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L’interiorità, prima | Thom Yorke al Ferrara sotto le stelle

Thom Yorke è al piano elettrico. È appena risalito sul palco dopo un’ora e mezza in cui non si è mai fermato. Piazza Castello, tornata seria improvvisamente, imponente quanto le mura che la circondano, si mette in silenzio. Tre note. Religioso silenzio, oltre i bassi, oltre ai vorticosi visual che si alternano sul grande schermo. È un’immagine, forse fin troppo personale, per raccontare una parte del concerto di Thom Yorke al Ferrara sotto le stelle. Un’indicazione sull’impegno emotivo che richiede un certo tipo di concerto, delle dinamiche che portano la musica su dimensioni ulteriori e per cui, l’esibizione artistica, possa contenere qualcos’altro.

Il momento di Dawn Chorus è catalizzante per una serie di motivi che partono dall’improvvisazione sonora e arrivano a Truth Ray, rappresentazioni di qualcosa che necessita ai suoi ascoltatori una concentrazione – fisica e sentimentale – del tutto inedita. È immediato, come i colpi che ti frastornano al lato della prima cassa. Lo è come le luci dei visual, che disegnano tagli, strutture geometriche o arcobaleni, fino a perdersi, nel ritmo forsennato di un cambio senza sosta. Tutto si concentra in queste immagini, nella pesantezza delle armonie, che porti sulle spalle, che ti colpiscono allo sterno, prima come una batteria che esplode poi con la pacatezza dei tasti del piano. Giù, così in fondo, dove nessuno vede.

 

 

Inizia tutto in un momento preciso, spaccato, quasi famigliare. Thom Yorke si mostra in quel momento di tensione massima poco prima di mettersi agli strumenti, saluta il pubblico, lo guarda da un lato all’altro, lo guarda dentro, e, così, sarà per tutta l’esibizione. Un sentimento collettivo che ti si contorce dall’interno, quando i bpm improvvisamente si abbassano e danno spazio alla voce di Yorke che viene manipolata su direzioni deep, non solo per l’impronta di Nigel Godrich nelle tonalità, incredibile deus ex machina, ma per quegli effetti che porta con sé. Per la tenacia, la concentrazione, di un uomo evidentemente mai domo, per l’artista, che svolge un lavoro estenuante, per la cura di ogni particolare riflesso sullo schermo alle sue spalle. Tutti i sensi, e poi l’intelletto, e poi il cuore, sono concentrati, avidi, impegnati per non perdersi nulla. È qualcosa che trascende, ormai, il semplice concerto, che ti scava, dimagrisce, ti fa venire il fiatone. Sussulti nel vedere apparire la chitarra, vederla passare di mano fra due interpreti che non hanno bisogno di parlarsi per interagire e continuare a creare. Ciascuna esibizione ha la sua storia, la nostra sa quasi di lacrime e di irripetibile.

Forse arriviamo impreparati, forse è realisticamente impossibile dotarsi degli strumenti per comprendere quello che accade sul palco, perché c’è di più di un semplice concerto, più delle stratificazioni del suono, dei passaggi limati, degli incastri perfetti che rendono la lunga linea dell’esecuzione un unicuum inedito e inesplicabile. I punti di collegamento fra realtà concepite dalla stessa persona ma in fondo così diverse, come Tomorrow’s Modern Boxes e Anima, e poi gli Atoms for Peace o quelle note da cui siamo partiti che basta riascoltare per ricominciare dal principio. L’interiorità, prima, significa una modalità unica di assistere a un concerto, lasciarsi trasportare, lasciare che ti cambi. Che si tratti di una sostituzione meccanica, per The Axe o The Clock, o nel crescendo di elementi di Two Feet Off the Ground. I ritmi si fanno passi di danza, poi cori, poi contorsioni e campionamenti.

 

 

Ti entra dentro, dicevamo, e forse ti cambia. Come l’arte, quella più importante. Thom Yorke porta con sé una serie di misteri, sulla sua natura umana, su dove questa possa spingersi ancora oltre, su come venga assorbita dai recettori del pubblico, che per la stessa ragione – per un senso di protezione, per attaccarsi istintivamente al dato – vive come in uno stato di tensione, che si libera negli applausi, nell’affetto, nel calore che interrompe per un attimo l’ipnosi collettiva in cui si trova. Nemmeno il caldo, nemmeno gli spazi stretti, nemmeno le zanzare. Non c’è che individualità disciolta, una marea che a volte si muove e più spesso piange, nei suoni elettronici e improvvisamente molto meno ostili. L’elettronica umana, che si fonde nelle visioni di Thom Yorke e ne esce manipolata, oltre il confine, oltre il semplice immaginario.

 

Francesco Pattacini

I vent'anni sono l'età in cui si può tutto ma la maggior parte del tempo ci si annoia

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