e continua a stuzzicarmi finché non ne ho abbastanza e sono costretta a farne qualcosa. Anche in questo caso è successo così e la frase che premeva per farsi spazio è stata quel “Non appena ebbi cinque minuti per pensare alla fine del mondo…” che poi è diventata l’incipit del romanzo. È successo parecchi anni fa e in quella fase molto iniziale ho cominciato a imbastire la vicenda su presupposti molto diversi. Partivo da una certa attrazione per le narrazioni della fine e dalla mia personale ansia climatica, quindi pensavo che avrei scritto il racconto di una fine del mondo incentrata perlopiù sugli elementi esterni, sui disastri naturali, sul panico sociale, sui disordini nelle città. Nel capitolo 9 racconto quelli che chiamo i “disordini del tè” e quelle scene di panico erano già presenti nella primissima versione della storia, esattamente nella forma che si può leggere adesso, perché la voglia di raccontare partiva proprio da lì, dagli eventi macroscopici. Però qualcosa non mi tornava e quell’immaginario si è esaurito presto. Quanti disastri avrei potuto raccontare? Non bastavano per fare una storia. I due protagonisti esistevano già ma non avevano né la voce che hanno poi avuto, né il loro punto di vista, né la relazione che gli ho costruito intorno, così ho messo via il file e me lo sono dimenticato.

L’ho ripreso in mano moltissimo tempo dopo, avendo realizzato che l’aspetto più interessante da approfondire doveva essere quello intimo, delle vite travolte dagli eventi. Paradossalmente il fatto che fulcro della storia sia il rapporto tra i due protagonisti è maturato in un secondo momento, solo dopo essermi trovata in un vicolo cieco.

Così ho messo da parte la crisi climatica e globale – ci sarei tornata in un secondo momento – per dedicarmi a questi due commessi. Le personalità di entrambi sono emerse quasi subito, con le differenze di approccio alla situazione specifica e alla vita in generale. Ho ragionato a lungo sul movimento del loro rapporto, sull’altalena del loro allontanarsi e avvicinarsi e nelle fasi finali ho disegnato persino schemi in modo che mi fosse chiaro quanto vicini o lontani fossero nei vari momenti della storia. Era un aspetto a cui tenevo moltissimo perché questo movimento è il nodo che tiene insieme tutto.

Poi ogni storia si prende lo spazio che le serve: non sapevo se ne sarebbe uscito fuori un romanzo fino a che non ho messo l’ultimo punto. Solo alla fine mi sono guardata indietro e l’ho riconosciuto per quello che era.

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