Una delle band inglesi più hyped del 2012, la formazione londinese dei Toy, ritorna a poco più di un anno dall’esordio self-titled, che gli valse una notevole esposizione globale e un piccolo posto nell’olimpo personale dei music lovers più retromaniaci, appassionati di atmosfere oscure, stordite ed ipnotiche.
Propongono anche questa volta un rock psichedelico, con un credibilissimo carattere kraut e influenze molto chiare che vanno dal post punk 70s/80s allo psych-pop fine 60s e inizio 70s.
Componente caratteristica della formula è la voce distaccata che, abbinata a tappeti di synth e alle influenze psych/kraut, valse al quintetto londinese il paragone con gli Horrors. Rispetto a questi, i Toy difettano di un songwriting altrettanto efficace e del passo in più garantito dalla voce di Faris Badwan, in parte simile nello stile a quella del giovane Tom Dougall, ma dotata di una più distinta drammaticità. In compenso i Toy hanno una componente più caotica, che manca ai più ordinati colleghi connazionali, nelle lunghe jam strumentali, rette da geometrie ritmiche metronomiche (con rapidità più distintamente motorik nel primo disco), ma vestite da avventurosi muri di feedback e stordenti tessiture di effettistica.
La strumentale d’apertura Conductor è davvero potente e testimonia un non drastico, ma apprezzabilissimo ampliamento stilistico. La seconda You Won’t Be The Same cambia tono con una solarità tutta jangle-pop e armonie molto convincenti. Non altrettanto solida la successiva As We Turn.
La title track è di certo uno degli episodi più ispirati, con un gran riff di basso, un tappeto d’organi e sette minuti con tanto di squarcio per l’iperspazio nel mezzo, prima di ricomporsi per il finale. Si susseguono un paio di episodi più sedati, fino all’accelerazione post-punk di It’s Been so Long (a voler essere superflui, l’hook vocale punta dritto agli Strokes).
Si ritorna ad uno psych-pop più floreale e pulsante con l’ottima Left To Wander, ma il finale del disco manca d’impressionare, malgrado dilatazioni e artifici sonici d’ordinanza, nonostante le apprezzabili aperture melodiche di Frozen Atmosphere, con i nove minuti della conclusiva Fall Out Of Love, che lasciano soddisfatti, ma non tengono testa alla brillantezza di Kopter, finale pirotecnico dell’esordio.
Il prodotto dei Toy è solido, in molti episodi avvincente, non rimarca i percorsi dell’esordio tanto da essere superfluo, ma mantiene una significativa coerenza e identità stilistica. Le parti strumentali sono anche migliori, più audaci nel puntare verso territori più selvaggi, ma è la scrittura che sembra non fare passi avanti, impantanandosi anzi qualche volta in più, senza aggiungere molti agganci vocali particolarmente validi.
Ad ogni modo Join The Dots rimane divertente dal punto di vista sonico, con melodie per la maggior parte più che valide, almeno dalla prospettiva di chi è avvezzo alla classica delivery apatica, languida e a tratti a-emozionale, che d’altro canto si adatta perfettamente allo sfondo psichedelico, nebuloso e caleidoscopico che la band confeziona ad arte anche in questo secondo lavoro.
Heavenly Recordings, 2013