Davanti ad una birra si dicono tante fesserie, ma tra queste resiste una piccola percentuale composta da verità incontrovertibili. Qualcuno dà la colpa all’alcol, alla moda tutta hipster di bere l’ultima birra di produzione artigianale che proviene da quel monastero su per i monti laziali. «‘Sta Tre Fontane sa il fatto suo» mi dice un amico con cui sto parlando da circa un’ora delle solite cose che affollano la mente quando si giunge ad un certo momento della sera. Per forza di cose finiamo a parlare di libri, una cosa che sembra legarci ma che in realtà ci tiene molto distanti dal punto di incontro tanto atteso.
Fuori al locale non c’è nessuno. Al contrario, c’è abbastanza vento da consumare tutte le sigarette rimaste nel pacchetto. La temperatura è scesa vertiginosamente, circostanza che ha portato gran parte dei volti noti a trascorrere la serata sotto il caldo delle coperte di pile tigrate. Prima di arrivare alla Tre Fontane – il mio amico ha perseguitato il titolare del locale per oltre un mese –, partiamo da una cosa leggera. «Ricordati che quando si beve della buona birra, non si scende mai» dice il mio amico rivolto verso al ragazzo che ci versa i primi bicchieri. Capisco che si riferisce alla gradazione alcolica, un’usanza che ignoravo fino a quel momento – a dire il vero pensavo fosse solo una delle tattiche da alcolizzato adolescente, però così non sembra. Rido alla sua battuta. Il ragazzo che ci versa la birra aspetta che la schiuma diminuisca il suo volume. Nel frattempo sceglie una playlist di video musicali dal pc che ha alle sue spalle, di fianco alla cassa. Parte un brano che inizialmente stento a riconoscere, poi capisco che si tratta di Hotline Blig di Drake.
Founders, Michigan
La porta del locale si apre. Entrano volti che non conosco – la fisionomia non è il mio forte, anche se ultimamente ne ricordo bene alcuni di loro. La birra si muove ancora. Le bollicine salgono fino all’orlo, per poi svanire in quel poco di schiuma che ne è rimasto. Il titolare e il ragazzo, entrambi dietro al bancone, ci parlano degli ultimi workshop che hanno seguito. Da come ne parlano pare che abbiano preso sul serio questa cosa di servire birre artigianali fino alle cinque e trenta del mattino. Dalle loro parole trasuda competenza – almeno così pare –, proprio come avviene con la schiuma rilasciata dalle migliori birre sistemate su negli scaffali che ci circondano.
La Founders è una di quelle birre che nella mia ignoranza definisco “aromatiche”. Ad ogni sorso avverto il sapore degli agrumi lasciati a macerare durante la produzione. La preferisco più per una questione di provenienza che non di gusto. Fate voi, è americana. Il mio debole per quel pezzo di mondo lo impiego in tutto quello che faccio, compreso questa birra che prendo non appena si presenta l’occasione. Così, io e il mio amico, iniziamo a parlare di Stati Uniti, partendo da quello che non perdiamo tempo a definire pop. Trump, gli ex presidenti e la guerra fredda, la musica. Un giro di battute sul ciuffo biondo lo dovevamo fare obbligatoriamente. Nessuno si sognerebbe di lasciarsi scappare un’occasione del genere.
Beviamo una birra americana che costa molto meno di un’italiana che vediamo esposta sullo scaffale a qualche metro da noi. Lo faccio notare al mio amico. «Semplice, i suoi dazi saranno applicati per le merci in entrata» mi fa dando un lungo sorso al suo bicchiere. Il titolare ci guarda e ride, cosciente della stranezza delle cose. Credo che sia a conoscenza del vero motivo, ma parte con uno di quei discorsi sulle importazioni dall’estero che sappiamo un po’ tutti, sottolineando, tra le tante cose, anche il fattore della tassazione perpetuata dal governo italiano. Il passo dalle importazioni alle storie degli ex presidenti statunitensi e alla Guerra Fredda è abbastanza breve. «Gli americani hanno costruito un intero immaginario sulla Guerra Fredda» esclama il mio amico. Come non dargli torto. Spero solo che non se ne esca con la storia che il conflitto tra i due Stati più potenti al mondo non sia mai finito, altrimenti mi sembrerebbe di essere uscito a prendere una birra con Giulietto Chiesa. Nel frattempo, mentre noi parliamo di vecchie situazioni che sanno di un qualsiasi deodorante per le ascelle in commercio negli anni ottanta, arriva altra gente. Vanno a colpo sicuro, non si perdono in chiacchiere davanti al tabellone in fondo al locale, lì dove sono scritti i nomi delle birre che si vendono alla spina. Il titolare si diverte un sacco a descrivere ogni birra usando aggettivi decisamente corrosivi. Questa cosa l’avrà imparata ad uno di quei workshop che segue mensilmente.
Ormai il contesto lo consente, così tiro fuori il nome di uno scrittore che di quel clima ci ha fatto un patrimonio letterario. Guardo il mio amico e pronuncio lentamente il suo nome: Philip Roth. «Bastardo!» mi risponde.
Bush, Vallonia
Questa volta la ordina lui. Inizio a ridere, chiedendogli il motivo della sua scelta. Stavamo parlando di Guerra Fredda e Philip Roth e lui sceglie una birra con quel nome. «Lascia stare, dobbiamo salire» mi risponde rifacendosi al nostro patto. Il ragazzo apre due bottiglie, lascia cadere il tappo in un secchio per la raccolta dell’alluminio e sistema i sottobicchieri davanti a noi. La Bush è un altra delle birre che preferisco, ma che non bevo sempre. Tutto merito della gradazione alcolica elevata. Però ha un sapore intenso che non smette di attirarmi fin dal primo sorso. Innaffio la testa e il fegato con la sua alta fermentazione. A quel punto, il risvoltino che ho fatto ai jeans diventa l’ultimo dei miei problemi. Aspettiamo che la schiuma si dissolva nell’aria e che la bottiglia venga svuotata completamente nel bicchiere a calice che ho davanti – uno dei bicchieri da birra che più odio.
Nominare Roth in presenza del mio amico è un divertimento assicurato. Lui, lettore non troppo affezionato agli scrittori che passano da Fazio la domenica sera, ha lasciato a metà Ho spostato un comunista (Einaudi, traduzione di Vincenzo Mantovani) senza mai avermi dato una spiegazione conclamata. Glielo avevo prestato agli inizi di settembre, ma qualche giorno dopo è tornato con il libro tra le mani e la faccia sconsolata, quasi triste. Così la nostra concentrazione si sposta tutta sullo scrittore di Newark. Il mio amico conosce bene l’amore spropositato che provo per Lamento di Portnoy (Einaudi, traduzione di Roberto C. Sonaglia). Sa già che se preme sul discorso della mezza sega infiltrata nel mondo accademico finiamo per far notte. Evita subito il confronto sulla grandezza di Roth e di quello che ha scritto – e sul Nobel mai consegnato.
Philip Roth, un uomo dalla schiena letteralmente spezzata – scrive in piedi al computer perché la spina dorsale non gli consente di sedersi –, si ritrova abbandonato a metà di quello che è un romanzo in risposta a quello della sua ex moglie. Di libri abbandonati ne conosco diversi. Di lettori che abbandonano – giustamente – i libri ne conosco diversi. Anche io sono uno di quelli che quando sente il bisogno di lanciare un libro, non ci pensa due volte. Okay, non lo lancio per davvero, ma una volta mi è capitato di farlo. Stavo leggendo un romanzo – mah, diciamo minore seppure di minore non ci sia davvero nulla – di Stephen King, La bambina che amava Tom Gordon (Sperling & Kupfer, traduzione di Tullio Dubner), quando non sono riuscito ad andare oltre la pagina 214 – ho ancora un pezzo di carta a fare da segnalibro. Probabilmente ero in un periodo decisamente no, per questo mi sono ritrovato a chiudere quelle pagine e a scaraventarle sulla scrivania. La noia non è l’unica componente che ha esercitato una certa distrazione nei confronti dell’interesse iniziale che avevo quando ho comprato la mia copia. È che sicuramente non mi aspettavo un romanzo del genere, con i momenti morti tipici di King. Gli stessi momenti che adoro e che ricerco continuamente nella mia disperata selezione di buone letture a cui dedicarmi. Però, nonostante queste premesse, queste prese di coscienza, non sono ancora arrivato a comprendere il vero motivo che c’è dietro a questo mio stupido rifiuto. Niente, era un libro che non faceva per me. Chissà cosa diavolo stavo cercando in quel periodo.
Un po’ la capisco la reazione che ha avuto il mio amico con Philip Roth. Un po’ la capisco questa birra belga che scende in fretta manco fosse una Cenerentola in preda al panico dell’arrivo della mezzanotte. Cara Bush, sei buona e nessuno lo mette in discussione, ma noi come siamo arrivati a parlare di libri abbandonati e dimenticati nel bel mezzo di un venerdì sera? Beh, resta un mistero – almeno per questa sera.
Tre Fontane, Roma
Finita la Bush, finita la mia parentesi Stephen King. Chiedo ancora al mio amico cosa si aspettava da quel libro, ma lui mi risponde girando intorno al vero motivo come una trottola impazzita. Si aspettava qualcosa di diverso, di più crudo, rispetto a quello che si è poi rivelato fino a quella pagina. Per lasciarlo a metà – poco più della metà, in realtà – deve esserci rimasto proprio male. Di solito ci sono quelli che, da grandissimi intenditori di aria fritta, capiscono l’inutilità di proseguire la lettura già dalla prima pagina. Lanciano il libro fuori dalla finestra e niente più. Qualcuno di loro porta la propria copia al Libraccio più vicino, in modo da ricavarci qualcosa.
Lascio scegliere un’ultima birra al mio amico. Intento a passare in rassegna le bottiglie in alto allo scaffale, viene interrotto dal ragazzo dietro al bancone. Lo vediamo aprire il frigorifero alle sue spalle e prendere due bottiglie che non avevo mai visto fino a quel momento. «Stamattina il nostro rappresentante ne aveva quattro. Le ho prese perché me ne avevi parlato tempo fa, ricordi?» dice rivolto al mio amico. Lo stupore nei suoi occhi è chiaro. Sceglie questa birra prodotta da dei monaci in un monastero di Roma. «In questo modo scendiamo» gli dico indicandogli l’etichetta sul retro. «Ma che ce ne frega, questa non ce la possiamo perdere» mi risponde diretto. A lasciare a metà un libro non ci ha pensato su due volte, a stracciare un patto sulla gradazione alcolica nemmeno mezza.
Mentre il ragazzo ci versa questa Tre Fontane dentro dei nuovi bicchieri a calice – ancora! –, si sofferma sulla particolarità degli aromi utilizzati dai monaci durante la produzione. «C’è l’eucalipto, non si scherza» sottolinea con fare da vero intenditore. Beh, non ci sono dubbi sul fatto che il suo mestiere lo sappia condurre tranquillamente, però una birra all’aroma di eucalipto mi attira parecchio. Sarò uno di quei classici fessi a cui rifilare di tutto. Ripensando alla scelta iniziale, ovvero alla birra con cui aprire la nostra serata, mi sorprende molto la geografia che abbiamo intrapreso. Fossi stato solo avrei scelto sicuramente di rimanere dall’altra parte dell’oceano, c’è poco da aggiungere. Avvicinando il naso al bicchiere, avverto un profumo spettacolare. Il mio olfatto guida l’immaginazione per i meandri di una strada tutta in discesa. «Miseria» esclamo guardando il ragazzo che sfoggia tutta la sua soddisfazione attraverso un sorriso a quaranta denti. È il tipico sorriso che ti mostra chi ha saputo offrirti la cosa migliore che aveva a disposizione. Credo di aver assunto la stessa espressione quando feci conoscere Philip Roth al mio amico con alcuni dei romanzi che ho nella libreria.
Eppure, caro Philip, siamo stati fregati entrambi allo stesso modo. Quella che inizialmente si era rivelata una birra interessante, ha finito per lasciarmi un retrogusto di patate al forno – cari monaci, cosa diavolo ci buttate dentro, la monaca di Monza con tutta la sua cucina? Il mio amico invece no, l’ha elogiata per tutto il resto della serata. Certo, venivo da un intruglio di sapori che avevano invaso la mia bocca fino a creare la base per un palato scarsissimo nella percezione dei gusti, però sono convinto che gli darò un’altra chance. A distanza di sei anni, farò la stessa cosa con La bambina che amava Tom Gordon. A questo punto spero che anche il mio amico dedichi un’altra possibilità a Ho sposato un comunista. Vorrei poter riassumere quel tipico sorriso a quaranta denti da buon venditore che ha appena concluso uno dei suoi tanti affari.