JEFF
Il Sin-è è un buco, un live club di pochi metri quadrati, senza palco, dove si suona in piedi, attaccati al muro, con le scarpe tra i cavi e l’amplificatore, senza spazio per dimenarsi dietro gli accordi da prendere sulla chitarra. La prima fila è lì davanti, a poco più di un respiro dalle canzoni. Intorno, il rumore dei bicchieri e il chiacchiericcio creano uno strato, quasi solido, ma impalpabile, su cui galleggiano fumo, colori e riflessi. Da un po’ di tempo, un passaparola crescente, porta lì sempre più gente. Molti non riescono a entrare e si accontentano di stare sulla soglia o addirittura all’esterno del bar, pur di cogliere un accordo, una frase, un frammento del concerto di un ragazzo che si dice sia davvero forte, con un’estensione vocale da brividi e delle canzoni importanti da suonare. Si chiama Jeff, e in quel posto dell’East Village di New York, ci suona ogni lunedi, ci ha addirittura registrato il suo primo demo (live at Sin-è 1993). Chi lo vede, chi lo ascolta, sa che è destinato a una folla ben più ampia. Gli addetti ai lavori cominciano a seguirlo, cercano di intervistarlo, ma non è così facile, è sfuggente. I giornalisti non hanno molto da scrivere, intuiscono un radioso futuro ma hanno bisogno di sapere di più della sua vita, dei suoi pensieri, per scrivere una storia. Un giornalista più di tutti insiste, non molla, prende il telefono, lo chiama a casa, e riesce a fissare un appuntamento informale, in un bar. Jeff non si presenta. David Browne, il giornalista, è determinato e chiede un nuovo incontro. Stavolta i due si trovano, sono seduti uno di fronte all’altro e David non perde tempo.
“Posso prendere appunti?” chiede.
Jeff annuisce, e assalito da un dubbio continua a fissare Browne che prepara il taccuino. “Posso farti prima una domanda io?”
“Certo” risponde incuriosito il reporter.
“Non parleremo di mio padre vero? Perché se è cosi vado via ora”.
TIM
Tim suona già il banjo quando si rompe due dita facendo il quarterback nella squadra di football della scuola. Quelle due dita non torneranno mai completamente a posto, e certe note sugli strumenti a corde non le riuscirà più a prendere. In quella scuola non trova solo la frattura alla mano, ma anche la sua futura moglie, da cui avrà un figlio, che non vedrà quasi mai. Tim è un musicista imprevedibile e in quanto tale unico. È un funambolo, di quelli che camminano sulle corde con tutto il mondo sotto. Sa mantenere l’equilibrio, ma spesso non sa dove sta andando. Eppure quell’equilibrio è il segreto della sua arte. Conserva le radici folk e blues, ma prende alla lettera il significato della psichedelia, come propensione alla dilatazione, nel suo caso, dell’anima ancor prima che della mente, e la mescola con l’attitudine del free-jazz, con l’improvvisazione, con quell’equilibrio che come sulla fune punta tutto sul passo successivo senza ancora preoccuparsi di quello dopo. La voce, quella con cui non ha quasi mai trovato il modo di parlare col figlio, genera trasmissioni sonore pazzesche che la avvicinano a uno strumento, e in quanto tale, negli anni lo esplora e lo perfeziona. La sua musica in soli dieci anni, si evolve, corre come solo pochi grandi hanno saputo fare in cosi poco tempo. Sì perchè Tim muore presto, a 28 anni, scivolando giù da quella fune che non ha saputo artigliare in tempo per salvarsi, annebbiato dalla troppa eroina, che il suo animo tormentato, non è riuscito a respingere.
“Long afloat on shipless oceans / I did all my best to smile” – “Song to the Siren”
“A lungo a galla su oceani senza navi / Ho fatto del mio meglio per sorridere”
JEFF
In quei dieci anni che Tim scrive la sua storia musicale, Jeff diventa un ragazzino. Soffre di questo rapporto mancato, e il vuoto rimane tale per molto tempo. Le cose cambiano leggermente quando Jeff suona al concerto organizzato in memoria di Tim. Canta alcune canzoni tra cui I Never Asked To Be Your Mountain che pare fosse stata scritta per lui e la mamma. “Finalmente ho potuto salutarlo”, disse scendendo dal palco. Proprio con quel concerto, in tanti si resero conto che Jeff poteva avere una vita artistica propria. Scrive le prime canzoni, si fa notare al Sin-è, e strappa un contratto importante. Esordisce con l’album Grace. Musicisti impotanti si accorgono di lui e manifestano apprezzamenti sinceri. Robert Plant e Jimmi Page dei Led Zeppelin dicono del suo lavoro “disco preferito del decennio”, a loro fa eco Bob Dylan “uno dei più grandi compositori del decennio”, e David Bowie include Grace nei dieci soli dischi da portarsi su un’isola deserta. Tuttavia il riscontro commerciale non rispecchia le aspettative fissate dalla major, sebbene avesse sfiorato il milione di copie vendute. Jeff si prepara al secondo disco, vuole sonorità più dure, e la ricerca di una maggiore tranquillità per comporre e provare con i suoi musicisti.
Una canzone blues canticchiata a ridosso delle acque del fiume Mississippi non è una novità. A sussurrare Whola Lotta Love dei Led Zeppelin è Jeff Buckley, mentre entra nelle acque del River Wolf (un affluente del Mississippi ), nei pressi di Memphis, per fare un bagno. È in viaggio in furgone, con gli strumenti e la sua band, in direzione dello studio di registrazione per finire il lavoro. In quel fiume si era già tuffato altre volte, lo conosceva bene al punto che non tirò via gli stivali per entrarci. È la sera del 29 maggio del 1997, è buio, e mentre nuota non si rende conto che proprio in quel momento un battello solca il letto di quello stesso fiume. Il passaggio è fatale a Jeff, che viene risucchiato dalle acque probabilmente appesantito da quegli stivali. Il suo corpo viene ritrovato alcuni giorni dopo, trascinato altrove dalla corrente. Muore a poco più di trent’anni, qualcuno più di Tim. I funerali si tennero nella stessa chiesa di Brooklyn in cui suonò per il padre.
“Nessun giallo” dice la mamma “È stato un incidente, abbiamo un testimone oculare e il verbale di come sono andati i fatti. Jeff era lucido e in piena forma fisica e mentale”, storia chiusa. Resta aperta invece quella musicale, gli album pubblicati postumi, non fecero altro che confermare che gli artisti in quella famiglia erano due. O forse non era proprio una famiglia, ma gli artisti restano comunque due.
“Jeff Buckley era una goccia pura in un oceano di rumore.” BonoVox (U2)
I saw the light fade from the sky / On the wind I heard a sigh. “ The Last Goodbye”
“Ho visto la luce sbiadire dal cielo / Al vento ho sentito un sospiro”