A chi importa del domani quando hai il TOdays festival?

Fotografie di Alessia Naccarato

Se esistesse come lavoro, quello di tirare su il morale a chi sta vedendo finire la propria estate, come si guarda l’ultima poltiglia di cera liquefarsi nel portabugie, potrebbe essere il lavoro più difficile del mondo. Molto al di là della fisica quantistica, forse paragonabile a quella di Presidente della Repubblica qui in Italia. TOdays festival ha deciso di mandare un cv per candidarsi alla posizione.

Per chi, come me, aveva vissuto gli ultimi mesi che ci separavano dalle ferie con un movimento asintotico che ci faceva vedere le vacanze sempre più lontane ogni volta che provavamo ad avvicinarci, il weekend del 23 agosto rappresentava l’omega del dolce far nulla.

Ma se durante tutto l’anno, in ogni circostanza, la soluzione può essere trovata nella musica, perché non cercare una possibile risposta alla fine dell’estate proprio lì? D’altronde, perché inventare di nuovo la ruota? TOdays, ormai da cinque anni, si assume l’arduo compito di risollevare il nostro umore dopo l’addio al mare, alla montagna, ai paesi esotici o alle calde città europee.

Quando l’anno scorso il cartellone dei TOdays mi aveva fatto venire voglia di prendere un aereo in anticipo per tornare nella calda terra sabauda non potevo sapere che si sarebbe creato una sorta di appuntamento fisso con il festival che dice arrivederci all’estate. La lineup anche stavolta era originale, non scontata, in alcuni casi intrigante, in altri spiazzante. Insomma, le premesse per una tre giorni di sconquassamento da musica erano state poste. A me non restava che tornare su a Torino.

Mostro già cosa ho in mano prima ancora di fare le mie puntate. Il TOdays si è confermato un festival meraviglioso e dalla coerenza granitica che riesce a rimanere fedele alle sue idee e al progetto che sta dietro questa maxi manifestazione.

Se le gambe pregano ancora per del succo di mirtillo, se le schiene sono ancora poggiate sui cuscini è perché tutte le nostre forze erano concentrate sul nostro cuore. Ci vuole tanta concentrazione, d’altronde, per scongiurare tre giorni consecutivi di prevista pioggia.

Giorno 0: che ne dite di un djset tra i trattori?

Sicuramente è passato un po’ sotto traccia, ma in largo anticipo sul festival, il 12 luglio, al CNH Industrial Village è andata in scena l’anteprima del TOdays festival. A fare gli onori di casa il dj e producer londinese Gold Panda.

Se c’è una cosa a cui il TOdays ci ha abituati, quella è senza dubbio il ruolo giocato dalle location in cui il festival si svolge, mai banali e sempre con una forte caratura “politica”.

Non so quante volte vi sia capitato di assistere a un dj set in un salone espositivo infestato da trattori e macchine agricole. A me, personalmente, mai prima di allora. Entrare in un parcheggio enorme, quasi di soppiatto a testa china, per avvicinarsi alla scatola vitrea con i giganti meccanici illuminati dagli spot nel pavimento e, come dei bucanieri, approcciarsi alla porta da cui esce un casino infernale di bassi e alti suoni “cordosi”. Il solo recarsi al concerto valeva il biglietto (il live era gratis) ma poi ci ha pensato la consolle di Gold Panda a non farci accontentare.

Un set ben calibrato di elettronica da club e di uptempo su cui estasiati abbiamo ballato per quasi due ore in una situazione intima, quasi da festa in salotto di casa propria quando sei in erasmus.

 

Giorno 1: Ma non dovevamo scaldare i motori?

 

I metereologi sembrano non lasciare spazio alle speranze di noi poveri assetati di live: stasera pioggia a catinelle su Torino.

Dopo un giro ai TOLAB sull’utilizzo delle luci nei live e dopo un paio di chiacchierate con Bianco e Fast Animals and the Slow Kids (tra gli altri), tra chi non crede alla pioggia e chi non ci crede ma porta nella sacca l’impermeabile, siamo entrati per la prima volta allo Spazio 211 che, di lì ai prossimi tre giorni (assieme all’Incet) sarebbe stata un po’ casa nostra.

Il primo giorno è quello del forfait di questo anno, quello che deve fare i conti con l’amarezza della rinuncia dei Beirut. L’attesa si sente e l’aria che c’è intorno è quella che vibra di voglia di iniziare e di timore di non riuscire a fare tutte le cose al meglio.

A esibirsi per primo, sale sul palco Bob Mould e questa è decisamente una notizia, visto che il cantautore ormai quasi sessantenne potrebbe benissimo essere un headliner per la sua storia musicale fatta di canzoni meravigliose e testi degni di un poeta. Ci aspettavamo, forse, un live placido, tenuto da un chitarrista ormai saggio pronto a farci entrare lentamente nell’atmosfera del festival. Poche volte, però, abbiamo fatto così tanto male i conti. L’esibizione di Mould ha sprigionato una sorta di energia magica che ci ha catapultati subito in un sogno magnetico. Il live del vecchio Bob è stata la dimostrazione che la classe non si perde col tempo e a chi ha sulle spalle un bagaglio pesante come lui, basta poggiare un attimo una valigia e frugare per tirare fuori qualcosa di fuori dall’ordinario.

 

A dare manforte allo spirito del festival, decisamente già pronto e ben oltre le fasi di rodaggio iniziali, ci sono i Deerhunter. Il gruppo di Bradford Cox, in assetto decisamente bobo, ha dato sfoggio della sua classe (che, almeno per me, non costituiva in alcun modo qualcosa di inatteso).

Neppure il tempo di dare tregua ai nostri cuori, neppure i minuti necessari a riportare i piedi sulla terra dal sogno in cui ci aveva condotti, mano nella mano, Bob Mould che era già tempo di ripartire. Stavolta la destinazione non erano i sogni ma gli altri pianeti. Ladies and Gentlemen, we are floating in the Space. Gli Spiritualized attaccano con Come Together. A noi il compito di seguirli nel viaggio. Ci hanno messo a nostro agio, offrendoci il noto, ora però si deve partire. Jason Pierce è pronto, lo dimostrano le sue espressioni, il suo calore, la sua concentrazione mentre i cori si inseguono e mentre noi ci rendiamo conto che perdersi non è mai stato così bello.

 

Si arriva dunque alla resa dei conti. Agli organizzatori il compito di dimostrare di poter riuscire in una miracolosa doppietta (il successo dei Mogwai della precedente edizione e quello dei Ride in questa). Ai Ride, scafatissimi padroni del glaze, dimostrare di poter non far rimpiangere un mancato appuntamento così tanto sentito dai fan. Il risultato? Lo si leggeva negli occhi del pubblico, nelle maglie di tour il cui anno stampato sotto il logo incalzava pericolosamente quello della mia nascita. Lo si leggeva nelle parole che il pubblico cantava e, soprattutto, nella potenza di una band che non accenna a fare un passo indietro dopo così tanti anni.

 

 

Le luci si spengono sullo Spazio, è ora di ripartire. Le gambe son molli (proveremo questo dolore bello per altri due giorni) e c’è da zampettare fino all’ex fabbrica Incet. Per fortuna per noi, un po’ meno per i nostri arti inferiori, non c’è più da cantare ma c’è tanto da ballare. Chancha Via Circuito, Dengue Dengue Dengue, Wolf Muller e Interstellar Funk incendiano i duri pilastri dell’ex fabbrica che quasi sembrano oscillare con noi.

La più grande prova della nostra forza d’animo è stato vedere le nostre gambe muoversi ancora quando, stanchi ma felici, tornavamo a casa per andare a letto.

 

Giorno 2: Siamo sicuri di non esserci mossi da qui?

 

Beverone di Polase per riattivarci e mattina stesi sul divano. Ormai sapevamo bene a cosa andavamo incontro e non ci saremmo fatti trovare stanchi di fronte alla seconda giornata di un festival che ha messo un bel po’ di cose in chiaro nel suo giorno di apertura.

La lineup del TOdays di oggi, diversamente da quella di ieri, mi vede parzialmente impreparato. Conosco poco Adam Naas, che aprirà la giornata, e il nuovo progetto di Tom Fleming, che conoscevo per i Wild Beasts, dal bizzarro nome One True Pairing, mi è quasi più conosciuto da un punto di vista concettuale (avendo potuto chiacchierare con lui nel pomeriggio durante un’intervista a brevissimo online qui) che da quello musicale.

Due progetti sicuramente molto giovani ma accomunati dal talento, dalla voglia e dalla voce, in entrambi i casi, protagonista.

Naas si è rivelata una vera sorpresa. Solo 26 anni e una voce da soulman graffiante e calda allo stesso tempo. Per quanto riguarda One True Pairing, solo la sua voce da tenore poteva far passare in secondo piano il curioso abbigliamento. L’idea di mescolare il suo timbro particolare ad atmosfere elettroniche mi ha incuriosito e intrigato costituendo un buon preludio a ciò che sarebbe venuto subito dopo.

 

 

La fortuna di Naas e di Fleming è stata quella di poter suonare a un concerto per fare da apertura a una delle band migliori della storia recente della musica. La sfortuna degli stessi è stata quella di venire smaterializzati dalla classe incontrastata degli autori del miglior album dello scorso anno. I Low per noi, non dovrebbe essere una sorpresa per chi ci legge, sono una delle band caposaldo della musica degli ultimi anni. La qualità incredibile che il trio possiede è quello di migliorare in qualche modo ogni volta che li sentiamo live. Non so bene se sono loro a migliorare o semplicemente si toccano vette così alte quando si iniziano a sentire i rullanti di Mimi Parker che riescono a stupire pur conoscendoli già. Ci si ritrova un po’ in quella situazione da film che ci ha fatto piangere da piccoli: sappiamo come inizia e come finisce, ne conosciamo le battute, possiamo anticipare i gesti degli attori, eppure quando arriva il momento clou piangiamo. Con i Low si prova (o, almeno, provo) un po’ la stessa sensazione straniante e rassicurante. Non solo slowcore, la band vira verso il noise con una strambata di sorprendente naturalezza. Tutto il mondo che i Low costruiscono si condensa ed esplode creando un’atmosfera di un’intensità surreale. Ascoltare la band mentre sullo sfondo luci rincorrono la fiammella di una candela fa bene al cuore così tanto che senti potrebbe scoppiare, in un misto di dolore e piacere paragonabile al mal di pancia da troppe risate. Ed è mirabile vedere come niente riesca a scalfire la compattezza dell’aria che sono riusciti a creare. Sembra non riuscirci neanche Alan quando dice di voler essere amico di tutti coloro nel pubblico che non hanno amici, che vorrebbero essere immortali per poter essere per sempre nostro amici. Scoppia una risata tra il pubblico ma non serve a nulla, lo scudo che si è creato allo Spazio 211 non può essere infranto.

 

Il concerto finisce e noi rimaniamo spaesati più che mai, in cerca di una risposta. Alcuni optano per un panino caldo, altri rimangono imbambolati, ma la maggior parte degli astanti pensa solo che non vorrebbe mai essere Hozier in quel momento.

Lo pensavo anche io, voglio essere sincero. Suonare dopo i Low, quei Low, era crudele. Eppure Hozier sul palco ci sale, carico come la dinamite innescata, con la sua band a maggioranza femminile. Inizia a suonare la sua chitarra mentre violini e battiti di mani del pubblico, guidati dal bassista, fanno esplodere ogni dubbio. Si trattava di una scelta coraggiosa, senza dubbio, la scelta di contrapporre a una band che è già leggenda con la sua musica “complessa”, qualcosa di diametralmente opposto, di potabile, gestibile, divertente e fresco. Un azzardo sicuramente ma non casuale. Una scelta che rispetta i desideri dell’organizzatore del TOdays che proprio a noi aveva detto di voler fare un festival che fosse capace di abbattere i generi e che, soprattutto, fosse in grado di sconvolgerci, di far incontrare sotto lo stesso palco il ragazzo con gli occhiali tondi e i capelli arruffati e la coppia madre-figlia in spasmodica attesa di Take Me To Church. Malgrado ogni riserva e al di là di ogni gusto, lo show di Hozier è stato proprio questo: uno show. Ottima presenza scenica, pubblico coinvolto dall’inizio alla fine, anche in un siparietto durante il quale si è cantato Happy Birthday to You alla mamma di Hozier che faceva il compleanno proprio quel giorno. Uno schiaffo a ogni elucubrazione mentale intellettualoide. La musica è lì per tutti. Probabilmente non andrò più a un concerto di Hozier in vita mia ma sapere che tanti fan di quest’ultimo hanno avuto la possibilità di scoprire tanta bella musica grazie a lui, a me fa piacere. Non faccio il buonista, mi fa piacere davvero.

 

Di corsa all’Incet per uno dei concerti che ho atteso di più in assoluto: i Cinematic Orchestra. Li inseguivo da un po’ e i TOdays mi hanno dato l’occasione per ascoltarli. Poco da dire, un altro concerto da lacrime. I Cinematic Orchestra con la loro sapiente miscelazione di jazz (in alcuni momenti anche free) ed elettronica hanno dato sfoggio di un vasto campionario di sonorità e possibilità espressive trascinate dai fiati (che si sono concessi anche un brano in assoluta autonomia grazie alla loop station). Un po’ vittime del loro brano più noto, i Cinematic sono riusciti a togliersi di dosso quella patina da canzonieri ammiccanti per dare sfoggio di un talento versatile e quasi onnipotente. Bellissime le incursioni sonore della cantante che è salita per alcuni brani a portare una ventata di spiritual a quegli arabeschi che i musicisti stavano intessendo. Eleganti e mai eccessivi, i Cinematic Orchestra hanno steso il tappeto per guidarci di nuovo verso casa e chiudere la seconda giornata dei TOdays.

 

 

Giorno 3: Non può finire così ma se deve finire, che finisca così

 

 

La domenica che chiude l’estate questa volta non è come tutti gli altri anni. Questa domenica sappiamo che dopo pranzo ci aspetta un programma fittissimo ai TOdays festival. Un programma che inizia con ben due ore di anticipo rispetto al solito.

Prima tappa: Parco Peccei. Ancora una volta, la differenza la fa il luogo. Il Parco Peccei è un parco bellissimo di Torino in fase di (come si suol dire) “degrado”. Abbandonato a se stesso, questo fine agosto ha visto più gente di quanta non ne veda durante tutto l’anno grazie al concerto gratuito degli Sleaford Mods. Famiglie e raver uniti sotto lo stesso tetto: quello della Working Class Electronic, come c’è scritto sull’adesivo di uno dei componenti del duo. E mentre Andrew fa partire le campionature e beve birra scatenandosi sul palco, Jason colpisce con la rabbia tipica del punk. Tutti beviamo, tutti balliamo. Il Parco è morto, evviva il Parco.

 

Ci sentiamo sudati, sporchi, macchiati di birra che zampillava dai bicchieri troppo larghi per contenere la nostra energia da scalmanati. Entriamo allo Spazio 211 come i Peaky Blinders dopo una scazzottata e veniamo accolti da cinque ragazzi puri e candidi in t-shirt bianca, con capelli lisci lunghissimi e visi puliti. Sono i Parcels e lo sbalzo di stile merita solo un “Bravo, TOdays festival!”. Chitarre e tastiere fanno oscillare i biondissimi capelli dei musicisti che, malgrado la giovane età, son così anni ’70 da farti esclamare “Grande Giove!”. Ma non c’è solo apparenza, sebbene sia difficile non vedere che il chitarrista è il cosplay più riuscito di George Harrison di sempre. Lo stile è fresco e loro riescono a far ballare tutto quanto il pubblico dimostrandosi davvero irresistibili con il loro stile da dancefloor di altri tempi. Con i loro cori riescono persino a tirare giù le nuvole e a farsi illuminare dal sole. Una scenografia impensabile e imprevedibile ma davvero ben riuscita.

 

I Balthazar seguono a ruota. Il premio di piacioni del festival va senza dubbio a loro, ammiccanti e provocanti per tutta la durata del concerto, mettono a segno una serie di pezzi scelti dal loro passato e dal loro ultimo album in quella che è stata, forse, una delle migliori performance del festival. Davvero un bel live capace di alternare carica rock e sensualità.

 

Ma per due gruppi di giovani che vanno via, due venerabili prendono il posto sul palco. Sale in cattedra prima Johnny Marr, camicia variopinta e stile fossilizzato negli anni ’80 (non credo di aver mai visto dal vivo nessuno suonare tenendo il manico parallelo al proprio corpo in alto sopra la propria testa, solo nei videoclip). Ma al di là delle movenze sicuramente vintage, ci siamo trovati di fronte a un pilastro e anche stavolta le lacrime non sono riuscite a non sgorgare. Un vero incantatore di serpenti il vecchio Johnny che, dapprima fa felici gli aficionados (numerosi) con un po’ di pezzi del suo repertorio ma poi decide di alternarli ai classiconi degli Smiths e lì io (ma anche Alessia, autrice delle meravigliose fotografie) non siamo riusciti più a contenerci. Sentire l’intro di This Charming Man e sapere che a breve ci sgoleremo, vedere alcuni esponenti del pubblico roteare e fare quei movimenti con le braccia che non si vedevano dai tempi di Beverly Hills Cop, sperare che Johnny non smetta mai di ripetere There is a Light That Never Goes Out… Non sarebbe dovuto finire mai.

 

 

Il premio presenza scenica va sicuramente a Jarvis Cocker e al suo nuovo progetto Jarv…Is. Che Cocker fosse eclettico non è una notizia per nessuno ma vederlo live è un’esperienza in tutto e per tutto. Anche e soprattutto perché il suo non è un concerto come gli altri. Jarvis Cocker alterna le canzoni a lunghi discorsi rivolti al pubblico strappando loro sorrisi, quando traduce i suoi pezzi in italiano e chiedendo se hanno senso (non ne aveva “Figli dell’eco”), e lacrime e groppi in gola quando scende tra il pubblico per chiedere loro, faccia a faccia, di cosa hanno più paura. Il resto è balletti degni del miglior Franco Battiato, luci stroboscopiche e un’arpista.

 

Di nuovo di corsa verso l’Incet perché anche questa non voglio perdermela per nessuna ragione al mondo. La chiusura del festival è affidata a Nils Frahm e io non vedo l’ora di vedere la sua coppola emergere tra le tastiere. Arrivato sotto palco vengo sorpreso, ancora una volta, dalla quantità di apparecchi e tastiere che sono state montate che fanno sembrare l’intero palco la plancia di controllo di un reattore nucleare di legno. Nils sale sul palco accolto da un applauso fragoroso e inizia ad armeggiare alle tastiere. Le luci fioche accompagnano i suoi movimenti sui tasti bianchi e neri. Veniamo rapiti da quel fare “artigianale” che non ha paura di nascondere il tocco dietro la nota. Nils è assorto, spalle al pubblico, i fotografi in preda al panico incapaci di avere una prova visiva se non della nuca dell’artista. Le note si perdono nell’aria lunghe finché Frahm non si alza per cambiare postazione e creare dei loop con i  suoi strumenti uguali eppure sempre diversi che trasformano l’overture in un brano elettronico persino ballabile. Le mani si muovono rapide e sanno dove trovare ogni tasto all’interno di quel labirinto che ai profani come noi rimane inaccessibile. La luce, i gesti sapienti, l’apparente calma di chi sta facendo qualcosa di incredibile ci hanno fatto sentire nel laboratorio di un molatore di lenti a lavoro. Un’artista che con la sua cura ha tenuto col fiato sospeso un intera ex fabbrica e che ha concluso nel migliore dei modi il TOdays festival.

Mentre scrivo, leggo sui giornali online che Gianluca Gozzi, l’organizzatore del TOdays, ha deciso di concludere il suo percorso. Non so bene come finirà e neppure se ci sarà un prossimo TOdays. Io, da spettatore, non posso che augurarmi di sì perché non è così facile riuscire a richiamare i nomi che il festival torinese ha portato in Italia, perché è bello vedere il pubblico più eterogeneo scatenarsi sotto il palco, perché per tornare a lavoro dopo le ferie del TOdays ho proprio bisogno.

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