A cura di Ilaria Del Boca e Francesco Pattacini.
Foto di Martina Caruso, Irene Francesconi e Francesco Pattacini
Day 1: Spazio 211, Let’s Go!
Correre contro il tempo è diventato lo sport nazionale, soprattutto quando i treni passano, ma nessuno si ferma davanti a noi. Sospiriamo, aspettiamo, guardiamo speranzosi il tabellone degli orari, ma ci sono solo ritardi intermittenti che ci ricordano che le avventure cominciano sempre con gli imprevisti.
Con il cuore in gola, la prima edizione del Todays Festival sta iniziando insieme all’ultimo weekend di agosto e a quel tramonto in bilico sulla campagna fiammeggiante. Fuori dal finestrino c’è già chi, a cento di chilometri di distanza, sta imbracciando una chitarra, scaldando la voce e lottando con la pedaliera, ma noi siamo qui seduti tra vacanzieri demoralizzati e studenti fuorisede addormentati sui libri.
Nel frattempo, mentre supplichiamo mentalmente il macchinista di premere il piede sull’acceleratore, i Monaci del Surf, Titor e Bianco si alternano sul palco dello Spazio 211 che in occasione del Todays apre le porte della sua arena estiva. La scuderia INRI è ancora una volta schierata per tutti i tre giorni di questo festival appena nato, ma attesissimo fin dal primo annuncio.
L’ultima volta che li avevamo visti suonare insieme al Cap10100 in occasione dell’INRI FEST ci eravamo sentiti parte di una grande famiglia in continua espansione e oggi, anche se non siamo ancora presenti, i social network ci raccontano attraverso le prime foto e i video di come Zazzo dei Negazione duetti con i Titor in Motocross o Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione accompagni Bianco in La solitudine perché c’è?
Finalmente arriviamo percorrendo veloci Via Cigna quando i Tv on the Radio stanno già esibendosi per il pubblico del Todays che è acceso e in fibrillazione. Per l’unica data italiana della formazione newyorkese non potevamo chiedere una serata migliore, lo capiamo dai volti abbronzati e distesi di chi urtiamo con la birra in mano. Le note di Careful You profumano d’estate, l’aria è ancora calda nonostante siano passate le ventidue e ora che siamo qui sotto le transenne a goderci lo show veniamo catturati dalla voce di Tunde Adebimpe e non vorremmo che finisse mai di cantare per noi.
Quando partono le prime note di DLZ chiudiamo gli occhi e nel riaprirli sentiamo di avere di fronte non soltanto una band che ha molto da insegnare, ma che attraverso un connubio di generi e sonorità ha il potere di emozionare tutto il pubblico, senza distinzioni di età o di gusti. Vecchi, ma soprattutto nuovi successi, quelli raccolti nell’album Seeds, rimangono impressi nelle orecchie e neanche a notte fonda riusciamo a smettere di ballare nella nostra testa. Parte così la prima serata del Todays, tra corse disperate e ritmi energici e brillanti. (idb)
ToDocks, Tomorrow.
Davvero, forse è colpa nostra. Che siamo cresciuti con certe idee su quello che devono essere i vent’anni e su come li devi vivere e quando ti trovi davanti a situazioni del genere, arrivi a sentirti quasi fuori luogo. Doveva essere una questione di stanzialità, dell’essere presenti perché c’è un evento con un cast interessante, sottolineandola con delle cuffie da silent disco, per chi rimaneva fuori dalle caldissime salette newyorkesi dei Docks Dora. Alla fine erano più oggetti da portare, nel caso non avessi notato che loro c’erano, anche al buio, tu un po’ meno.
Concetto interessante, quello di ascoltare altra musica in una sala diversa, o di fare i puristi sentendola filtrata e solo per te. Pensavamo fosse una questione diversa, la musica, che ci rimanesse ancora un punto di contatto, e forse abbiamo perso pure quello, nell’unica musica che le nostre generazioni ci stanno regalando. Non ti viene nemmeno, però, di guardarli male mentre ti muovi da una stanza all’altra cercando, più che i nomi, qualcuno che suoni davvero. Al blue dock, Yakamoto Kotzuga e Lapalux, due degli artisti su cui avevamo puntato, ci lasciano perplessi. Usually Nowhere suona bene, eccome, ma lo sapevamo già dall’ascolto nelle nostre camerette, in una dimensione live qualcosa di più te lo aspetti, soprattutto se già sai di che cosa è capace. Per Lapalux la questione è la stessa.
Sudano anche loro, da lassù, ma si sente che c’è qualcosa di strano, o quanto meno sospetto, nelle loro esecuzioni. Cambiamo saletta, tralasciando quella più stipata in cui la folla si accalca, con o senza cuffie, mentre il party cittadino, che puoi ascoltare 24×7 durante l’anno torinese, catalizza la maggior parte delle persone. C’è qualcosa che non torna perché anche chi avevamo già sentito non è quello di sempre. Go Dugong, anima e sudore sulla consolle, riempie gli spazi troppo vuoti fra le persone, ma è un distacco quasi incolmabile alle due e mezza di notte.
Fa muovere chi c’è, come fa anche ESKMO, a cui almeno vediamo suonare synth, chiavi e pad, ma che forse non basta. Lasciamo il dubbio, se ci sia qualcosa di extramusicale sotto, magari è solo una serata storta, o siamo solo noi a pretendere troppo, ma dare la colpa alla free entry non ha tanto senso, e non abbiamo abbastanza tempo per accontentarci. Ci perdiamo le esibizioni di Blanck Mass e Clap! Clap! e ci dispiace molto, ma qualcosa lo devi pur lasciare. Potevamo prenderci le cuffie anche noi. A differenza da quello che ti aspetti la sala del Mobbing è forse quella più preparata, con dj di richiamo locale che ti fanno scaldare, perché forse è questo che manca.
Quanto spazio c’era fuori, un po’ te li immagini come sarebbe stato, con una line up sulla carta spaziale, vederteli suonare in un unico posto, a contatto con il pubblico, perché è una carica reciproca quella che fa uscire trasforma le esibizioni, ed è anche creare l’ambiente giusto a fare la differenza. Questione di stimoli, o del fatto che ci si disperde facilmente anche in uno spazio così piccolo ma con tante attrazioni. Lì la bussola la perdi davvero e le scelte, soprattutto in serate così, ti fanno perdere tutto quello che guadagni.
Quando ce ne andiamo, prima che tutto finisca, siamo affamati, e non è solo il conto chimico che ti costringe a diventare una falena attirata dalla prima insegna al neon, ma è proprio che non c’è bastato, e speravamo che non fosse una di quelle serate da occasioni mancate, in cui alla mattina ti trovi davanti al fatto che, ancora, non hai costruito nulla. L’altra faccia della musica elettronica, capace di aprirti al mondo o di rinchiuderti dentro di sé. (fp)
Day 2: Il Festival dei Sold Out.
Dopo la prima giornata di sold out, i palchi del Todays, tanti quante le esigenze del pubblico, tornano circondati da curiosi spettatori intrigati dal fitto programma che gli organizzatori del festival hanno creato per cercare di accontentare un po’ tutti. The Cyborgs, C.O.V, Linea 77 e gli headliner Verdena ancora prima di cominciare a suonare sono già sulla carta un tutto esaurito.
Questa serata, realizzata per un pubblico amante del rock e del punk è fin dagli inizi un ritorno al passato, a partire dal boogie dei Cyborgs che si presentano sul palco rispettivamente alla chitarra e alla batteria con il volto coperto da maschere da saldatore. Chi è stato giovane a Torino negli anni Novanta invece sicuramente non ha potuto dimenticare i Church of Violence, che ritornano dopo più di quindici anni di assenza dalle scene con un nuovo album in uscita in autunno e Indipendentemente, una canzone che già per il titolo non può passare inascoltata.
Il sole è ormai tramontato, mentre le luci stroboscopiche anneriscono i nostri occhi che non hanno bisogno di vedere per riconoscere il sound dei Linea 77 che, per chi come noi ha superato i vent’anni, ci porta subito alle manifestazioni, al liceo e all’adolescenza. Ricordiamo a fatica i titoli delle canzoni di Oh!, l’album uscito a febbraio scorso per INRI, ma sappiamo ancora a memoria i testi di Evoluzione, 666 (Diabulus in Musica) e Fantasma. Pare impossibile non cantare a squarciagola o non lasciarsi condurre dalla vibrante energia di Nitto che salta come se avesse le molle sotto le scarpe.
Per una sera torniamo a dieci anni fa, quando scoprire la musica nelle proprie camerette era affare di pochi. A proposito di rivelazioni e promesse, vent’anni fa si formavano nella provincia bergamasca i Verdena e dopo dieci anni nel 2004 usciva Il suicidio dei samurai che li avrebbe portati nelle cuffie di tanti ascoltatori, tra cui molti di quelli che ancora adesso li seguono. Eppure chi l’avrebbe detto che oggi ci saremmo ritrovati qui di fronte a questo palco ad attendere pensando ai Verdena come alla più importante rock band italiana?
Forse mentre ci iniziavamo a scaldare con Alieni fra di noi, Un po’ esageri e Colle immane, (per chi non lo sapesse il primo singolo estratto da Endkadenz, Vol.2) avremmo voluto tenere stretti i nostri dischi usurati dal tempo e dagli ascolti. Wow ci è scivolato dalle mani e abbiamo cominciato a saltare sulle note di Loniterp che in un crescendo di decibel si è trasformata in Lui gareggia e senza respiro ci siamo ritrovati a osservare le bacchette roteanti di Luca Ferrari alla batteria che anno dopo anno, concerto dopo concerto si trasforma in un mostro di bravura.
Su Scegli me, cori femminili si levano dalla platea e accompagnano la voce di Alberto Ferrari che stranamente non ha ancora apostrofato il fonico di turno con appellativi evocativi. Ma ci sarà tempo, siamo solo all’inizio. Dopo la data precedente ad Asolo in cui il frontman dei Verdena ha deciso di dare spettacolo distruggendo la sua Fender Jaguar eravamo un po’ preoccupati di vederlo arrivare non soltanto con un occhio nero, ma anche a mani vuote.
Sebbene la chitarra per Alberto sia arrivata in tempo per il concerto, la tensione sul palco cresce pezzo dopo pezzo, come l’adrenalina del pubblico, abituato agli atteggiamenti non sempre ammirevoli del cantante e chitarrista bergamasco. Rabbia, lacrime e sudore sono gli ingredienti di questa data che vale ogni secondo e ogni euro speso. E’ sufficiente ascoltare Nevischio o Angie ed emozionarsi o farsi trasportare dalla sequenza Miglioramento, Viba e Muori Delay, più forti di una scossa elettrica.
Con Don Calisto e Funeralus arriviamo al termine di questo spettacolo che ci ha completamente lasciato senza parole. Non capiamo con chi questa volta se la sia presa Alberto, se con il fratello, con Roberta Sammarelli o con l’ennesimo fonico, visti i battibecchi (per dirla con un eufemismo) degli ultimi minuti, ma noi siamo ancora un po’ storditi a causa di questo vortice incontrollabile e non ci interessa neanche più il gossip, perché è di questo che si tratta. I riff, gli arpeggi, le voci e i colpi che ci hanno invece destato questa sera sono la musica che davvero volevamo ascoltare. (idb)
Varvara Festival.
Neanche il tempo per riprendersi dai Verdena che già un altro posto richiede la nostra presenza. Ci mettiamo un po’ di tempo ma alla fine riusciamo ad arrivare all’ex cimitero di San Pietro in Vincoli, che conosciamo bene. Siamo sul filo, da lontano si vedono già le cuffie illuminate per la silent disco, che finiscono in fretta, così da toglierci anche ogni possibile tentazione o cedimento. C’è chi ascolta davvero, c’è chi se le mette davanti agli occhi o soltanto le porta in giro perché sono un must do.
Quando entriamo nel piccolo altare Gondwana sta finendo la sua esibizione, qualcuno si disperde a recuperare ossigeno mentre fuori la fila si fa più grossa. Posti limitati. Fitzpatrick sta accordando il basso, passa un po’ di tempo, tutti aspettano la band, si guardano intorno. Ci sono poche cuffie, almeno lì. Passiamo rapidamente davanti, il sudore ci brucia gli occhi, la macchina del fumo fa il resto. I Portico, appena un anno dopo l’addio di Keir Vine, iniziano a suonare. Brividi, davvero, da solo è capace di riscattare le brutte sensazioni che avevamo provato il giorno prima e di farci chiudere gli occhi, fidandoci della strada sui ci stanno portando. Il modo composto con cui suonano, quasi a non voler disturbare o a dare altri riferimenti che non siano quelli musicali, ci riportano lontano, a casa, di nuovo insieme.
Forse il caldo, forse gli occhi chiusi che ci condensano le emozioni, ci sopraffanno, fino a che, come tutte le magie, non si chiude in se stessa, superando i brani di Living Fields e attingendo al Quartet del passato. Ci sconvolgono, andiamo via una volta che finiscono, questa volta sazi per davvero, senza interessarci di chi c’è attorno a noi o dei loro perché. Noi, i nostri, li abbiamo trovati. (fp)
Day 3: La fine è solo l’inizio
Il tempo scorre fra le dita e noi siamo già arrivati alla terza e conclusiva serata del Todays Festival. Anche oggi ad accompagnarci dal tramonto a notte inoltrata sono i protagonisti scelti da Gianluca Gozzi, direttore artistico del festival e dalla sua crew. Il programma è vario e diversificato dallo Spazio 211 al Museo Ettore Fico, così come dalla Scuola Holden ai Docks Dora e al Ex Cimitero San Pietro in Vincoli. Ogni luogo conserva le emozioni di queste tre giornate, ma il palco principale dello Spazio 211 con il suo prato, i bar e il frinire delle cicale è il posto che preferiamo, anche perché siamo storicamente legati all’evoluzione di questo locale e ai ricordi dei super concerti ai quali ci ha abituato negli anni.
Gli Anthony Laszlo sono i primi a salire sul palco con i loro baffi, i capelli e le chitarre, seguiti da Dardust che ci emoziona e ci ammalia con la sua leggerezza nel toccare i tasti del pianoforte e in un crescendo ci porta a scuotere la testa e a ballare sulle sue note sintetiche e voraci. Il sole è già dietro le Alpi, sorseggiamo una birra mentre Levante, di verde vestita, cattura una nuova fetta di pubblico che la conosce non solo per i tormentoni radiofonici. Accompagnata anche da Gionata Mirai del Teatro degli Orrori e Alessio Sanfilippo dei Nadàr Solo, Claudia Lagona in arte Levante è l’unica donna a calcare questo palco, ma non si fa intimidire di fronte ai suoi colleghi uomini. Energica e magnetica, gode di un’ottima presenza scenica, si disarticola, ammicca al pubblico e tira fuori la sua voce migliore in Le lacrime non macchiano. La serata è però appena cominciata e sappiamo tutti perché ci troviamo qui: gli Interpol. (idb)
#SavePaul
È piuttosto facile immaginare quali possano essere le reazioni del giorno dopo. Se ne parla già del resto, e quando ti ritrovi a essere dall’altra parte non sai mai se sia davvero a torto o ragione. Non serve girarci troppo intorno, e non è tanto una questione di tecnicismi o del criticare giusto perché lo richiedono i nostri tempi.
Il fatto è che il primo cuore a essere crollato in frantumi è stato il nostro, insieme a quello di chi non ballava e che aspettava questo concerto da tempo e non ce la faceva più. Li avevamo visti a Milano quest’inverno, gli Interpol, (qui il live report) e sembrava davvero che potessimo chiudere lì la nostra storia, che eravamo riusciti a bloccarli e imprimerli, e che ogni volta sarebbe stato meglio. Ci sbagliavamo, almeno in parte. Il concerto conclusivo della prima edizione del Todays Festival, sold out da tempo, non è stato un gran arrivederci, ed è un peccato, più per noi che per il festival, che ci può fare poco o nulla. Vogliamo parlare della musica, le voci di sottofondo non ci interessano.
Vorremo potervi parlare del concerto e di come la band newyorkese si muovesse sul palco ma la verità è che non possiamo farlo. Siamo stati costretti a seguire gran parte del concerto con gli occhi a terra, o a spostarci sul lato, molto lontani dal palco, per poter vedere qualcosa, bombardati com’eravamo dai faretti che puntavano ad altezza media. La presenza scenica, per Paul Banks, non è mai stato un fattore irrinunciabile, spesso glaciali, si concentrano sull’esecuzione lasciando alla musica il compito di tenere lo spazio. Oltre a crearci fastidio, e a perdere la concezione dei colori per l’ora e mezza scarsa che hanno suonato, rientra poco o niente nel nostro racconto.
Dopo Levante gli Interpol salgono sul palco, siamo tutti carichi, è la verità, per chiudere l’estate in questo modo. Già dalle prime strofe capiamo però che qualcosa non va. La voce di Paul Banks è strozzata e sembra far fatica a uscire. I pezzi nuovi devono farlo sanguinare, perché non raggiunge la tonalità, come se le tonsille gli stessero esplodendo. Sempre che sia lui, iniziamo a dirci, perché la voce è parecchio diversa. Escludiamo il playback e il fatto che potremmo aver assistito a una nuova leggenda à la Paul McCartney, ma non riusciamo proprio a sbloccarci. E non siamo solo noi.
Quando presi dal caldo, dalle luci e dalla sete ci spostiamo, vediamo che non c’è una carica diffusa, quella che di consuetudine viene generata dall’attesa. Il pubblico è immobile, qualcuno che si muove c’è, ovviamente, ma a differenza di Milano chi resta indietro non cerca di prendersi tutto quello che può. Anche gli smartphone stentano ad alzarsi. Il fatto è che l’esibizione non è nemmeno sufficiente, e fa male dirselo. Non si tratta del compitino, dell’essere a un festival o al fatto che sia solo la prima di quattro date e magari vogliono conservare la voce. Anche il resto della band non va.
Stanchi sono i riff di Kessler, che quando ha l’occasione di prendersi la scena, come tante volte ha fatto a Milano, come trascinato da una necessità di prendersi la propria parte, abbozza più che colpire. La batteria di Fogarino, effettivamente, fa il suo tra tutti, ma poco o nulla. Fare confronti fra live a volte non ha nemmeno senso e, se siamo qui a farlo, è perché c’era qualcosa di profondamente diverso che ci ha lasciato insoddisfatti, forse perché ad alcune certezze non possiamo proprio rinunciare. Addirittura il ritorno sul palco è accolto freddamente, e il loro definitivo addio quasi diventa una benedizione, tanto che quasi nessuno si oppone. Il Todays si conclude qui, e noi non sappiamo che idea farcene, troppe cose strane, troppi dubbi, e poche, davvero sensazioni degne di nota per un festival con delle potenzialità di questo tipo. (fp)
Abbiamo osservato, raccontato e spesso ci siamo emozionati, ma anche arrabbiati. Il bilancio di questa prima edizione del Todays Festival è quello di una kermesse che ha tanta voglia di crescere e di capire le esigenze del suo pubblico. Noi ci siamo fatti trasportare da un luogo all’altro alla ricerca di qualcosa che le nostre orecchie non avessero ancora sentito. Le nostre aspettative erano alte e nonostante ciò siamo ancora riusciti a meravigliarci di come gli organizzatori siano stati in grado di portare tutti questi artisti e tutte queste sonorità a Torino, tra Barriera di Milano e Porta Palazzo. Crediamo che si tratti di un inizio con la I maiuscola e di una possibilità per Torino e per i torinesi di uscire dal guscio e di raccontarsi. Mancava da troppo tempo un festival che investisse sulla città e oggi, forse, a pochi giorni dalla conclusione del Todays, iniziamo a capire che è solo il primo tassello di un puzzle che sta prendendo forma.