How to Reappear, Incompletely: Thom Yorke e una questione di solitudine

Thom Yorke live

Il buon vecchio music business come lo abbiamo conosciuto da decenni ormai attraversa una lenta, dolorosa agonia, fatta di alti e bassi, senza particolari picchi, ma con un trend in graduale peggioramento. Tu chiamala, se vuoi, tecnologia terminale e, soprattutto, togliti dalla testa che la guarisca il “ritorno del vinile”. La buona notizia (in realtà è pessima, ma con questi chiari di luna l’ottica apparentemente privilegiata di quelli che “mal comune, mezzo gaudio” è l’unica che sembra capace di farti passare la nottata) è che è in ottima compagnia: teatri storici, librerie a conduzione familiare, cinema mono-sala, gallerie d’arte sono ormai diventati — afflitti dallo stesso morbo (o comunque da diverse patologie dello stesso ceppo) — invalidi permanenti, invischiati in quel limbo che ti impedisce di andare sia avanti che indietro, ben lontani tanto da un pieno recupero delle forze quanto da un liberatorio, effettivo decesso certificato.

Riassumendo il tutto in un brevissimo manuale di “Terminal Technology for Dummies”, diciamo che uno spettacolo alla Scala ormai difficilmente avrà la stessa rilevanza culturale (in termini di — chiedo perdono — engagement) di una serie TV vista su Netflix da milioni di spettatori in giro per il mondo, così come i tuoi amici su un qualunque social network preferiscono scrollare vorticosamente una slot machine di status update piuttosto che sfogliare con calma le pagine di un libro. Anche l’idea di dipingere l’oceano così come ce lo racconta chi l’ha visto davvero rimane indubbiamente affascinante, ma lo era forse di più prima che a raccontarcelo fosse un feed di Instagram o comunque di poter prenotare direttamente un volo low-cost per i Caraibi e andarlo a fotografare dal vivo. E poi postarlo su Instagram, s’intende.

È un brutto discorso da vecchi, lo so. Ma l’età media dei volti che vedo affacciati ai palchetti incorniciati di legno intarsiato è confortante, in questo senso, e per una volta mi lascia meno rimorsi nel momento in cui mi prendo il lusso di abbandonarmi a pensieri così deludentemente reazionari.

Quando è successo tutto questo? Quand’è che tutto ha iniziato ad andare ufficialmente in vacca (in realtà c’è un’intera, ben nutrita fazione che sostiene con immenso sollievo sia stata invece una necessaria evoluzione della specie, ma, visto il livello del dibattito, l’ottica passivo-aggressiva di quelli che “si stava meglio quando si stava peggio” è l’unica che sembra capace di farti partecipare alla discussione da protagonista) e abbiamo superato il punto di non ritorno? Vai a sapere. Come per la sparizione (e la successiva ricomparsa, dopo che si erano fatte crescere la barba e cambiato il grembiule con uno più vintage con su scritto “gourmet”) delle sagome dei camerieri fuori dai ristoranti, non son cose che avvengono in una data precisa. In ambito musicale è uso comune piazzare la bandierina agli albori del nuovo millennio e chiamare in causa Napster: da un lato perché quella rivoluzione è stata sul serio, a modo suo, epocale, dall’altro perché dare la colpa a chi non c’è più (non vorrete mica chiamare questo sul serio Napster, vero?) risulta statisticamente lo sport più praticato nei secoli dei secoli — non costa nulla, minimizza il rischio infortuni e, se lo fai mentre corri, magari butti giù anche un paio di chili.

La verità è che Internet e il suo corollario di peer-to-peer e file sharing hanno semplicemente ribaltato il tavolo della trattativa ribadendo l’ovvio: cioè che la gente, mediamente, preferisce non pagare quello che può avere gratis. Qualcuno l’ha presa peggio di altri (per dire, i Metallica e la loro credibilità, ancora si leccano le ferite della loro guerra senza quartiere al download illegale — e ok, il fatto di non aver imbroccato un disco decente negli ultimi venti anni non li ha aiutati, in questo senso), qualcun altro (gruppi minori, almeno se parliamo di vendite) si è fatto due conti in tasca e ha iniziato a regalare i dischi sperando che un po’ di gente, dopo averli ascoltati, pagasse per vederli live, qualcun’altro ancora si è inventato — appunto — il “ritorno del vinile” con in allegato un codice di download per gli mp3 e ora racconta alla sua ballotta di aver rimesso in moto l’economia.

I Radiohead — comunque vogliate chiamarli: furbi, idealisti, paraculi, visionari — pochi anni dopo, hanno scritto tutto un loro capitolo a parte sull’argomento, entrando a gamba tesa sulle caviglie del rinnovamento, mentre tendevano ai loro stessi fan una specie di imboscata mascherata da sondaggio all’uscita dal supermercato. Il successo al botteghino di In Rainbows, nonostante il provocatorio metodo di autofinanziamento — pay what you want — da un lato ha fatto sì che la mossa passasse alla storia come uno dei più grossi “vaffanculo” di sempre all’indirizzo dell’industria discografica, dall’altro ha messo in secondo piano la vera portata innovativa della domanda posta (un brutale “quanto vale, secondo voi, la nostra musica?” buttato là nel momento più delicato, ovvero non in mezzo a una conversazione fine a se stessa, annoiata in un salotto accademico, ma bensì nell’esatto istante in cui stai mettendo mano al portafogli). Thom Yorke in particolare, è tornato più volte sulla questione — con alterni risultati in termini di consenso popolare, ma una sua certa ondivaga coerenza — già a partire dai tempi di Hail to the Thief (quando, a conclusione del loro contratto quinquennale con la EMI, confessava che sì, quelli dell’etichetta erano tutti bravi ragazzi, simpatici e buoni per una birretta al pub, ma che gli dava una forma di strano, perverso gusto il poter mandare finalmente a quel paese un modello di business che ormai era assimilabile a un morto che camminava), per passare poi a combattere i mulini a vento nella ben nota campagna contro Spotify e infine riuscendo in quello che a tutti gli effetti è stato il primo ossimoro concettuale ad andare a trovare una zona grigia di terreno comune tra l’ecommerce e la pirateria, ovvero venderti un disco tramite BitTorrent.

Questo romanzetto breve solo per giustificare il senso di leggero straniamento che mi frulla in testa mentre baratto la mia mail di TicketOne (già a sua volta precedentemente barattata con un mutuo — grazie a Dio, visti i tempi che corrono, a tasso fisso — del valore complessivo di 341.64 euro, comprensivi di IVA e diritti di prevendita — tu chiamalo, se vuoi, pay what they want) con le quattro poltrone centrali della fila S del Teatro Verdi di Firenze. Nel senso, sarà che nelle ultime settimane sono nati e crepati almeno tre governi del cambiamento, ma l’idea che il conclamato paladino della connessione diretta (in termini di transazione monetaria) tra artista e pubblico faccia il suo take over di un monumento storico alla separazione (di diderotiana memoria) tra attore e spettatori, mi suona romanticamente surreale come un golpe al contrario, ultimo, bellissimo, disperato tentativo di fermare l’emorragia di quella tecnologia terminale di cui sopra con una trasfusione di linfa vitale tra ambienti un tempo non comunicanti, in un gioco di contrasti potenzialmente unico.

Deve essersi ritrovato di fronte alla stessa incertezza anche lo stagista addetto a categorizzare gli eventi del programma del più grande “teatro all’italiana” della Toscana, visto che — almeno a leggere la brochure che mi danno all’ingresso — quello di oggi finisce dritto nel bidone dell’indifferenziata (vedi alla voce “Pop / Rock / Jazz”) in compagnia di Massimo Ranieri, e pure gli organizzatori — forse per accentuare il contrasto con i suoni sintetici e futuribili che andremo ad ascoltare — hanno pensato bene di ricreare la stessa atmosfera dell’inaugurazione, almeno a livello termodinamico. Era il 1854, l’opera scelta per l’occasione il Rigoletto di Verdi e, come allora, anche stasera sembra non esserci traccia di condizionamento dell’aria, così che i 30 gradi abbondanti di un’estate fiorentina arrivata con largo anticipo vengono opportunamente amplificati, all’interno della sala, dall’effetto “bue & asinello” applicato a un sold out di 1500 persone.

Domani, a Milano, andrà meglio, ogni cosa tornerà non solo in its right place (ovvero nei consueti binari della club culture del Fabrique) ma anche sotto le medie stagionali di temperatura (“Standing, rail and proper air-conditioning: now we’re talking.” — citazione da uno status a caso della mia filter bubble di Facebook, che, non so bene il motivo — forse per una mia tendenza masochista a circondarmi di persone che mi facciano costantemente rosicare — è piena di gente che si è fatta la combo delle due date italiane), ma per adesso tocca ammettere che non potrebbe esserci opening act migliore di quello scelto, per continuare sulla falsariga tematica della serata e fare appunto da trait d’union tra antico e moderno, tra tecnologia e tradizione, tra digitale e analogico.

Oliver Coates ha l’aria del secchioncello timido a cui è impossibile non voler bene, e in effetti si conferma entrambe le cose: musicista classico dal talento indiscutibile (laureato alla Royal Academy of Music con il voto più alto della storia dell’istituto), fa la sua apparizione cauto, dice un paio di parole e si siede, illuminato solo da due LED verticali, a presentare il suo set, mentre buona parte della gente, in platea, non riesce nemmeno per una sola, speciale sera a rinunciare alla brutta abitudine di arrivare oltre la presunta ora di inizio e, armata di torce dell’iPhone, cerca il proprio posto nel buio, come uno branco impazzito di strani, maleducati animaletti disorientati, a metà tra formiche che non ritrovano la lanterna e lucciole che han perso la bussola. «I’m gonna play some techno with my cello.» — messa così pare un’eresia, ma Coates — forte del suo concetto di deep minimalism applicata a uno strumento ad arco (distorsioni, sampling e rework di suoni da orchestra frantumati in un panorama che richiama tanto i deserti automatizzati degli Autechre quanto le scorribande disco-avanguardiste di Arthur Russell) — è veramente uno dei pochi che può dichiararsi a suo agio sia come spalla di due smanettoni del laptop come l’ultimo Thom Yorke e il fido Nigel Godrich che seduto sul palco di un teatro di metà Ottocento, forse l’unico che trova la sua ragion d’essere proprio quando le due cose avvengono contemporaneamente. Certo stupisce meno, il tutto, se si pensa che il compositore inglese collabora da tempo alla colonne sonore di Jonny Greenwood e — in quanto membro della London Contemporary Orchestra — è stato colonna portante di tutto A Moon Shaped Pool, mettendo del suo nell’ideare la linea ritmica di Burn The Witch (ottenuta suonando — colpendo credo sia il termine esatto — appunto i violoncelli con un plettro) e gli arrangiamenti di Daydreaming (che Yorke stesso ha definito «the sound of the album»).

Visto il suo setup — che definire minimal è un eufemismo — il cambio palco è relativamente veloce: tre tavoli a T in simil legno che sembrano usciti da un loft del Fuorisalone, un pianoforte elettrico appoggiato in disparte e cinque pannelli giganteschi a fare da tavolozza sullo sfondo, trasformano lo spazio oltre il sipario in una specie di sala comandi dell’Enterprise arredata da un designer d’interni svedese, preparando il campo all’ingresso trionfale del frontman dei Radiohead, di quello che ormai è da anni il sesto membro della band e della new entry Tarik Barri, audio/visual designer olandese, mago assoluto quando si tratta di andare a pescare nel torbido, sottovalutato campo dell’arte nerd per trasformare parole misteriose come MAX/MSP/Jitter in goduria per gli occhi. Proprio lui, col senno di poi, sarà il vero valore aggiunto, la reale sorpresa della serata, e non a caso infatti occupa sul palco una postazione identica ai due compagni — invece che il classico posticino accanto al mixer audio in cui di solito sono relegati i suoi colleghi — come a sottolineare che qui è a tutti gli effetti il terzo, imprescindibile elemento della formazione, con un compito ben preciso quanto fondamentale: progettare pitture digitali, sincronizzarle in tempo reale e proiettarle — a rendere la musica qualcosa di ancor più pastoso e denso e la percezione dell’insieme come un’esperienza sensoriale completa — indistintamente su sfondo, musicisti e immaginario del pubblico, mischiando il tutto in una serie di pennellate elettriche di un’intensità così rara da non meritare di venir abbandonate a un tratto da uno dei maxi-schermi che, anche se solo per pochi secondi e a intervalli (ir)regolari, preferisce loro un uniforme blu elettrico d’altri tempi (databile più o meno intorno all’epoca aurea di Windows 95 — Pantone 072c).

Interference — forse una delle migliori canzoni della carriera solista di Thom Yorke — è un’apertura fuorviante, con il suo intreccio delicato di pianoforte e falsetto sopra un tappeto di rumori innocui quasi privo di beat. Ci fa, per pochi minuti, tornare a intravedere il vecchio personaggio che per anni si è parato davanti ai nostri occhi: un genio traumatizzato, un asociale ossessionato dalla giustizia sociale, un brontolone visionario, un predicatore dell’alienazione. In altri termini, una figura simbolica e distaccata — la figura che abbiamo voluto vedere, perché comunque, in un mondo in cui cambiare è la normalità, ci faceva comodo rappresentare un artista che ha sempre alternato con un certo, ben preciso criterio i bersagli (prima la tecnologia, poi l’industria discografica, quindi le tematiche ambientali ed ecologiche… what else?) del proprio interesse, come un’icona dal significato cristallizzato, un trofeo imbalsamato da appendere sopra l’immaginario caminetto della critica musicale di questo nuovo secolo. Non cercavamo le risposte, ci bastava crogiolarsi nelle domande. E Thom Yorke le domande ce le ha poste tutte, una dietro l’altra. Quale può mai essere il nostro messaggio se i media che ormai abbiamo scelto per veicolarlo sono solo sottili membrane trasparenti attraverso cui tutti vedono tutto? Cosa c’è rimasto da dire quando ormai dire è facile e istantaneo quanto pensare? Come dobbiamo raccontare il nostro vivere nel momento in cui le tecnologie che abbiamo creato per semplificarlo ormai vivono vite più interessanti delle nostre? Poi è andata che abbiamo scoperto che anche il tizio che così testardamente aveva provato a fronteggiare quella mitologia capitalista che trasforma prima i cantanti in eroi e poi gli eroi in forzature virali, poteva ballare con una bombetta in testa come solo un meme sa fare. Poi è andata che ci siamo scoperti a sorridere, battendo il tempo con il piedino. Poi è andata che ci è piaciuto.

Perché Thom Yorke balla: questo è quello che fa adesso. Ti balla addosso attraverso le finestre di YouTube, balla in loop infiniti dentro le infinite gif sparse come il napalm la mattina presto sopra le foreste di Tumblr, balla in mezzo alle arene da ottantamila persone, dentro DJset mixati male su Soundcloud, sopra i carri delle marce di Greenpeace, al centro di teatri in precedenza bagnati al massimo dalle acque de Il Lago dei Cigni. E quando Thom Yorke balla, quando lo vedi che — indipendentemente dal risultato estetico che probabilmente farebbe inorridire anche la peggiore insegnante di danza — davvero sente la musica, è come se il mondo volesse ballare con lui. Perché lo sfacciato atteggiamento DGAF che accompagna i suoi movimenti epilettici, i suoi cambi di rotazione del bacino, la sua spina dorsale che si dibatte senza sosta eppure senza spezzarsi, sono — a tutti gli effetti — contagiosi, anche se, quando hai il culo piantato su una poltroncina di velluto rosso neobarocco, ti pare più opportuno ballare dentro.

E allora finisci a ballare dentro mentre lui balla fuori, per un’ora e mezzo abbondante, anche se non sai mica bene come ballarli questi nuovi arrangiamenti strani, ancora più sperimentali, a tratti dissonanti ma mai quanto basta per essere disturbanti, che sembrano arrivare dalle lezioni prese più dai Modeselktor che da Burial, più da Flying Lotus che da Mark Pritchard (giusto per citare alcune delle innumerevoli collaborazioni che l’ex-ragazzo di Oxford si è concesso nel corso degli anni). Si spazia così equamente tra The Eraser (Black Swan, The Clock) e Tomorrow’s Modern Boxes (Pink Section, Nose Grows Some), affacciandosi per qualche episodio nelle stanze di Amok e sulle passerelle di Rag & Bone (Twist/Saturdays), senza dimenticare di disseminare qua e là non pochi inediti (Impossible Knots, I Am A Very Rude Person, Traffic) che sembrano confermare i rumor relativi a un’imminente terzo album. Ogni pezzo minaccia costantemente di disintegrarsi sotto il peso del suo stesso reinventarsi, ma è un limite sull’equilibrio del quale il Thom Yorke solista ha sempre avuto piacere di giocare, costantemente più attento alla texture che alla struttura della canzone vera e propria e con all’orizzonte l’obiettivo — non sempre perfettamente a fuoco, ma ben chiaro in testa — di spingere il proprio talento fino (possibilmente oltre) certi estremi non necessariamente confortevoli.

Funziona alla grande, almeno finché ogni ingranaggio si incastra come previsto, finché ogni beat trova un compagno da rincorrere, finchè ogni rotella gira per il verso giusto. Finché le macchine fanno il loro dovere e i computer sono OK, verrebbe da dire. Ma sarebbe un ingenuo errore di prospettiva, perché la poetica stessa del musicista inglese ci insegna che le macchine fanno sempre il loro dovere, che i computer sono sempre OK, soprattutto quando lasciano a una salvifica variabile umana quel poco di spazio necessario per distinguere un passivo, perfetto esecutore dal gladiatore stanco che abbiamo imparato ad amare, un combattente in gabbia per il quale sopravvivere è una vittoria e il fallimento un retroscena inevitabile, l’unica cosa veramente spendibile quando la mattina ti guardi allo specchio. Anche tuo malgrado. Anche nell’errore. Anche grazie a l’errore.

Non so, forse mi sbaglio — dopotutto stiamo parlando di un tizio con venticinque anni di carriera alle spalle e millemila palchi sotto le scarpe — ma la vaga impressione è che sia più nervoso del solito: magari sono le incertezze di una prima data del tour preparata con meno meticolosità del solito per una qualunque serie di cause di forza maggiore, magari è la location inusuale, magari è l’affetto che lo lega da sempre al capoluogo toscano (fin dall’alba dei tempi in cui la ex-moglie studiava all’Accademia di Belle Arti, per passare al leggendario concerto del ‘94 all’Auditorium Flog davanti a venti persone, fino ad arrivare a un’altrettanto mitologica — quando non documentata — sindrome di Stendhal con annesso svenimento davanti alla Primavera del Botticelli agli Uffizi), ma se non vogliamo parlare di ansia da prestazione, diciamo che aleggia — almeno a un certo punto — una certa inquietudine poco equilibrata. Qualche accenno disfunzionale da parte del setup elettronico — un loop fuori posto, un livello sballato, un errore veniale di Nigel — viene drammatizzato in una bizzetta non molto professionale che porta i tre ad abbandonare una potenzialmente splendida Cymbal Rush quasi a metà (il suo campionamento lasciato a fluttuare nel vuoto come uno strappo di vestito impigliato a un ramo in una giornata di vento ancora grida vendetta) e il palco in tutta fretta. I bei tempi (relativamente recenti, tra l’altro) degli scherzetti ironici con il grande assente Jonny, durante i quali una sana, vicendevole presa per il culo risolveva situazioni del genere, sembrano lontani — per un attimo — anni luce.

Domani, a Milano, andrà meglio, la perfezione tornerà rassicurante al centro del discorso e parleremo di nuovo di incanto e mistero, come nei migliori episodi inediti di 007. Stasera il tutto viene — senza troppo successo — spacciato per una pausa e i tre pezzi successivi (che seguono la ricomparsa on stage dei protagonisti, le scuse imbarazzate e gli applausi sinceri, equamente attribuibili a un necessario, lodevole incoraggiamento così come a una forma di rimozione sentimentale del tipo “occhio non vede / orecchio non sente / cuore non duole”) per i classici bis. Il primo — quasi a compensare l’inciampo — è un’anteprima live assoluta: The Axe — tutto torna, alla fine — inizia con due versi che da soli vanno a esorcizzare quanto appena successo («Goddamn machinery / Why won’t it speak to me?»), mentre Atoms For Peace e Default danno il minimo sindacale di tempo alle ferite (non esageriamo, diciamo ai graffi) di risarcirsi e spianano la strada alla comunque scontata standing ovation conclusiva.

La fatica più grande nell’assistere a un concerto di Thom Yorke da fan dei Radiohead è esattamente la stessa che hai ascoltando un disco di Thom Yorke, da fan dei Radiohead. La difficoltà di allontanare lo spettro della band madre, di superare quegli attimi che sentiresti davvero perfetti solo se vedessi gli altri quattro comparire sul palco, di non rispondere (perché, obiettivamente, non se lo meritano) a quelle domande inconsce quanto subdole del tipo: come ti colpirebbero queste canzoni se fossero state scritte a dieci mani? Che effetto farebbero suonate dalla formazione al completo? Sarebbero davvero delle eccellenti Radiohead song? Credo Thom Yorke, questo, lo sappia. Nelle serate peggiori — quando fuori rain down forte, la voce sintetica di Fitter Happier ti balbetta in testa cose senza senso e la karma police viene a chiedere il conto dei tuoi peccati — probabilmente se li pone lui stesso, quegli stupidi quesiti, perché se — come si dice — la carne è debole, la testa è messa forse anche peggio e il dubbio è il primo passo verso la vera consapevolezza di sé, anche se it wears you out. Perché la verità è che la devozione e il rispetto che quest’uomo ha per il suo materiale solista va ben oltre il concetto di side project, il sollievo della fuga dalle dinamiche di gruppo, il periodo sabbatico per ricaricare le pile. «I’ve made my bed / and I’m lying in it» sono non solo l’ultima confessione — tanto rassegnata quanto orgogliosa — prima che le luci tornino a illuminare la sala, ma anche la certezza che non ci sarà nessun tentativo ruffiano di compiacere i presenti, nessuna temuta chiusura con — che ne so — una versione acustica di Creep o una Videotape solo piano e voce. Non ce n’è bisogno, perché questo è sì in gran parte il pubblico dei Radiohead, ma in primis è il suo pubblico. Siamo noi, sono io, sei tu.

Proprio in quella piccolo pronome di due lettere, penso — appena, una volta fuori, un po’ di aria meno viziata riesce a farmi respirare di nuovo il cervello — sta la chiave del tutto. Di solito, quando la parola “you” compare in un testo dei Radiohead è rivolta a un simbolo ipotetico, senza faccia, della nostra società malata. Tra le righe di pezzi come The Eraser, A Brain In A Bottle, The Mother Lode invece sembra mirare direttamente a un individuo, qualcuno con cui condividere una complessa storia di emozioni. La questione non è tanto se siamo momenti autobiografici o meno, perché — fondamentalmente — la questione non è quanto stiano parlando di lui. A dirla tutta, la questione non è proprio di chi stanno parlando, ma a chi. E la sensazione fortissima è quella di sentirsi chiamati in causa: stanno parlando a te, a me, a noi. Per dirci che no, queste non sono canzoni dei Radiohead, e nemmeno demo di canzoni dei Radiohead, e nemmeno scarti di canzoni dei Radiohead. Sarebbero state, questo sì, probabilmente, delle eccellenti canzoni dei Radiohead, ma per il semplice fatto che nelle mani dei Radiohead qualunque canzone diventa un’eccellente canzone dei Radiohead. E in ogni caso non è qui il punto.

Il punto è che — sarà per l’esagerato uso del falsetto, per i capelli perennemente unti, per l’occhietto semichiuso — in molti trovano Thom Yorke disturbante. Il punto è che, per parecchi anni, Thom Yorke è stato uno di questi. Il punto è che, per tutti quegli anni ha cercato il modo perfetto per disappear completely e l’unica cosa che ha ottenuto è l’esatto contrario: diventare un essere mitologico, oggetto di una venerazione che trascende la forma stessa con cui si manifesta, rendendolo contemporaneamente tanto memeable quanto religiosamente rispettato — quel tipo di personaggio che ognuno non vede l’ora di ascoltare appena apre bocca e la cui musica chiunque aspetta al varco per dissezionarla fino all’ossessione, nel bene e nel male.

Ecco.
Oggi Thom Yorke — inconsciamente o meno — ha cambiato strategia: ti parla dritto in faccia, scherza, sbaglia, si incazza. In generale, pone nuove domande, cercando gli indizi giusti per risolvere l’altro lato della medaglia del solito vecchio mistero, ovvero prova, se non tanto ad apparire, almeno a ricomparire. Che lo faccia con la stessa incertezza e buffa goffaggine con cui balla, che ci riesca solo a tratti, che la cosa avvenga in maniera ancora incompleta, non fa troppa differenza.

Più che solista, appare meno solo.
E questo non può essere che un bene.
Per lui, per noi, per tutti.

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