a cura di Sara Deon
Nella prefazione ad Aspetta Primavera, Bandini (Einaudi, 2016), lo scrittore Niccolò Ammaniti ripensa alla sua ammirazione giovanile per autori come John Fante, Stephen King ed Ernest Hemingway, e propone una distinzione tra quelli che chiama gli scrittori da tana e gli scrittori da prateria. Gli scrittori da prateria, parafrasando l’autore romano, si gettano sulla vita a braccia aperte dopo aver preso la rincorsa, consapevoli di essere completamente esposti ai suoi rischi e pericoli, e sono alla morbosa ricerca di episodi e sensazioni da cui attingere per le proprie storie. Dall’altro lato, invece, gli scrittori da tana si esiliano, preferiscono viaggiare di fantasia, ai grandi spazi aperti prediligono la solitudine e l’intimità del proprio studio. Attraverso la finestrella di casa questi scrittori da tana osservano il mondo, lo descrivono – spesso distorcendolo -, danno il via libera perché l’immaginazione faccia irruzione nella realtà.
L’Italia è stata la terra natia di uno dei più celebri scrittori da tana, la cui fama si deve soprattutto alle sue saghe d’avventura, ossia Emilio Salgari, che fece appassionare intere generazioni di lettori ai paesaggi esotici e alle giungle indomite della Malesia, pur non avendo mai viaggiato fuori dai confini italiani. Non è un caso che proprio Salgari sia stato uno degli scrittori preferiti dell’autore e traduttore Tommaso Landolfi che, come il padre di Sandokan, non riuscì mai a esplorare quella terra che fu per lui oggetto di scrupoloso studio e fascinazione.
Se esistono davvero gli scrittori da prateria e da tana, si potrebbe forse ipotizzare l’esistenza anche di traduttori da tana e da prateria e, se costoro esistono, allora Landolfi costituisce uno dei traduttori da tana più eccentrici e affascinanti del Novecento italiano. Tuttavia, un po’ per una serie di sfortunati eventi, un po’ per sua decisione definitiva, Landolfi in Russia non mise mai piede. C’è qualcosa di sorprendente nel constatare quanto, nonostante l’inesperienza fisica, geografica e tangibile con questa terra, la Russia di Tommaso Landolfi si dischiuda agli occhi del lettore quanto mai viva e profondamente vissuta, tanto nelle sue traduzioni quanto nei suoi saggi sulla letteratura russa e sui suoi massimi protagonisti.
Tommaso Landolfi nasce a Pico, in provincia di Frosinone (allora in provincia di Caserta), il 9 agosto del 1908. Fin da giovane mostra un acceso interesse per le letterature e per le lingue straniere, tanto che nel 1932 si laurea a Firenze in Lettere con una tesi in letteratura russa su Anna Achmatova – mostrando anche una certa caparbietà, dal momento che presso la sede fiorentina non c’è una cattedra di letteratura russa. Fu in primis l’amicizia con Renato Poggioli, che diventerà negli anni successivi un insigne critico letterario e docente di letterature slave e comparate ad Harvard, ad avvicinarlo alla letteratura russa: nei pomeriggi trascorsi insieme nella biblioteca dell’amico di là d’Arno al Ponte Vecchio, un Landolfi appena ventenne si dedica alla lettura di Dostoevskij, Tolstoj, Lermontov, Leskov, Turgenev, Gogol’, Puškin, Tjutčev – tutti scrittori e poeti che negli anni successivi reintrodurrà nelle librerie italiane con le sue traduzioni.
Il panorama editoriale italiano di quegli anni assiste al proliferare di nuove case editrici interamente dedicate alla letteratura russa, per esempio Slavia (fondata da Alfredo Polledro a Torino nel 1927), e l’apertura di apposite collane presso Mondadori, Salani, Bietti e Corbaccio. Tuttavia resta ancora ingente il bisogno di procurarsi le fonti direttamente all’estero, ed è per questa ragione che nel 1936 Landolfi parte alla volta di Praga, per raccogliere materiali su Puškin che lo aiutino nella sua traduzione del poema Ruslan i Ljudmila, a cui sta lavorando in vista del centenario del poeta russo. Inoltre, dal 1923-’25, Praga si afferma come il terzo centro europeo più importante della diaspora russa, dopo Berlino e Parigi. Proprio a Praga, infatti, la scrittrice e poetessa Marina Cvetaeva riesce a vivere dignitosamente come emigrata grazie all’aiuto e ai finanziamenti da parte del governo praghese, che impiega gli scrittori e gli intellettuali russi concedendo loro cattedre presso l’università. Per questo motivo, congiuntamente alla difficoltà per gli occidentali di accedere in Unione Sovietica, la capitale cecoslovacca in quegli anni diventa una meta obbligatoria per gli slavisti italiani; tuttavia non fu così per Landolfi: una volta giunto alla frontiera con l’Austria si vede respinto e non può procedere oltre. Deve così tornare indietro.
Nei primi mesi dell’anno 1936 Landolfi decide di recarsi a Padova, dove si ferma per qualche tempo presso la casa di uno dei padri fondatori della slavistica in Italia – Ettore Lo Gatto, che solo pochi anni prima ha fatto parte della sua commissione di laurea. Al tempo, di Lo Gatto ha una certa fama la sua biblioteca privata, impreziosita da numerosi volumi inediti per i giovani slavisti italiani e che il pioniere della slavistica mette a completa disposizione dei suoi allievi. Infatti, è stato lo stesso Lo Gatto, durante un viaggio a San Pietroburgo, a bussare direttamente alla porta di Anna Achmatova, procurandosi dei suoi testi inediti in Italia – testi che Landolfi ha utilizzato poi per la propria tesi. È proprio lo smarrirsi tra i volumi della sua biblioteca a trasformare in realtà questo immaginario viaggio di andata e ritorno per Landolfi, che ritorna nel 1937 con diversi articoli dedicati a Puškin, pubblicati sui periodici «Letteratura» e «Meridiano di Roma».
Il rapporto con la Russia è espresso soprattutto dalla sua attività di traduttore, in particolare dagli anni Trenta: Landolfi è uno dei tre protagonisti, con Cesare Pavese ed Elio Vittorini, del cosiddetto «decennio delle traduzioni», che va dal 1930 al 1940. Mentre l’Italia fascista inasprisce il processo di italianizzazione della lingua e si fa via via sempre più autarchica, questi tre scrittori e intellettuali – tutti nati lo stesso anno, nel 1908 – prendono posto alle loro scrivanie e con carta e inchiostro dichiarano il proprio esterofilismo: Pavese e Vittorini sottoscrivono il loro amore per gli Stati Uniti d’America, Landolfi quello per la Russia.
«L’Italia era estraniata, imbarbarita, calcificata – bisognava scuoterla, decongestionarla e riesporla ai venti primaverili dell’Europa e del mondo. […] Noi scoprimmo l’Italia – questo il punto – cercando gli uomini e le parole in America, in Russia, in Francia e nella Spagna», scriverà successivamente Pavese nel 1946, una volta cessata la guerra, ritornando con la memoria a quel decennio traduttorio.
Nel 1942 Landolfi pubblica la sua prima traduzione dal russo, I racconti di Pietroburgo di Gogol’, per la collana di Rizzoli «Il Sofà delle Muse» (diretta allora da Leo Longanesi). Tuttavia la vera svolta come traduttore dal russo ha luogo nel 1948, con l’uscita dell’antologia Narratori russi, a cui Landolfi lavora dal ’41 e che vede una gestazione così lunga a fronte delle difficoltà nel reperire i testi in lingua originale. Questo volume, con la collaborazione tra gli altri di Ettore Lo Gatto e Leone Ginzburg, contiene sue traduzioni delle opere di Tolstoj, Gogol’, Čechov, Puškin, Turgenev, Dostoevskij e Bunin.
Gli anni Cinquanta e Sessanta inaugurano la seconda stagione del Landolfi traduttore, durante la quale è determinante la collaborazione con la casa editrice Einaudi. Durante questa grande stagione traduce Tjutčev, Lermontov, Leskov e Puškin. Questa fase è caratterizzata da impellente necessità economica, tanto che in questo periodo la traduzione diventa per Landolfi quasi indigesta, poiché lo sottrae alla composizione delle sue opere, e arriva a provarne autentica insofferenza, scrive infatti:
«Sono angosciato: dovrò forse per necessità di quattrini ridurmi a fare alcunché di assolutamente inutile, traduzioni magari», e continua: «e ora quelli [i libri] che sono obbligato a leggere per tradurli e obbligato a tradurre pel medesimo motivo. Sicché si può capire quali siano i miei rapporti con questi ultimi. In una parola i miei interessi e la mia attività sono obbligati o non sono».
Nonostante la crescente antipatia per il tradurre, in Landolfi è forte una concezione elitaria dell’arte: da un lato egli avvalora il valore divulgativo della traduzione, in particolare per il russo – lingua allora ancora ben poco diffusa; dall’altro ricorre all’attività di traduttore perché, per uno scrittore già affermato come lui, comporta una discreta remunerazione.
Seppure Landolfi non abbia mai varcato i confini di questa terra, ne ha senz’altro penetrato e colto l’anima più profonda. Adelphi ha raccolto diversi suoi scritti miscellanei, molti inediti, nel volume I russi (a cura di Giovanni Maccari, 2015), dal quale si può evincere la dedizione dello scrittore italiano che dialoga con gli autori russi a lui più congeniali. Landolfi diffonde la letteratura russa nelle librerie degli italiani, apre il sipario su quella terra intrinsecamente ricca di contraddizioni, che è la Russia dostoevskiana degli angoli lerci e angusti, ma anche la terra di Gogol’, quella Russia grottesca e alienante che schiaccia il malenkij čelovek, l’uomo comune – è la Russia di Tolstoj, Lermontov, Leskov. È un mosaico liquido, sfuggente.
Ma, più di tutto, emerge quella Russia che sfugge alle categorizzazioni, che rimane inafferrabile. Per Landolfi, infatti, il tratto specifico della letteratura russa è di non averne nessuno. Questa letteratura esonda da quei confini tipici delle classificazioni rigide, muta forma continuamente e ininterrottamente s’interroga su se stessa. Così come la sua terra, la letteratura russa rappresenta per Landolfi un cosmo ideale, utopico, le cui tracce rifluiscono nelle opere di narrativa dello stesso autore, e ne plasmano la materia (in particolare Gogol’, Dostoevskij e Turgenev).
Allora non può stupirci che in Russia Landolfi non abbia mai messo piede: quella terra resta per lui un’immagine, un’utopia, alla quale preferisce accedere esclusivamente attraverso il canale a lui più congeniale – quello della letteratura.