Ci sono scosse che distruggono senza fare prigionieri e che ti lasciano giusto il tempo di aspettare che la polvere si posi di nuovo a terra e come unica speranza quella di ritrovare una strada — una qualunque — tra i rottami, fare il conto di quello che (se non addirittura di chi) rimane e pregare che il risultato sia un numero positivo. Positivo nel senso puramente algebrico del termine: maggiore di zero. Ci sono poi altre scosse che partono da dentro: ti senti pungere all’improvviso, a volte te ne accorgi subito, a volte con colpevole ritardo, ma percepisci comunque qualcosa che sale velocemente dall’osso sacro alla base del collo. Più che una scarica elettrica assomiglia a del liquido risucchiato da una cannuccia, meno istantaneo ma più risoluto, anche se ugualmente breve: non brucia ma ha una tensione superficiale ostinata, non si vede da fuori ma fa bene alla mente. A volte è un gesto, a volte un panorama, una parola, un suono: va a stimolare una qualche parte di te estremamente ricettiva, che non aspettava altro, e ti regala una sveglia sana, poco brusca ma decisa, una visione d’insieme più chiara e una voglia strana di non starsene con le mani in mano.
La morale è: con questo secondo tipo di scosse si combattono le prime. O se non si combattono, almeno si curano, nel senso che se ne tamponano gli effetti, se ne leniscono le ferite. Perchè prevenire sarebbe meglio che curare, quello si sa, ma curare è sempre meglio di niente, come disse quello che amava godere accontentandosi. Ovvero: guarire no, ci mancherebbe, ma almeno un po’ di sollievo ce lo meriteremmo tutti.
Ecco, questo concerto è proprio questo, una scossa che cura dalle scosse. Questo concerto è il sollievo che ci meritiamo. Questo concerto è quel qualcosa. Questo concerto è meglio di niente.
La storia la sapete tutti: il chitarrista di una band di successo internazionale, ormai marchigiano d’adozione, la compagna che fa parte di un’associazione che raccoglie fondi per il recupero dei capolavori danneggiati nelle zone terremotate tra Marche, Abruzzo e Umbria, il cantante della stessa band che accetta di collaborare a un evento di beneficenza che sarà sì una goccia nell’oceano (anche se poi i 231 mila euro raccolti mi sembrano ben più che una goccia, diciamo almeno una conchiglia ripiena) ma si annuncia comunque unico e imperdibile. Dove “imperdibile”, nel caso specifico, assume un concetto vago come le stelle dell’orsa e soprattutto si esprime statisticamente in una probabilità di esserci pari a quella di un terno al lotto sulla ruota di Macerata.
Non esiste, la ruota di Macerata.
Non so se ci siamo spiegati.
Per questo, quando scendo di macchina dopo un viaggio di tre ore abbondanti, ho ancora la faccia di un sopravvissuto al sisma virtuale di una distribuzione di biglietti online imbarazzante e anche io accarezzo le mie stupide ferite. In particolare quel che resta di un dolore alla base del pollice che qualche settimana fa era molto più intenso e aveva tutti i sintomi di una tipica tendinite, conosciuta da ben prima dell’invenzione dei PC come sindrome di De Quervain, al giorno d’oggi associata a un utilizzo incosciente, esagerato e spropositato del mouse in ambito lavorativo. Tipo quando fai refresh per due ore consecutive alla frequenza di tre clic al secondo sul sito di Vivaticket, che a quanto pare utilizza un VIC-20 come server e non regge più di due utenti attivi contemporaneamente.
Riassumendo: non so ancora bene in che modo sia successo, ma quello che ho in mano sembra a tutti gli effetti un tagliando di ingresso valido. Probabilmente è risalito a galla come una nave in bottiglia qualche ora dopo l’apertura delle vendite a causa di un (sempre sia lodato!) pagamento non andato a buon fine, anche se il tarlo del dubbio che sia figlio di un bug del sistema — e che quindi ci troveremo in quattro o cinque seduti uno in braccio all’altro sulla stessa sedia — rimane, rosica e consuma fino a quando effettivamente non poso il culo su quel maledetto Posto 14, Fila 7 Sx, Settore Rosso.
Lo Sferisterio è strano quasi quanto il suo nome. C’è chi lo chiama teatro, chi anfiteatro, chi arena. Come tutte le cose nate con uno scopo e poi riconvertite a un altro, lascia a un primo impatto una sensazione destabilizzante: dopotutto, ormai ci siamo abituati, ma immagino che anche quei vecchi tifosi del Milan o dell’Inter che hanno avuto la fortuna di vedere il primo concerto in assoluto tenuto a San Siro, appena entrati, si siano sentiti un attimo spaesati, sospesi in un limbo riassumibile in domande esistenziali del tipo: “ma durante l’assolo il chitarrista non era in fuorigioco?”. Paragone tutt’altro che azzardato, questo, visto che lo Sferisterio di Macerata viene costruito a inizio Ottocento con l’idea di essere utilizzato come spazio per le partite di pallone col bracciale, uno degli sport di squadra più antichi della nostra penisola (c’è chi dice antenato proprio del calcio), al tempo molto diffuso in Italia (pare che i migliori giocatori fossero a tutti gli effetti delle star — immaginatevi Cristiano Ronaldo che gioca a tamburello in pigiama, solo con gli addominali meno scolpiti ma un conto in banca ancora più ragguardevole, al netto dell’inflazione dell’epoca). Del teatro ormai ha la funzione, dell’anfiteatro la pianta a mezzaluna, dell’arena l’origine storica appunto. Un’imponente parete trasversale di pietra (quella su cui gli atleti del diciannovesimo secolo facevano rimbalzare la palla o chi per lei) interrompe in maniera decisamente brusca il semicerchio a colonne (all’interno delle quali sono stati ricavati i palchi per i più fortunati tra i fortunati) e funge dal lato interno da sfondo per la zona dove si esibiscono gli artisti, una specie di “quinta” rustica e minimal a cui non siamo visivamente abituati, mentre dal lato esterno diventa un vero e proprio muro del pianto per quelli che, nonostante non siano riusciti ad accaparrarsi un biglietto, sono arrivati qui lo stesso, per provare ad ascoltare il concerto da fuori e sentire comunque l’effetto che fa. Visto dall’alto immagino sembri lo scarto di una confezione di pezzi di Tetris, unico esemplare a simmetria curva, costretto a incastrarsi come meglio ha potuto in mezzo fratelli spigolosi e che fanno bella mostra dei loro angoli retti mentre formano la pianta del centro storico del comune marchigiano. Raccontata così non suona benissimo, ma in realtà è un posto meraviglioso e, in termini di acustica, invece sì: suona benissimo sul serio.
Facile prevedere che sarà una serata da brividi. In tutti i sensi. Perchè l’estate sta finendo anche a Macerata, o almeno è quello che vorrebbero farci credere gli annunci di meteo-terrorismo del Centro Epson o quello che continua a sperare qualche simpatico rosicone dell’ultima ora. Rischio pioggia scongiurato alla fine, ma è più che evidente che l’escursione termica tra giorno e notte, tra pomeriggio sulla costa e sera nell’entroterra, tra ieri e oggi, non è uno scherzo e una brezza insistente e per niente tiepida — unita alla location inusuale che accoglierà una performance inedita da cui non è così facile sapere cosa aspettarsi — ha creato non pochi impacci (e impicci) sulla questione dress-code. Così intorno a me posso contare tutte le cinquanta sfumature di fashion che vanno dal piumino Colmar verde militare da portare sopra la felpa di In Rainbows allo straccetto da sera da indossare senza reggiseno sulla la schiena nuda e abbronzatissima, decorata solo da un piccolo tatuaggio dell’angry bear al centro delle scapole.
Più o meno in orario, apre le danze quello che in altri momenti, luoghi e situazioni si sarebbe chiamato il “gruppo spalla” ma che qui è necessario ribattezzare ouverture d’eccezione: il Cubis Quartet — due violini, una viola e un violoncello messi insieme espressamente ad hoc per questa performance, introducono l’evento sulle note di un paio di brani di Schubert e Shostakovich, pescati solo apparentemente a strascico nel repertorio classico per quartetto d’archi. Seduti su un palco già preparato per l’arrivo (e per lo show) dei due membri dei Radiohead, raccolti al centro di una moderna installazione fatta di testate VOX, Fender Telecaster, chitarre acustiche, pianoforte, tastiere, drum-machine, loop-station e sintetizzatori analogici, recitano alla perfezione il ruolo di subterranean homesick alien al contrario, come viaggiatori del tempo che son partiti dal passato ma hanno sbagliato le coordinate del teletrasporto e si son ritrovati a suonare nello scantinato futurista e futuribile di una band che del futuro ha sempre fatto il suo presente. Quasi stranieri a casa loro — piombati in mezzo a una sorta di (amphi)theater take-over da parte di due tizi di Oxford che durante la prevendita di un mese fa hanno riempito ogni buco disponibile in platea e sui palchetti nel giro di un istante — Aldo Campagnari, Cristiano Giuseppetti, Vincenzo Starace e Federico Bracalente accolgono sul palco anche il fermano Daniele Di Bonaventura che con il suo bandoneón mischia ancora più le carte in tavola durante i diciotto minuti del loro, lunghissimo, pezzo finale.
Qualcuno è abituato, alla musica classica dentro lo Sferisterio (dopotutto questa è la normalità, qui) e più o meno se la gode. Qualcun’altro regge tre battute e poi ne approfitta per andare a prendere una birra o un tè caldo (dipende dall’apparato termo-regolatore di cui l’ha dotato madre natura, o dalla mise che ha sbagliato per l’occasione — vedi sopra). La maggioranza è palesemente spiazzata da questa commistione di generi — magari si aspettava la solita playlist dubstep e non sapeva che invece un’apertura del genere era stata proprio una richiesta precisa di Greenwood, allo scopo di celebrare l’armonia in tutte le sue forme e di accompagnare l’innovativo e visionario stile compositivo dei due artisti inglesi in un confronto reciproco con arie musicali difformi, nella dimensione contemporanea di uno spazio sonoro già di per sé denso di lirismo e significato storico — ma riesce comunque a metter su una poker face da musica colta e finge un interesse compiaciuto in rispettoso silenzio. E poi c’è chi, seduto dietro di me — probabilmente ancora alle prese con le scorie di un’adolescenza abbandonata davanti a un televisore a tubo catodico dei primi anni ottanta — mormora a metà del pezzo di chiusura (la Suite Mediterranea per bandoneón e orchestra appunto, scritta dallo stesso Di Bonaventura), “sembra la sigla de La Piovra”. Messa così, pare una specie di eresia: quelle note sublimi, accarezzate dal vento, improvvisamente sopraffatte dall’irruzione imprevista delle sirene spiegate di un’Alfetta crivellata di colpi di lupara, guidata da un giovane ma già elegantemente brizzolato Michele Placido. Mi scappa un sorriso, ma poi faccio mente locale, realizzo chi l’ha composta, la colonna sonora de La Piovra, e penso che i quattro (cinque) sul palco lo prenderebbero come un complimento. Esser paragonati a Ennio Morricone, dico.
Poco dopo, Thomas Edward Yorke e Jonathan Richard Guy Greenwood fanno il loro ingresso nella storia dell’arena maceratese quasi in punta di piedi, come trattenuti nello slancio da una sorta di reverenza, se non addirittura soggezione. Nonostante le svariate prove (le ultime durante il piacevolmente interminabile sound-check nel primo pomeriggio) e il loro ben noto affiatamento, scegliere da un repertorio come quello dei Radiohead le canzoni da riarrangiare in due non è un’impresa semplice: l’articolata stratificazione di ogni pezzo originale deve essere prima sezionata e poi ricucita lasciando da parte qualcosa, un qualcosa che sfortunatamente mai si rivela superfluo e quindi necessita di un modo diverso per essere raccontato. Forse per questo la partenza è un po’ in sordina: i nuovi arrangiamenti per “pianoforte e tutto il resto” di Daydreaming e Bloom sono senza ombra di dubbio geniali ma probabilmente ancora troppo complessi per sole quattro mani e due teste (per quanto del livello di quelle che abbiamo davanti) e quindi procedono con qualche inciampo e una false start (“Shit!”) perdonati e dimenticati nel giro di una strofa. Perché comunque quello che muove i due musicisti inglesi è un motore diesel di ultima generazione, che carbura presto e una volta raggiunta la velocità di crociera brilla sia per affidabilità che per qualità delle prestazioni. A facilitare la cosa, una setlist che — nonostante, o forse grazie a, quanto detto poco fa — si rivela di quelle che riescono a lasciare senza fiato tutti i tipi di fan, sia quelli più mainstream che aspettano il ritornello della hit, che quelli più radical chic che fanno il conto degli anni dall’ultima volta che una vecchia b-side era comparsa in scaletta. In questo senso, già il terzo pezzo, Faust Arp ha tutte le carte in regola per entrare nel ristretto cerchio delle rarity, visto che non si sentiva live dal 2010, mentre dall’altrettanto lontano 2012 ricompare una splendida A Wolf at the Door distesa su un arpeggio di chitarra che suona come un clavicembalo e cadenzata addosso a quel cantato strascicato in maniera quasi hip-hop, sebbene — obiettivamente — il “premio hypsteria” lo vinca Follow Me Around, che in questa versione non si era mai sentita e lascia almeno metà del pubblico con la bocca aperta, l’app di Shazam arresa e nella testa il dubbio “sarà una cover?”. Anche Give Up the Ghost e Cymbal Rush vengono ripescate dalla soffitta polverosa e tirate a lucido come non mai, ma in generale — vista la nuova veste che ogni canzone sfoggia stasera — è quasi come ascoltare una cascata di pezzi inediti. Ventuno in totale, compresi quelli che vanno a comporre un lungo encore fatto di cinque masterpiece molto “singalong” (tra cui Street Spirit, No Surprises e Karma Police) che la gente si trattiene comunque dal cantare — se si esclude qualche sparuto “for a minute there / I lost myself” — prima di lasciarsi andare a una standing ovation finale che verosimilmente aveva covato, e rispettosamente ritardato, per tutte le due ore della durata complessiva.
Così come succede a livello musicale, anche l’atteggiamento dei due sul palco non ci mette molto sciogliersi allentando la tensione: soprattutto Thom Yorke è ciarliero come raramente ricordo, scherza, impreca bonariamente, fa battute e prende in giro sia il pubblico che l’indaffaratissimo partner, senza farsi innervosire quando qualche ingranaggio della strumentazione non fa egregiamente il proprio lavoro (“It’s like singing into a packet of Kellogg’s corn flakes.” commenta a un certo punto non si sa se riferito al feedback del microfono o al gracchiare del monitor — se non avete mai provato a cantare dentro una scatola di cereali non potete capire). Niente di nuovo, in questo senso: è una specie di strategia di “personal re-branding” (magari spontanea, magari calcolata — ci interessa saperlo? a me no) che abbiamo già percepito nel corso dell’ultimo tour. Il successo che non è più quel mostro terrificante, il superamento del sentirsi creep, l’esorcizzazione dei propri demoni, l’ex nervoso artista in eterna lotta con se stesso e con le sue ambizioni che invece ora sembra un musicista appagato, dalla vita e dal suo lavoro, a proprio agio anche con il ruolo di rockstar che tanto odiava: cose così, che avete già letto su qualunque recensione delle date italiane di A Moon Shaped Pool / OKNOTOK — che ve lo dico a fare?
Anche perché la vera magia è, al solito, Jonny Greenwood che — non si sa bene come — riesce a giocare più di altre volte con la sua passione orchestrale per le colonne sonore proprio nell’occasione meno adatta, ovvero quando non solo non ha a disposizione un’orchestra, ma tantomeno una band al completo, eppure, nonostante questo, riesce a imbastire l’incantesimo con quel poco — si fa per dire — che passa al convento, ovvero un compagno fedele pieno di talento e una manciata di macchinari che a tratti si prendono pure il lusso di fare le bizze. Dopotutto, è sempre stato quello il suo ruolo principale anche nei Radiohead: farsi lui stesso colonna sonora degli altri e dare a Thom Yorke il suo personale Morricone privato. È costantemente stato lui l’eterno bambino prodigio, il piccolo genio, l’unico capace di prendere una qualunque idea astratta di Yorke e trovare gli strumenti adatti per metterla in pratica nel mondo reale. E saperli suonare, tutti quegli strumenti, ovviamente. Una volta Thom stesso ha sintetizzato tutto questo — dando a Jonny quel che è di Jonny — in una frase che è la fotografia esatta del loro rapporto, una relazione di complementarità perfetta che negli anni ha saputo generare bellissimi weirdo sonori: “Jonny likes having the ground pulled out from under him, musically. More than any of us. Which is a constant source of relief to me, because I’m the same way, but I don’t know how to get there, usually.”
Due che amano quell’esatta sensazione, di quando il terreno comincia a mancarti sotto i piedi, due che danno il loro meglio quando si trovano in quell’esatta condizione, con la strada che comincia a scivolarti via dalle suole delle scarpe, ma solo uno che sa come lasciarla succedere e mantenere entrambi in equilibrio sulla superficie dell’acqua alta, quando il resto trema e — nella peggiore delle ipotesi — crolla: ecco gli ingredienti che basterebbero a descrivere questo concerto. Un evento esclusivo e importante per una lunga serie di motivi (dallo scopo all’esecuzione passando per la location, con tutti gli infiniti altri punti di vista che stanno nel mezzo), ma non necessariamente irripetibile. Sì, perché anche inserendolo in un più ampio Radiohead-environment, l’impressione è che non sia un’eccezione alla regola, e nemmeno la famosa eccezione che conferma la regola. Anzi, la sensazione è che questa sera — sia musicalmente che mediaticamente parlando — si posizioni in maniera ben precisa come l’ennesimo tassello in un puzzle in cui everything sta andando in its right place, sedicesimo passo in un processo di umanizzazione di quegli androidi paranoici che esattamente venti anni fa ci avevano fatto credere di venire da un altro pianeta, o almeno intuire che il nostro, di pianeta, stava andando a puttane e non lo sentivano più loro. Un appannamento più o meno calcolato di tutta una serie di suggestioni robotiche più o meno codificate che comunque non ha granchè di “acustico” — aggettivo, questo, che è stato a dir poco abusato nell’attesa dell’evento, generando (mi è parso di capire) qualche fraintendimento, almeno in termini di aspettative.
Chiariamolo una volta per tutte: non c’è stato quasi niente di prettamente acustico, almeno nel senso che intendiamo noi vecchi, ancora impigliati nell’equazione acoustic = unplugged anni ‘90. Abbiamo visto distese di cavi e “jack” maschi ben inseriti dentro le loro femmine, percepito una notevole quantità di campi magnetici, è stato fatto uso abbondante — come era inevitabile che fosse — di loop, sample e campionamenti vari e se da un lato è vero che l’elettronica non è mai risultata invasiva ed è rimasta costantemente in equilibrio con le chitarre, dall’altro queste ultime erano spesso elettriche, anche se raramente distorte, se non quel poco che è bastato per sporcarne la perfezione (rendendola così, di nuovo, terrena) e l’assenza totale della sezione ritmica è stata, per lunghi tratti, quasi celebrata e sottolineata dalla maggior parte degli arrangiamenti — piuttosto che nascosta o barattata con altri inutili surrogati — arrangiamenti in cui la voce di Thom Yorke ha dato spettacolo come e più di sempre, pur senza gridare nemmeno per un secondo. È stato un lavoro di cesello estremamente complesso — che, come detto, non è mancato di incappare in qualche minima sbavatura — complesso più da suonare che da ascoltare, mi verrebbe da dire, in cui ogni pezzo veniva scavato fino alla carne viva e ridotto all’osso, un osso di complicata essenzialità che ne ha messo in luce una ricchezza sonora inesplorata e che paradossalmente ha trovato la sua chiave di lettura nascosta in quella che sì — soprattutto se ci perdiamo in sterili paragoni con le esibizioni monstre della band madre — può essere definita semplicità, ma rimane comunque una semplicità ben definita e mai troppo rarefatta, un castello che sembra fragile, in qualche momento dispersivo, ma che come al solito non riesce a perdere quel benedetto vizio di guardare avanti, anche se per una volta senza clamori.
Perché la salvezza — da una vita, da una carriera, da un terremoto, non fa poi così differenza — in certe occasioni la puoi trovare lì, accasciata ma ancora viva, in bella vista, giusto a metà tra il kicking e lo squealing della gente che urla scappando tra le macerie, a galleggiare sopra un mare di panic e di vomit generato dall’ascolto delle intercettazioni o dei commenti strumentali degli squali e degli avvoltoi di turno, sempre protratta verso un futuro fatto di piccoli passi superficialmente scambiati per gocce nel mare, un futuro che ormai abbiamo scoperto essere “inside us, not somewhere else”, un futuro (ri)costruito mettendo in fila uno dopo l’altro, uno sopra l’altro, tutti i mattoncini rimasti, tutti i cocci raccolti da terra con testardaggine e speranza, tutti i minuscoli momenti di intimità e calore, in cui non c’è niente di male se anche i gelidi computer di un tempo non sono più così OK.
Momenti come questo.