Raccontare l’Italia in musica è complesso, anzitutto bisogna andare a spulciare bene di cosa stiamo parlando quando parliamo di musica in Italia, buttare via i talent show e i suoi derivati, correre il rischio di perdersi qualcosa per strada (dov’è finito Godblesscomputers?), e riuscire bene a trovare un compromesso tra mainstream e qualità. Difficile insomma riuscire a raccogliere le tendenze di un anno intero, soprattutto quando si ha a che fare con gli occulti mondi della democrazia e della matematica. Quest’anno la top si è colorata di tendenze più mistiche, con testa coda e sorpassi che in realtà sono stati emozionanti quanto una gara di Formula 1 in cui tutti restano nella stessa posizione dopo la partenza. I nomi usciti alla fine però raccontano e disegnano il panorama di questo 2015, così ridente e creativo eppure così ricco di contrasti. Buon ascolto!
15. Il Teatro degli Orrori – Il Teatro degli Orrori
Il Teatro degli Orrori quest’anno è tornato un po’ alle origini del vecchio sound, e la scelta di inserire l’ultimo lavoro nella collezione dei dischi dell’anno probabilmente farà infuriare qualcuno, per altri apparirà invece un atto dovuto alla storia di una band che riesce sempre e comunque a trovare il suo sound. Il suono di cui parliamo sembra avere definitivamente abbandonato le strette di mano con compromesso e mercato, privilegiando una libertà espressiva che sembrava essersi, almeno in parte, ridotta. Capovilla prosegue nel suo percorso stilistico e letterario, come già Obtorto Collo del 2014 aveva sottolineato, facendosi più radicale e arrabbiato, come se i riferimenti da cui proviene inizino a farsi ingombranti, quasi ne fosse imprigionato. Due narrazioni diverse che rischiano di non ricongiungersi mai e lasciare il vuoto dietro di sé.
Questa band tutta italiana con 2/3 di donne e l’attitudine slacker esordisce nel panorama italiano del 2015 riportando al centro della scena le chitarre scanzonate. La voce di Adele Nigro (ex Lovecats) si distingue perché non è una delle solite voci italiane che prova a cantare in inglese, ma ci riesce, tanto che sembra quasi strano piazzare gli Any Other nella top degli italiani. Un tuffo negli anni Novanta di disperato bisogno per la musica italiana, in cui pezzi come Something e Teenage graffiano, a metà tra uno spirito lo-fi ed echi del Billy Corgan in forma. Non sarà la band più originale nel panorama internazionale, ma lo diventa se contestualizzata a una scena italiana ormai ancorata e divisa tra il cantautorato scanzonato e le sperimentazioni elettroniche. Onore agli Any Other.
13. Carmen Consoli – L’abitudine di tornare
L’abitudine di tornare è un disco che bada poco alle sperimentazioni musicali, che mette da parte la ricerca armonica raggiunta con il precedente lavoro, ma ci regala quei saliscendi vocali che tanto ci mancavano, quell’universo di “ridenti” che ci fa sempre sentire un po’ a casa. É un album che racconta il tradimento, l’amore, il delitto, l’omosessualità e la miseria con la semplicità e la schiettezza che sono proprie solo dei grandi cantautori. Non sarà il disco più bello di Carmen, ma è sicuramente una lezione di stile per il pop italiano, la dimostrazione che il nazional popolare può essere fatto a livelli alti, senza paraculismi e soprattutto mantenendo sempre un proprio stile inconfondibile.
E qui entriamo nel vivo di una domanda, è concesso inserire anche gli EP in una classifica di fine stagione? La risposta è sì, perché nessuno ha mai dettato un regolamento dall’alto e non esiste un Mosé divulgativo dei best of. Le sei tracce di Mr. Newman degli Scisma sono un condensato di passato e presente e un ritorno dentro un immaginario che pensavamo essere svanito per sempre. Gli anni hanno reso quello che era sperimentazione una realtà consolidata, l’esperienza subentra definitivamente alla giovinezza, Musica Elementare aTungsteno, Golf a Neve e resina. Tutto quadra, nulla sembra essere mai accaduto. È l’apertura vocale e spensierata di Darling, Darling, o il tempo per una ballata via telefono di Stelle, stelle, stelle a darcene un ricordo, di come poteva essere raccontare gli anni ’90. Mr. Newman è un bellissimo ricordo, un fragilissimo e preziosissimo film da conservare, per chi sa tenerlo con sé.
Pare che a parte della redazione i Calibro 35 piacciano davvero un sacco, alcuni ne sono letteralmente conquistati, prova ne sia che questo S.P.A.C.E. raggiunge un posto d’onore in questa top 15 di fine anno, anche se c’è chi li avrebbe graditi ancora più in alto. I Calibro 35 quando suonano si divertono e divertono anche gli altri, e questo traspare nei sudati pezzi che ci regalano anche a questo giro. Questo disco è un’odissea nello spazio, colonna sonora ideale per i vostri viaggi oltre-pianeta, che raramente riuscirete a fare se non con una violenta scarica di fantasia. I banditi su Marte Gabrielli, Martellotta, Cavina, Rondanini e Colliva, hanno registrato l’ultimo lavoro a Londra: il viaggio parte da lì, il resto è un invito a perdersi.
La ragazza che regala tormentoni musicali quest’anno ce la ritroviamo in top ten. Negli ultimi tempi Claudia Lagona ha fatto irruzione nel mondo pop italiano pur essendo prodotta da un’etichetta indipendente, la torinese INRI (Istinti Non Ritenuti Idonei). Abbi cura di te è il disco che consacra la cantautrice pop Levante all’attenzione popolare, con 12 tracce che hanno provato un compromesso storico con il mainstream. Supportata da qualcuno ”perché figa”, contestata da altri perché ”e poi mi venite a criticare Calcutta”, quest’anno la classifica italiana è la più sincera e matematica possibile: niente trucchi, niente inganni, tutto calcolo matematico. Ma qui il dibattito si è molto acceso.
Adriano Viterbini con questo Film O Sound ci ha mostrato ancora una volta il suo talento da chitarrista solista e ricercatore di suoni, avvalendosi di collaborazioni importanti come Bombino, Alberto Ferrari dei Verdena, Enzo Pietropaoli, Fabio Rondanini dei Calibro 35. Abbiamo voluto premiare questo lavoro che spazia dalla vecchia tradizione folk e blues alla psichedelia e alla world music, suonata da una delle migliori chitarre nel paese. Disco complicato, in cui Viterbini si mette alla prova della composizione creativa con naturali echi di tante vecchie e belle cose.
Go Dugong è il solo-project di Giulio Fonseca, che quest’anno ci ha trascinato coi suoi bei beat, e questo primo LP che ha mischiato le carte in tavola, A Love Explosion. Un’ispirazione che viene dai grandi compositori italiani degli anni 60/70, e che con amarezza e disincanto ci ha trascinato verso un mondo favoloso popolato di esplosioni e lunghi viaggi onirici. Ci è sembrato giusto premiare l’esplosione d’amore declinata in stile Go Dugong come uno dei progetti più originali di questo 2015, premere play per lasciarsi trascinare.
7. Calcutta – Mainstream
Ed eccolo qui, l’oggetto della discordia di questo 2015, siamo sicuri che vi piacerebbe sapere come abbiamo dibattuto su questo disco che esibisce in copertina un’orgogliosa sciarpa che grida al Mainstream. Ma il dibattito sarebbe enorme, basti sapere che si è creata una sorta di distanza generazionale (sarà l’età?) tra chi ha trovato in Calcutta il progetto più fresco e innovativo dell’anno, e chi invece ci ha letto dentro il solito trito e ritrito indie-pop auto-referenziale che prova a sfondare con gli stilemi dettati da Rino Gaetano e Francesco Bianconi. In poche parole, è giusto premiare Calcutta o si sta assecondando un certo modo di sdoganare la musica a qualsiasi cosa? Ci sarebbe tanto da dire su come si sia trasformato il concetto di indie oggi, ben lontano dalle radici primordiali e la sua banale classificazione di prodotto di etichette indipendenti come contraltare della cultura pop, ma tutto ciò merita ben altri approfondimenti. Calcutta è rimasto in classifica.
La new wave italiana dell’elettronica è sempre più fiorente, e il producer cosentino Indian Wells ne è la riprova. Questo Pause ci è rimasto nelle orecchie per tutto il corso del 2015, e quando l’elettronica diventa droga, vuol dire che si è commesso un reato: quello di aver composto ottima musica. Dopo Night Drops, Indian Wells torna ora con questo disco per la Bad Panda Records. Lo abbiamo sentito misurarsi con il tennistronic agli esordi, e lo ritroviamo oggi maturato con questo LP che ci fa render conto di quanto sia oggi un prodotto di alta scuola l’elettronica made in Italy. L’elettronica come soundtrack di un’intera generazione.
Dopo il declino, l’Egomostro di Urciullo continua a confermare la capacità di fondere sound e influenze straniere con il cantato e il linguaggio della tradizione italiana. È subito chiaro sin dall’impatto con Entra pure, intro di poco più di 30 secondi che ci accompagna dentro il piccolo viaggio di Egomostro, che le sonorità di quest’album riproducono le belle atmosfere di sempre, per quanto siamo distanti dall’attitudine più lo-fi degli esordi. C’è sicuramente una cura maggiore negli arrangiamenti, che man mano ci culla per tutta la durata del disco.
Certi suoni ti entrano dentro e devi trovare un modo per farli venire fuori, senza voler nemmeno provare a entrare dentro la macchina di produzione che ha portato Giacomo Mazzucato, alter-ego di Yakamoto Kotzuga, in quel luogo chiamatoUsually Nowhere. Dai beat morbosi alla sapienza del rumore bianco, è la colonna sonora di un salto nel buio che non si accontenta di sé. Vuole uscire, farsi spazio come il desiderio di attività dopo una sbronza. Complesso e strutturalmente coerente si prende la strada di notte quando tutto è già finito per indicarcene un’altra.
La malinconia tenue della voce di Di Martino ricorda da vicino quella saudade che si può trovare in un disco di Toquinho, che declinata al siciliano diventa malancunìa e sembra essere la conseguenza della consapevolezza che quel paese che è uno scrigno necessario a conservare i ricordi, quello che tutti si portano dentro ovunque vadano, sia irrimediabilmente destinato all’estinzione. Un paese ci vuole è un atto d’amore e un regalo dei Dimartino al paese e al suo microscopio umano che si fa universale dentro la lente d’ingrandimento delle canzoni.
2. Verdena – Endkadenz Vol. I o II (come vi piace)
Avevamo già affrontato la questione con i Beach House che quest’anno hanno fatto uscire due album, ma anche i Verdena non son stati da meno con i due volumi di Endkadenz. Ci sono voluti quattro anni per riuscire a distaccarsi da Wow e creare un album solitario e indipendente, immerso nella contemporaneità senza perdere le radici di quello che erano già, una coesistenza difficile, quella tra il passato e il presente, restituita in più sfumature in ogni brano, che te li fa ricordare e scoprire di nuovo. Se Un po’ esageri, il primo singolo, aveva spaventato tutti perché troppo musicale e felice, beh, all’interno della struttura complessa di Endkadenz diventa una componente fondamentale di quello spettro che, ogni giorno, decide come farci vedere la nostra parte di mondo.
Se è vero che ogni disco è un viaggio, DIE è un volo sopra l’Italia in aeroplano durante una turbolenza. Gli steward cantano in sardo ma ballano la techno. Jacopo Incani torna pubblicando il secondo album che ci ricorda non solo che è rimasto bravo, ma che in cinque anni si è impegnato a crescere ancora, «corpo vivo tra gli alberi» (cit. dalla straordinaria Stormi). DIE ci riporta alla tradizione della canzone italiana, quella di Dalla e Battiato, quella del vento tra i capelli, il profumo del mare e dei sentimenti nuevi. Ci parla di mare sì, ma ci parla di un mare dove due persone stanno affogando: uno è lì lì per non farcela mentre dalla costa una donna affoga nelle lacrime vedendo la burrasca attingersi a devastare lo scenario. Ma questo in fondo non è importante, ognuno può vederci ciò che vuole in questo groviglio di suoni che ci trascinano a forza sopra i nuraghi sardi, attraverso filicorni amalgamati con la techno e ritmi concitati segnati da percussioni aggressive e beat elettronici.