Quando ho “vinto” la recensione del nuovo disco di Thom Yorke, Anima, mi sono sentito in paradiso. La gioia che provo nello scrivere del leader dei Radiohead è paragonabile a quella che hanno gli anziani in posta quando si tratta di raccontare dei vecchi tempi in cui era tutta campagna. Poi, però, ho iniziato a tremare al pensiero che il nuovo disco di Yorke non fosse all’altezza del suo compositore. Come avrei potuto scrivervi che il vecchio Thom aveva fatto il compitino? Come affrontare la delusione nell’ascoltare un artista che, di solito, se non ti piace è solo perché non hai davvero capito cosa voleva dirti?
Mi sono affacciato ad Anima con l’animo inquieto di chi cammina per un sentiero non sminato. Magari sarei arrivato sano e salvo, magari la fortuna mi avrebbe risparmiato un’esplosione, nel peggiore dei casi, sarei finito sopra una mina e non ne sarei uscito indenne.
Ho ascoltato con riverenza per la prima volta Anima e solo allora ho capito che non avevo preso in considerazione il giusto “uomo nero”. Ciò che faceva davvero paura non era il rischio flop del disco di Yorke, che durante la carriera anche nella peggiore delle vesti ha sempre nascosto piccole gemme e il cui piglio artistico-esistenziale non può che essere stimato. Quello che faceva paura era l’incomunicabilità di un disco che non vive tanto di “musica”, quanto di sensazioni e sentimenti, di atmosfere, di caos, di confusione e di bellezza.
Mi trovavo nell’abusata situazione predetta dal caro Frank Zappa di chi era chiamato a ballare di architettura.
L’unica soluzione che mi è balenata in mente è stata quella di darvi un atlante illustrato e ragionato di ciò che ho provato durante ascolti successivi al primo di Anima. Una sorta di diario emotivo che ha un brano per pagina e che, in qualche maniera, potrà servire da guida galattica per chi vi si addentra o, semplicemente, per bearvi dell’aver capito ciò che non ho afferrato. La speranza di chi scrive è che questo articolo possa essere una sorta di campionario che vi faccia stupire di come per ogni brano abbiate avvertito le stesse sensazioni che ho avvertito io, anche solo per sentirvi meno soli ascoltando un album che, come leggerete, non aspira a far sentire felice nessuno e che, anzi, trova pace solo nell’allontanamento dagli altri.
La premessa generale all’ascolto dell’album è che Thom Yorke continua, in Anima, quel processo di decostruzione (quasi Deriddiana) della musica. Non esiste struttura, non esiste fissità, non esiste regola. La regola è l’assenza di regole e l’innovazione si rivela logica conseguenza del suo modo di fare “anti-musica”, come ha detto durante un’intervista a Beats 1. La distruzione porta alla costruzione del nuovo. L’abbandono della stella polare porta al non voler scrivere tante canzoni ma “a voler fare solo rumore”. Sicuramente si tratta di un tentativo di retrocedere a uno stato pre-cosciente e Yorke dice apertamente che vi è una componente di aspirazione al sogno in Anima e che, anzi, il titolo dell’album è nato dalla sua passione per Jung e la sua filosofia del sogno.
Quindi, abbandonata la razionalità musicale e la geometria mai casuale a cui ci ha abituato Yorke quando in combutta col socio Johnny Greenwood, questa volta si è trattato di lasciare scorrere l’istinto, far suonare all’incoscienza dei morsi, dei brandelli musicali che, sotto la cura dello storico produttore Nigel Godrich, sono diventati loop su cui Yorke ha potuto scrivere le sue poesie.
Quello che Yorke cerca di fare in Anima è di dare un’armonia a un complesso di inconscio, paranoie, sogni, desideri, paure, archetipi, pulsioni che formano un maelström costante e irrisolvibile e che ci accompagna ogni volta che chiudiamo gli occhi. Pensateci la prossima volta che ritenete di star facendo qualcosa di difficile.
- Traffic: la sensazione madre è quella che si prova in autobus o in metropolitana, quando i cartelloni pubblicitari sfilano sulla danza dei clacson e delle frenate stridule delle pasticche troppo consumate dei motorini. Quando sorge il dubbio che tutte quelle frasi ad effetto per l’acchiappo intellettualoide nascondano, in realtà, un fondo di verità. Che quella falsa serenità da vita neo-borghese in città nasconda qualcosa di oscuro, desideri imposti e specchi incrinati.
- Last I Heard (… He Was Circling the Drain): questa sa proprio di attesa del mezzo pubblico le mattine d’inverno. Quando la nebbia e la pioggia incombono sulle valigette dei colletti bianchi che aspettano l’orario mai tondo d’arrivo del mezzo che porterà loro a lavoro. Grigio e cupo ovunque e quella sensazione di non stare vivendo la vita che si pensava che ci si era immaginati, l’ansia di chi si ritrova “topi nel ventre della città”.
- Twist: il primo pensiero è stata La nausea. Non quella da cibo, quella di Sartre. Immagini che scorrono una dopo l’altra. Come quei video che, di solito, accompagnano le performance live dei musicisti, ma al contrario. Un ragazzino che va in bici, un auto lasciata con il motore acceso…
- Dawn Chorus: questa sa tanto di Radiohead. A me ha fatto pensare a una scena che tutti abbiamo vissuto, in un modo o nell’altro. Al momento in cui ci si sta allontanando da una persona che ha rappresentato tanto per noi. Ecco, dal momento in cui ho messo in moto l’auto dopo aver rotto con la mia ex, fino a quando potevo vederla dallo specchietto retrovisore, non avrei saputo scegliere colonna sonora migliore.
- I Am a Very Rude Person: questa è sicuramente la prima volta che espiro dopo aver trattenuto il fiato per tutte le tracce precedenti. Un ritmo “furbo” che fa pensare alla scaltrezza e a chi dispostissimo a crogiolarsi nel proprio dolore, dove con proprio intendo provocato da se stessi, ma che non può accettare di vedere dei piedi che non siano i propri posarsi sopra la propria testa in segno di sottomissione. Yorke non è mai stato così politico come dopo il post-Brexit e qui ne fa sentire ancora le ragioni.
- Not The News: qui predominava l’ansia. I suoni mi hanno fatto pensare in continuazione allo scandire del tempo in uno strano conto alla rovescia prima dell’inizio di qualcosa. Non necessariamente qualcosa di apocalittico, sicuramente qualcosa di importante.
- The Axe: qui si sente la distopia del mondo governato da algoritmi, macchine, calcoli che prevedono, decidono per noi e ci modellano. Il richiamo a Ok Computer è forte, non si tratta solo di nostalgia. Il crescendo suggerisce una sorta di urgenza, la necessità di far qualcosa per riprendersi quella libertà che un agglomerato di nodi e archi digitali ci ha tolto, di macchine a cui parliamo ma che non possono risponderci.
- Impossible Knots: di nuovo un sospiro di sollievo e di ribellione a una realtà che sembrava averci messo KO. La situazione sembra quasi farsi rilassata, l’aria di Yorke diventa quella di chi ha capito come uscirne e guarda con sufficienza le povere scimmie in gabbia che prendono per vere le ombre proiettate alle pareti. Sembra lo scioglimento dello spannung.
- Runwayway: solo adesso le chitarre. Proprio quando oramai è tempo di andare a casa. Il ghiaccio si scioglie ancora un po’ e le cose prendono una piega ancora diversa, ancora più strana. Il pezzo è caotico ma armonioso. Forse il titolo del disco e le affermazioni di Yorke conducevano a questo. Ritornare dentro di sé, al proprio pre-cosciente. Per quanto confuso, forse è lì che si trova la risposta possibile a tutto il male che c’è fuori. Pensiero a margine: è il pezzo più bello.
Thom Yorke è riuscito a tornare a uno stato primitivo a livello tecnico della musica. Una musica tribale e sanguigna su cui, però, si abbatte la potenza e la saggezza di Yorke. I brani subiscono lo stesso trattamento di una minipalla per bimbi, di quelle con Topolino e Paperino, finita sotto i piedi di Messi.
Probabilmente, questa non è una vera recensione. Però sarebbe bello sentire cosa avete provato voi e se avete provato quello che ho provato io.