Centinaia di anni di cattolicesimo militante per l’umanità nelle circa 64.000 chiese italiane, sono serviti solo a tramandare tradizioni stanche come: siediti, ascolta, alzati, prega, inginocchiati al signore, non distrarti durante la predica e canta insieme al coro della chiesa. Quando entriamo in una chiesa oggi tornano in mente per forza di cose questi rituali, anche se magari abbiamo scelto di abbandonarli progressivamente, e insieme alla serie di riti torna in mente anche la fatica di essere nati in un paese cattolico con tutto quello che ne consegue: immagini sacre che somigliano più a flagellazioni di corpi che celebrazioni di vita, e tutta la sequela di divieti connessi allo ”stare in chiesa” (non alzarti quando sono tutti seduti, non mangiarci dentro – eccezion fatta per l’ostia, non toccare l’altare – che è riservato a dio e al prete, al massimo ai chierichetti). La Basilica di San Giovanni Maggiore è una chiesa nel cuore di Napoli, in origine tempio pagano, poi convertito a Cristo in onore del maestro dei battesimi, San Giovanni Battista. Restaurata dall’Ordine degli Ingegneri di Napoli riapre nel 2012, e oggi si apre ad esperienze diverse da quella del rituale della messa, e di tutti i sacramenti connessi. Del resto i cori di bambini e donne cattolici sparsi in tutte le chiese italiane sono un po’ uno spreco considerate le potenzialità di una chiesa e delle sue volte di far risuonare la musica. Il chitarrista di riferimento che accompagna i cori spesso intona canzoncine un po’ blande, così che a volte preferisci il suono dell’organo: massimo esponente della musica clericale d’ambient.
Probabilmente attratto dall’alienante esperienza di ascoltare elettronica dentro un posto che siamo abituati (come in un’ossessiva tradizione) a considerare sacro, il pubblico di Tim Hecker (che suonava nella Basilica di San Giovanni Maggiore) era numeroso. A un tratto ti chiedevi, ma davvero c’è tutta questa gente che va ai concerti a Napoli?dove si nasconde in genere? O è il pubblico delle messe tout court che ha affollato il live di Hecker? Non avendo nessuna risposta certa non resta che pensare che l’evento in sé è diventato il vero catalizzatore di pubblico. Tim Hecker è un produttore di musica elettronica canadese, per tutti gli anni Duemila ha pubblicato album a cadenze regolari che sono sempre stati molto apprezzati (persino dalla Sacra Corona Riunita di Pitchfork, che in genere coccola qualcuno per un numero tot di anni e poi lo riporta nel limbo). Tim Hecker vuol dire drone music, genere che in un certo senso affonda le sue radici più noise nelle ripetizioni sonore di John Cale dei Velvet Underground (l’uomo che con una sola nota faceva un rumore titanico). Ravedeath, 1972 è uno dei dischi più consacrati dell’ultimo decennio, ed è un disco a firma Tim Hecker. Insomma il nome diventava già un’attrazione sia se lo si conosceva appena, sia se si approfondiva l’ascolto dell’ultimo album Virgins. I toni monocorde della musica di Hecker non potevano che venire fuori esaltati dentro una chiesa. D’altro canto, l’esperienza concreta di ascoltare qualcosa che sembrava ancora profano come l’elettronica (per quanto drone e minimal) in chiesa diventava un’occasione ghiotta per Napoli. E infatti non c’erano solo appassionati di musica, ma anche curiosi e casuali: che poi è il bello di un evento riuscire ad attrarre.
La consacrazione che si fa concerto ha inizio con il live di apertura di Dave Saved (lo troverete anche al Club to Club 2014), in uno scenario dai sottintesi scary, in cui gli strumenti sono montati davanti all’altare, il cristo crocefisso si staglia appena dietro di lui insieme alle sedie vuote riservate ai missionari di dio, e una nuvola di fumo ci culla insieme ai sound di Davide Salvati, napoletano che ha registrato con i londinesi Astro:Dynamics. La cosa divertente dei sound di Dave Saved è il loro incastrarsi perfettamente nella scena del profano: meditazioni a colpi di rumori che ricordano la lezione di James Holden.
Il passaggio di consegne con l’atteso Hecker avviene nel giro di qualche minuto di attesa: le luci si chiudono, per espressa volontà dell’artista, e non vedi altro che buio e folla seduta, come in un deja-vu di ricordi d’infanzia che ripete ”stai seduto e non scappare”. Tim Hecker vuole essere inquietante ripetendo ossessivamente musica che ricalca quella dei vecchi organi clericali, intarsiati da sound drone e rumori corrosivi, rigorosamente al buio, vietando foto e flash che disturberebbero la performance. C’è una precisa scelta di campo in questo, che ti fa pensare che da un momento all’altro verrà fuori dalla folla anche il gobbo di Notre Dame a urlare qualcosa al pubblico. Hecker vuole spaventare, e creare associazioni libere di immagini: ma il suo ambient monocorde asseconda di più al relax di star seduti e alienati nel centro preciso di un luogo di culto, che al compimento della perfetta dissacrazione. Le due Stigmata di Virgins si fissano in testa come aleatori viaggi di ripetizione dei sound, che in un certo senso assomigliano al culto della ripetizione della tradizione cattolica. Ma per fortuna nessuno leggerà il Vangelo secondo Matteo. Probabilmente memori di certi ricordi oscuri che a volte s’attanagliano nella mente, non tutti resistono all’interezza del live: del resto si sa che l’abbandono delle chiese è per gran parte colpa della birra e del tabacco.
Ma tutti son d’accordo sulla straordinarietà di un’esperienza che si rivela totalitaria, probabilmente più vicina a una sensibilità orientale di annullamento dell’io (una sorta di yoga prêt-à–porter) che occidentale. Hecker in quel che fa è davvero bravo, e ci regala una perfomance che Napoli in fondo (visto il numero di pubblico) stava aspettando di vedere.