Laura Imai Messina racconta il suo Giappone da anni ormai dalla pagina Facebook Giappone Mon Amour. Dopo aver pubblicato vari romanzi e il saggio Wa. La via giapponese all’armonia, il mese scorso è tornata in libreria con il libro Tōkyō tutto l’anno. Viaggio sentimentale nella grande metropoli (Einaudi), arricchito dalle illustrazioni di Igort.
Sono arrivata a Tōkyō che avevo più di vent’anni. Sono partita da Roma con un’immensa valigia color ciliegia, una laurea in Lettere e mia sorella a scortarmi in aeroporto.
Dovevo restare un anno. Ne sono passati quindici.
Sono ancora qui.
Il racconto di Tōkyō di Imai Messina si srotola tra i mesi dell’anno – ora per esempio, siamo a Ottobre, il mese senza dèi – a cui corrispondono feste, tradizioni, ricorrenze della cultura giapponese. Attraverso i ricordi dell’autrice a esse legati prendono vita anche spazi, quartieri, strade, dalle più trafficate alle meno conosciute, in maniera quasi tangibile: si cammina con lei.
Dalle pagine di questo libro si vive così una metropoli inedita: all’immagine da grande città gentrificata come tante altre, si contrappone una dimensione calda, unica, quella del perimetro delle abitudini di una famiglia. Imai Messina vive infatti a Tōkyō con il marito Ryōsuke e i due figli: sono loro ad accompagnarla spesso tra gli aneddoti, aiutando a capire anche come si può vivere lì da famiglia, una famiglia normale che fa cose ordinarie. La scrittrice si fa spesso guida dei suoi figli; ripercorre strade e luoghi che sono per lei ormai casa, per poi riportarli a lettrici e lettori con grande cura. Sono tanti anche i momenti di riflessione individuale, quelli in cui rivive la propria crescita personale nel Paese, il modo in cui si è sanato il distacco da straniera per poi sentire di avere davvero un suo posto lì.
Immersi tra le sue parole si respira un profondo sentimento di amore: per la lingua – ricca e complessa allo stesso tempo – e la letteratura, di cui cita molte opere; le persone del posto incontrate poi diventate amicizie, famiglia, punti di riferimento; la storia millenaria di un arcipelago e di una città ormai intrecciata indissolubilmente alla propria.
Di tutto questo ho avuto il piacere di parlarne direttamente con lei.
Il sottotitolo del tuo libro è “Viaggio sentimentale nella grande metropoli” e restituisce perfettamente il clima che si percepisce tra le pagine. Ripercorri un anno a Tōkyō, tra i mesi e i quartieri, con uno sguardo innamorato, accompagnata spesso nei racconti da tuo marito e i tuoi figli. La sensazione è proprio quella di “casa”, un “cantuccio caldo” anche se ricostruisci gli spazi immensi da metropoli, appunto. È sempre stato così? Quanto tempo c’è voluto per guadagnarti quel posto da persona “accettata per sempre”, come dici raccontando della famiglia di tuo marito?
Per far cadere i pronomi soggetto “io-noi , opposti a un più vago “loro, voi”, ci sono voluti tre anni e un carico enorme di studio. Per amare, davvero, credo serva capire. Coinvolgere non solo l’emotività ma anche la razionalità. E allora, per capire serve studiare, e solo rendendo solido quell’amore è stato possibile superare le difficoltà, le discrepanze tra l’anima italiana e il contesto giapponese, che per molti versi può apparire agli antipodi.
È stato, in breve, quando ho smesso di vivere il mio essere italiana in contrasto (o similitudine) al loro essere giapponesi che mi sono integrata. Quando ho smesso di paragonare a discapito di uno dei due. Ho accettato tutto. Anche di non capire tutto.
Su Facebook racconti da anni ormai il Giappone attraverso la tua pagina “Giappone mon amour”. Lo hai raccontato anche nei romanzi che hai pubblicato in precedenza. Come nasce invece “Tōkyō tutto l’anno”?
Tokyo tutto l’anno nasce dal desiderio di raccontare ciò che Tokyo non è. Contro lo stereotipo che la vuole tutta cemento e grattacieli, rapidissima e tutta piegata solo ed esclusivamente sul lavoro e sulla moda. Tokyo è casa per milioni di persone e mostra la sua bellezza solo a un occhio quotidiano, privo di fretta e voglia di riassumerla in un viaggio. Volevo scrivere un libro che mettesse al centro Tokyo-casa, non Tokyo-meta turistica.
Senti che ci sia qualcosa di sbagliato della narrazione del Giappone che arriva in Italia? O un vuoto che volevi colmare?
Manca, appunto, il quotidiano. Il “normale”. Dal Giappone si chiede costantemente lo strano, l’eccezionale. Quando è proprio la sua normalità dettagliata a renderlo un paese speciale.
Nel tuo libro si gira tra i monumenti più pop – nel senso di inseriti in un immaginario che va oltre i confini, come la statua di Hachiko – ad angoli meno esplorati come il Museo dei parassiti di Meguro. Parli di Tōkyō come una città in continua costruzione, quanto è cambiata in questi più di quindici anni?
Continua a cambiare costantemente. Da un giorno a un altro è già un poco diversa. Un ristorante chiude, magari trasloca, subentra un parrucchiere, una agenzia matrimoniale. È diventata un po’ più disinvolta, un filo meno educata. A dirla con i pessimisti “peggiora”, a dirla con gli ottimisti “si libera”. Unica costante è il cambiamento: è inarrestabile.
Unisci al racconto dei quartieri, degli ambienti, anche il susseguirsi di tradizioni culturali nazionali – dal capodanno al tempio, al setsubun, ai matsuri che si tengono per varie occasioni durante l’anno. A volte parli anche di alcune città del sud, che è il posto da dove viene tuo marito se non ricordo male. Cosa ha di unico Tōkyō rispetto al resto del Giappone che hai visto? E cosa invece forse un po’ le manca?
Tokyo ha dentro tutto e proprio per questo avere tutto è difficile distinguerne le parti. L’accessibilità è il suo vantaggio maggiore. L’accessibilità è il suo peggior difetto. Smorza un po’ la voglia di cercare, rende un continuo di efficienza ogni giorno.
Il libro è organizzato secondo una divisione in mesi, ognuno di questi è accompagnato da una breve definizione riassuntiva (Giugno, il mese senza acqua; Novembre, il mese della brina – per citarne due), ma anche un cappelletto che ne ripercorre il significato degli ideogrammi e dei tanti nomi con cui è stato nominato. La pluralità di cui parli per la città, è anche e soprattutto una pluralità linguistica?
Lo è. La maggior parte dei kanji, degli ideogrammi in giapponese, possiede una pluralità di letture, ognuna delle quali mutevole a seconda del carattere che viene subito prima o subito dopo. Un piccolo tsunami di termini stranieri irrompe periodicamente nella lingua giapponese e c’è una pluralità di modi per spiegare un solo oggetto o un medesimo sentimento. Se nella vita, la scelta mi pare il momento di maggiore stress e sofferenza personale, nella lingua giapponese mi pare una risorsa immensa. Esiste una quantità enorme di termini intraducibili: è lì che resta nascosto il cuore della cultura e del sentire del Sol Levante.
C’è un evento della tradizione che aspetti di più durante l’anno?
Tanabata, la Festa delle Stelle, a luglio. Credo infatti nel desiderare che si carica di impegno e la settima notte del settimo mese dell’anno l’incontro delle stelle fa sì che i desideri trascritti sulle striscioline di carta appese a fuscelli di bambù. Per lo stesso motivo amo molto la prima preghiera dell’anno a Capodanno, la prima visita al santuario: un altro momento per esprimere un desiderio, per dichiarare una forte intenzione davanti allo sconfinato pantheon delle divinità del Giappone.
Capisco molto bene quando dici “Non fare l’errore di paragonare l’Italia e il Giappone. […] Puoi amare entrambi, prendere il meglio senza metterli al banco degli imputati”. Credo che vivere per molto tempo all’estero, il giusto per sentirmi in qualche modo integrata e non “semplice” turista, sia fondamentale per provare a guardare a una cultura senza il filtro di un’altra. Qual è il meglio che hai assorbito dal Giappone e quale invece quello che hai conservato dall’Italia?
Mi ritengo un ibrido ormai. Non sono capace più di distinguere le parti, tanto più che mi accorgo di pensare diversamente quando parlo in giapponese, perché ogni lingua ha in sé una serie di espressioni, costruzioni che sono vere e proprie direzioni del pensiero, tanto che ho capito negli anni come sia il giapponese che l’italiano mi portino naturalmente non solo a esprimermi ma anche a sentire in una diversa maniera. In giapponese, per dire, sono più pacata, più contenuta, più dolce e misurata nell’opinione, lascio maggiore spazio all’altro e a me stessa. In italiano esplode l’emozione, soffro di più, gioisco di più, non ho misura, sono feroce, sono più innamorata.
L’anno prossimo saranno dieci anni dal terremoto di Fukushima e del conseguente tsunami che causò migliaia di morti e il conseguente disastro nucleare. Come senti che abbia reagito il Giappone in questi anni a livello emotivo e politico? La ferita è stata sanata o è qualcosa che necessita di altro tempo?
La ferita rimane molto profonda. Dieci anni sono, praticamente, un battito di ciglia. Avverto l’intenzione soprattutto di creare memoria, di accumulare e rinnovare il ricordo di quanto è stato e si vuole non accada ancora. Eppure la storia del territorio giapponese lo insegna, ogni circa cent’anni la storia si ripete, un terribile terremoto scuote la terra, un nuovo tsunami – di variabile altezza – travolgerà la costa. Il disastro nucleare, ecco, quello – grazie alla memoria – non credo si replicherà. Ho fiducia.
Sono molto affascinata dal modo in cui un’identità mossa “contaminarsi” di più culture, arricchendosi, e di come questi si manifesti poi nei suoi modi di esprimersi. Tu continui a scrivere i tuoi libri in italiano, senti che la tua lingua abbia subito delle influenze dal giapponese? Se sì, essendo lingue radicalmente diverse, in che modo?
L’italiano si è arricchito di dubbi, dubbi che mi portano ad approfondire la lingua più di quanto non avrei fatto se fosse stata l’unica presente nella mia vita. Ne esploro etimologie e sonorità come fossero una lingua straniera. Molti automatismi sono venuti meno. In questo senso, il giapponese ha reso più estranea, meno ovvia, la mia lingua madre.
Il tuo racconto è arricchito da alcune splendide illustrazioni di Igort che ricostruiscono visivamente alcuni spazi. C’è stata una qualche collaborazione tra voi due o avuto carta bianca per lasciarsi suggestionare da quello che tu avevi già scritto?
Carta bianca. E credo fosse l’unica condizione possibile perché venissero fuori le illustrazioni meravigliose che Igort ha poi effettivamente donato al mio racconto sentimentale di Tokyo. L’illustrazione non è asservita alla parola. L’illustrazione sceglie di capitolo in capitolo il luogo, la stradina in cui indugiare il passo, il punto su cui soffermare la propria attenzione, la tradizione da raccontare.