Appena scesi dal furgone che li ha accompagnati nel tour di Technicolor Dreams (sei anni dopo), gli A Toys Orchestra ripartono a distanza di tre anni da Midnight (R)Evolution per un nuovo viaggio che li vede fare subito tappa a Berlino nel Vox-Ton Recording Studio di Niels Zuiderhoek e di Francesco Donadello, ex batterista e live electronics dei Giardini di Mirò. In questo luogo, connubio esemplare tra analogico e digitale, dove artisti del calibro di Agnes Obel e Moderat (giusto per citarne due) hanno visto nascere sotto i propri occhi le loro creature musicali, il quintetto di Agropoli ha incontrato Jeremy Glover, già produttore di Liars, Devastations e dei fu Crystal Castle, e si è lasciato guidare nella realizzazione del loro sesto album, Butterfly Effect.
Può uno sfarfallio cambiare le sorti del mondo? Cosa sarebbe successo se tal giorno di tre anni fa fossimo riusciti a prendere la coincidenza di quel treno? Quante volte ce lo siamo chiesti. Probabilmente nella maggior parte dei casi il nostro destino non avrebbe subito variazione alcuna, ma la letteratura e la filmografia internazionale continuano imperterrite a stuzzicarci la fantasia con interrogativi a cui non potremo mai dare una risposta, sortendo l’effetto opposto ed alimentando un’assillante curiosità. Perciò, in mezzo al caos primigenio di un mondo che nessuno ha visto nascere, tanto vale ancora immaginare i futuri possibili.
Neppure gli A Toys Orchestra sono rimasti immuni di fronte all’attrattiva del gioco e dopo essersi avventurati lungo la via della sperimentazione hanno trovato un linguaggio nuovo, più semplice ed immediato rispetto ai precedenti album. Lontani anni luce dalle armonie lo-fi di Cuckoo Booho o al più impegnato Midnight (R)Evolution, gli influssi teutonici caratterizzano l’impalcatura sonora del disco, aprendo inattesi varchi di luce. A testimoniarlo sono le ritmiche sempre più variegate incentrate ancora sulle venature pop e rock, ma arricchite da riverberi new wave e da un sapiente uso dei sintetizzatori (non più solo vintage). Se alcuni pezzi ad un primo ascolto sembrano semplicemente rispondere ad una stretta esigenza di mercato che per inciso tende a fissare canoni sempre più orientati verso il mondo dell’elettronica, al secondo ascolto basta farsi condurre per mano dalla formazione campana nel mare tropicale dei suoni policromi di Butterfly Effect.
Dalle morbide ed ammiccanti texture di Made To Grow Old si passa per la limpida e ripetitiva cantilena di Fall To Restart, fino ad arrivare agli stilemi anni Ottanta di Always I’m Wrong, primo singolo estratto dalla raccolta, che si presenta con un video-biglietto da visita espressivo e divertente. I toni si fanno più densi e lugubri poi con la decadente My Heroes Are All Dead, smorzati solo dall’interludio sincopato di Mirrorball. Nonostante tra le undici tracce non si nascondano pezzi in sordina, è bene mettere in luce quali siano le prove più intense e vivide di Butterfly Effect: sicuramente prime fra tutte c’è Wake Me Up che ci riporta direttamente all’ormai lontano 2007, a Technicolor Dreams e al suo fiabesco castello incantato. Wake Me Up ha la stessa travolgente forza emotiva, ha il potere dei ricordi, delle risate e dei pianti a dirotto, mentre l’autunno incombe sull’estate e le panchine d’ottobre rimangono sempre le stesse, stinte e lucide di pioggia, spruzzate di rosso, giallo ed arancione come allora.
C’è coraggio in questa prova degli A Toys Orchestra, c’è innovazione sonora, ma anche un passato che non era mai stato raccontato, canzoni liquide e struggenti come Take My Place, che mettono in scena la duplice personalità dell’uomo, fatta di continui contrasti, di cadute e di risalite e di ritmi incessanti ed onirici come quelli di Come On Get Out o i bassi pesanti di Mary. Più che semplice solletico, Butterfly Effect è il tocco di un’arpista su una successione di note in scala, un brivido acustico e insieme sintetico come in All Around The World o l’incedere lento e sospirato di Quiver quando la condensa del respiro in inverno si fa opaca. La bellezza di questo disco è che non c’è nessun dresscode da rispettare, una canzone non è mai uguale ad un’altra, né al proprio interno; non c’è noia, né artificio retorico o estetico, l’unico elemento che pervade l’album è una nuova ed ostentata libertà di scrittura.