È vero, per Bob Dylan, per Bruce Springsteen e per una generazione di cantautori è stato il modello da imitare. Dylan ne era quasi ossessionato, tanto da mettersi sulle sue tracce in giro per gli Stati Uniti, e incidere nel suo primo album omonimo una canzone a lui dedicata: Song to Woody. Ma perché Woody Guthrie è stato così importante?
Per comprendere l’unicità del suo impatto, una risposta, potrebbe essere, il modo e il tempo in cui ha fatto certe cose. In molte zone degli Stati Uniti di inizio secolo cose come il benessere, il tenore di vita, la sopravvivenza, sono una questione mutevole, labile, per larghe fasce della popolazione. Lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio per esempio rappresenta una variabile decisiva, così come l’impatto delle brutte annate dal punto di vista climatico sul raccolto e le coltivazione dei campi. La famiglia di Woody è legata alla prima variabile, quella del petrolio, che a un certo punto volge al basso e le cose si mettono malissimo, ancora peggio se si aggiunge che la sua famiglia è anche teatro di lutti e violenze. A poco più di undici anni si trova già a dover badare a sé stesso.
Quando ne ha sedici la Grande Depressione, conseguenza della crisi finanziaria globale, mette ancora di più in ginocchio l’economia, e a farne le spese più grosse sono tutti quelli che la povertà già la vedevano da molto vicino. Queste vicende di miseria e precarietà la storia ufficiale le racconta poco e male, o almeno non abbastanza nel dettaglio per compremdere fino in fondo il dramma umano che contengono, ma ci hanno pensato scrittori come Steinbeck a lasciare nei loro romanzi un affresco aderente ai fatti, il magnifico Furore (The Grapes of Wrath) su tutti, divenuto poi anche un film di John Ford con Henry Fonda nella parte del protagonista Tom Joad, a cui Springsteen si è poi ispirato per il suo disco intimo e sentito The Ghost of Tom Joad, ma è lo stesso Woody a dedicare per primo una canzone all’opera di Steinbeck, con la sua Dust Bowl Ballads.
Ma non perdiamo di vista il giovane Guthrie che intanto, in questi anni tremendi, riesce a fare due cose: viaggiare molto in cerca di lavoro come tanti altri disoccupati, e imparare a suonare l’armonica e la chitarra. Per la verità, ne impara anche una terza: osservare bene quella miseria e quella povertà che sommerge tutti, lui incluso, e cantarla con i suoi strumenti. Nascono così le sue ballate. Racconta gli ultimi, e non per sentito dire, ma perché racconta anche la sua storia.
E dunque ritorniamo al modo e al tempo. Il testo, il significato di quelle parole, sono di gran lunga più importanti della musica, e infatti quando sarà necessario, nella forma, ricorrerà anche a un registro diverso ma incredibilmente efficace: quello del “talking blues”, del testo parlato. Le canzoni di protesta, le sue invettive, raccontano un’America nascosta, di provincia, sofferente e maltrattata. A Hollywood e alla democrazia per tutti, Woody contrappone i massacri ai danni degli operai, per lo più emigranti, che scioperano, come il caso della carneficina contro i minatori sindacalizzati in sciopero a Ludlow in Colorado (Ludlow Massacre), dove le guardie private del ricchissimo Rockfeller senior uccidono ventuno persone, tra cui quattro bambini davanti agli occhi della Guardia Nazionale che si guarda bene dal frapporsi. O ancora il racconto (Two Good Men) dell’ingiusta condanna a morte dei due anarchici italiani, Sacco e Vanzetti. La sua funzione di cantante, in questi casi, ha avuto un valore di testimonianza storica, consegnando alla memoria collettiva certi episodi altrimenti nascosti.
Usare la musica per fare informazione era la novità assoluta. Questo approccio artistico innovativo, soprattutto nella tradizione bianca, viene immediatamente recepito dai circoli newyorkesi più attenti, che lo accolgono come l’anello mancante di un collettivo che già include personaggi del calibro di Pete Seeger, Alan Lomax, Cisco Houston, e bluesmen importanti come Leadbelly e Sonny Terry. Guthrie scrive ancora moltissime canzoni e comincia a diventare il faro della canzone di protesta.
Dicevamo anche del tempo, del contesto. Perché scavare il solco e indicare la strada a quelli che verranno dopo, Woody lo fa in anni difficili, spesso in solitudine e in un tempo in cui non si può. Non siamo alla vigilia di un cambiamento culturale e generazionale, la risposta ancora non soffia nel vento. Tutt’altro. C’è una guerra mondiale all’orizzonte, col ritorno di un nazionalismo diffuso, che chiede a tutti di essere patrioti, e ai più poveri (meglio se neri) di farlo in prima fila rispetto al fuoco nemico. Dopo la guerra per lui non andrà meglio. Identificato come esponente della sinistra radicale americana, viene preso di mira dal maccartismo, in un periodo in cui l’anti-comunismo diventa la regola inviolabile del bravo americano. Ma intanto, prima di questo, c’è la guerra da affrontare. E Woody ne prende parte, avendo come destinazione, per altro, la Sicilia. Pare che proprio in partenza per combattere il nemico nazista, incise sulla sua chitarra la famosa frase “This Machine Kills Fascists”.
Gli anni Cinquanta, nonostante le difficoltà a vivere in quell’America che prendeva di mira artisti schierati e attivisti, li ha vissuti comunque da protagonista, continuando a scrivere canzoni, a raccontare storie, accrescendo anche la qualità lirica e narrativa dei suoi componimenti. A un certo punto si ammala di una malattia rara, che lo tiene forzatamente in disparte per gli ultimi anni della sua vita. Bob Dylan sarà uno di quelli che andranno a trovarlo spesso, fino alla fine, fino al 1967. La sua canzone più famosa, This Land is Your Land, è una pietra angolare del repertorio folk e cantautorale americano e in quanto tale è stata cantata e incisa da tantissimi musicisti. È diventata poi anche un film, Questa terra è la mia terra, tratto dalla sua autobiografia Bound for Glory. Se si cerca l’origine del cantautorato bianco americano, impegnato e di protesta, schierato e combattivo, bisogna comprendere la forza che ha avuto nel tracciare il solco, spesso in solitudine, quel formidabile ragazzino dell’Oklahoma.