Chissà se Simon Reynolds, una volta coniato il termine post-rock, avrebbe mai pensato che un giorno, a distanza di qualche decennio, cinque professori di musica avrebbero tenuto una lezione sul genere a Torino, rientrando a pieno titolo in quel vasto calderone che ormai è diventato il neologismo di allora. Perché di questo si è trattato, al di là delle etichette precofenzionate: una lectio magistralis di un’ora e mezza svoltasi al CAP 10100 davanti ad un pubblico eterogeneo, incrocio di generazioni, ma unanime e compatto nel coinvolgimento entusiasta.
Il primo argomento trattato dai Tortoise, ancor prima di presentarsi al loro uditorio, è il palco stesso. La disposizione degli strumenti è a dir poco insolita, con due batterie che dominano la scena in prima fila, e ai lati vibrafoni e marimbe. Dietro, vicino alle tastiere quasi nascoste, prendono posizione Jeff Parker e Doug McCombs, imbracciando basso e chitarra. Il messaggio è semplice: la ritmica non è solo una parte importante nella struttura della musica della band di Chicago, ma è proprio l’impalcatura che sorregge le figure melodiche e le volte sonore dei loro pezzi strumentali.
Polistrumentismo è la seconda parola chiave. Durante il concerto è un continuo scambiarsi di posto, a volte addirittura durante lo stesso brano. Il tutto avviene con una precisione chirurgica e, nonostante sia evidente quanta accurata preparazione ci sia dietro tale sincronia – è mostruoso come i cinque non sbaglino un colpo – a tratti pare di assistere ad un’improvvisazione fatta da jazzisti del rock. Dan Bitney, John Herndon e John McEntire si alternano tra batterie e percussioni, in un perpetuo dialogo a suon di piatti e timpani, dando vita ad un’atmosfera viva e trascinante.
Mentre a brani tratti dal loro ultimo album The Catastrophist si alternano pezzi più vecchi, emerge con forza la vera essenza della lezione che i Tortoise sono venuti ad impartire, ossia la straordinaria capacità di fare una performance live. Ciascun membro della band non è un semplice ingranaggio di una macchina perfetta che procede senza sbavature, ma costituisce invece parte vitale di un unico organismo, una Tartaruga che coriacea e inesorabile si nutre dei suoni più disparati – spaziando da un funk sottile e penetrante ad improvvise folate elettroniche dei synth – e fa della lunga esperienza sui palchi un’arma in più.
Azzerato il dialogo “a voce”, se si escludono un paio di “grazie” finali, paradossalmente la comunicazione gestita esclusivamente attraverso gli strumenti crea un livello di partecipazione assoluta tra il pubblico, che ondeggia visibilmente rapito. Complice il clima letteralmente incandescente, data la temperatura infernale dentro il locale, i cinque sono madidi di sudore, a tratti boccheggiano, come d’altro canto chiunque all’interno della sala. Ma è una nota di realismo in più, una sorta di terza dimensione del live: oltre allo spazio e al tempo, vi è condivisione dello sforzo teso a creare un qualcosa di magico.
E quando, dopo due bis, le luci si accendono, poco importa interrogarsi ancora su quale sia realmente il genere cui ascrivere la musica dei Tortoise; rimane giusto la sensazione dello studentello fortunato che, trovatosi al cospetto di tali luminari della musica, porta a casa degli indimenticabili appunti.
Fotografie di Alessia Naccarato