Nel primo capitolo di Theodoros l’eroe e protagonista si infila la canna della pistola in bocca. “E la tua vita finisce e la tua storia può avere inizio”, scrive Mircea Cărtărescu e segue a profusione per centinaia di pagine. L’ultima opera dello scrittore rumeno era uno dei libri più attesi di questo autunno: in italiano Theodoros è pubblicato da Il Saggiatore, tradotto da Bruno Mazzoni, che da anni compie la straordinaria impresa di tradurre la sterminata lingua di Cărtărescu, forse mai complessa e densa come in questa occasione. Si narra che in Theodoros vi siano espressioni dell’antico rumeno mescolate a immagini poetiche, fantasticherie a cuore aperto, reperti di documenti storici e un lessico più o meno infinito.
Theodoros è la trasfigurazione letteraria della storia dell’imperatore di Etiopia Tewodros II. Cărtărescu racconta di avere coltivato a lungo la visione di questo romanzo epico, poema trasognato, una fantasia stesa sul grande arazzo della storia. L’idea del romanzo nasce dalla lettura di una lettera di Ion Ghica, statista romeno persuaso che Tewodros di Etiopia fosse un giovane servitore del padre. Nella lettera Ion Ghica avanza l’ipotesi che dopo essere scomparso dal villaggio di Ghergani, il ragazzo sia partito verso remote regioni del mondo, e per mezzo di sconosciute avventure sia diventato imperatore di Etiopia.
È dunque una fantasia a ispirare Mircea Cărtărescu, che per tanti anni accarezza l’idea della grande storia e si prepara a buttare giù parole e immagini, fino al giorno in cui comincia a scrivere la prima bozza, in presa diretta, come un sussurro celeste che arriva di getto a un orecchio. Sono gli arcangeli i narratori oscuri del sogno di Mircea Cărtărescu: il racconto è quasi interamente scritto in seconda persona, dal punto di vista dei sette arcangeli nel giorno del Giudizio universale di Theodoros.
In certi momenti Cărtărescu sembra un profeta ispirato da uno strato di surrealtà, un apostolo apocalittico che prende dal sogno e mischia il suo stile visionario al reale. Cărtărescu è un portentoso narratore che scava la realtà fino a estrarre il fantastico. Lo ha già fatto in Solenoide, nella trilogia Abbacinante, nell’ambizione di comporre una cartografia del proprio cervello, a maggior ragione può dilatarsi in un’opera come questa che si muove sull’orlo dell’onniscienza e dell’abisso. Theodoros estende le porte della percezione del lettore: c’è dentro la tragedia, la satira, il testo sacro, il romanzo di avventura, il realismo magico, il favoloso labirinto dei racconti di Sherazade.
Cărtărescu definisce Theodoros un romanzo pseudo-storico. Dietro l’opera c’è un enorme lavoro di ricerca che il lettore può ammirare mentre si avventura per i trentatré capitoli di ascensione dantesca. Il protagonista è l’imperatore di Etiopia, o il suo doppio, rumeno per parte di padre, greco per parte di madre; un pirata che vaga per mare e isole, un uomo divorato dalla sete di gloria, che parte alla ricerca di un regno e finisce per conquistarne uno. La storia mescola finzione e realtà. È ambientata per la maggior parte nell’Ottocento, ma ci trascina fino a tempi più antichi e si spinge nel futuro. Si divide in tre parti che sono le tre stagioni di Theodoros – infanzia, giovinezza, impero – ogni parte frammista all’universo.
“Hai amato sempre la luce e il mare, Theodoros, li hai sognati frammisti e sublimi prima ancora di averli visti, mentre tua madre, Sofiana, ti parlava delle gesta degli achei che assediavano Troia e del viaggio di ritorno sui mari dell’astuto Odisseo.”
Theodoros ha una prosa meravigliosa. Cărtărescu intreccia una lingua poetica con il mito, la fiaba, la letteratura, la ricerca storica, dettagli che sono testimonianze d’epoca. Leggere Theodoros è come vivere un viaggio maestoso, cedere alla malia di un grande sogno, avventurarsi in un’epopea che è al contempo mille storie diverse e una sola storia: l’ambizione sconfinata di Theodoros che, stimolato dalle storie fantastiche che gli racconta la madre da bambino, decide che un giorno sarà imperatore. O imperatore o nulla, diventa la sua ossessione. Ma come può il figlio di due servi diventare imperatore? Annichilito e invincibile guerriero, esaltato dalla vita di Alessandro Magno, attirato dal sogno del mare greco, Theodoros lascia il villaggio di Ghergani, perché solo andando via, solo avventurandosi, mischiando le carte del destino, si può sperare di trovare la via di un impero – e, per un misterioso avvicendarsi di casi e scambi di identità, sarà la remota Etiopia a realizzare la sua aspirazione imperiale.
La fantasia di Mircea Cărtărescu ha a disposizione un immenso materiale di leggende e storie sopra cui fantasticare e tessere la trama del racconto. L’Etiopia è la terra della bellissima regina di Saba, che unendosi carnalmente al re Salomone, diede origine alla dinastia salomonica etiope con il figlio frutto dell’unione, Menelik I. L’Etiopia inoltre ha il suo libro sacro, il Kebra Nagast da cui Cărtărescu attinge colori per le sue pennellate: in questo antico testo etiope si trova la leggenda dell’Arca dell’Alleanza che Menelik sottrasse a Salomone, e che Theodoros cerca per essere il re protetto dai cieli.
Così Theodoros diventa un macchinario infinito di storie: attorno al protagonista si muovono regine d’Inghilterra, primi ministri, finti imperatori degli Stati Uniti, antenati di John Lennon, venditrici di fiori di kosso, incontri saffici, e naturalmente la banda di palikari avventurieri del mare, pirati incendiari, antieroi mentecatti. Attraversiamo isole greche su imbarcazioni di vele dipinte, scrutiamo poemi omerici, aquiloni nei cieli di Bucarest, vaghiamo tra notti di miele eros e amori perduti. Avanziamo tra le storie e veniamo condotti in un luogo dove il mito si intreccia alla realtà – perché sempre Cărtărescu ci ricorda che la realtà è sogno, e la letteratura è l’oppio a cui abbandonarsi.
Che la poesia possa essere oppio Cărtărescu lo scrive in un capitolo bellissimo in cui Theodoros racconta il contrabbando di poesia che avviene tra i mari del mondo. Nell’universo impalpabile di Theodoros i poeti vengono perseguitati dalle autorità perché dissoluti e ribelli, per Theodoros invece i poeti sono l’unica speranza di mettere in pace il cuore, di sollevare l’anima dal nero, di dimenticare l’amore e sospendersi tra le nuvole di latta. Theodoros allestisce nella cabina della sua nave una biblioteca segreta di poesie, là si rifugia a leggere come se stesse fumando l’oppio, perché la poesia è crack, e il Childe Harold gioia allucinata, e non sorprende che Theodoros legga Byron.
In frammenti come questo riconosciamo tutto l’amore per la poesia di Mircea Cărtărescu, che ha cominciato a scrivere per mezzo di versi, e nel corso del romanzo si concede passaggi che hanno un ritmo alla Allen Ginsberg.
“Matematica pura e pensiero puro e parola che fa esplodere tutti i timpani e sogno e mito ed estasi e tortura e aleph elevato alla potenza di aleph e sguardo alla potenza dello sguardo e dolore alla potenza del dolore e denti e palato e tonsille e laringe e corde vocali vibranti entro siringhe e brane e sizigi e Odgoade, Yaldabaoth e Sophia in un perenne amplesso, gli dèi bluastri in copulazione con le dee azzurrine, tu non nato guardando i tuoi genitori che copulano, e i venti terribili del karma che ti spingono nel cuore di tutti i labirinti, e vite di vite e desolazioni di desolazioni ed eternità di eternità, bruciando con vampate nere, con gengive nere, con unghie nere, con ascelle nere nell’arcipelago del nulla distruttore del nulla distruttore del nulla…”
Cărtărescu non dimentica la poesia, il richiamo romantico di Mihai Eminescu, la nostalgia del poema Levante, il ritmo musicale del verso; ma Cărtărescu sa pure che il suo eroe Theodoros non può accontentarsi della poesia o del sogno errante e piratesco di George Gordon Byron. Il desiderio di Theodoros è l’impero, il terrore, il comando. Theodoros non sarà mai Rimbaud che fugge in Etiopia per estinguere l’orizzonte.
Lo scrittore invoca il suo eroe – an uncommon want – ma non è il suo eroe. Tuttavia, in alcune interviste Cărtărescu ha detto, Theodoros C’est Moi, alla maniera in cui Flaubert sosteneva di essere Madame Bovary. Una frase che evoca l’enorme potere della scrittura e della letteratura. Esplorare il sussurro del cuore umano, la zona di tenebra dove lo scrittore può essere ognuno, sperimentare la moltitudine di gradazioni e sensazioni della complessa varietà di esseri umani, avventurarsi oltre i limiti di tempo e spazio.
La fantasia di Flaubert si spinse verso epoche mai vissute per comporre la sua Salammbò, allo stesso modo Cărtărescu sente suo il dramma di Theodoros, e tesse una grande tela dagli sfondi orientali, africani, mediterranei, irreali.
“più che un paradiso o un inferno, il mondo ci appare, poiché è semplice apparenza, come una fiera interminabile”
Mircea Cărtărescu intesse mito e poema, surrealismo e religione, fiaba e storia, e ci conduce in un luogo dove l’aroma della tella, la birra etiope, si mescola agli odori del mare aperto e ai profumi di una Bucarest che sa di menta e halva, raki e patate, merda e caffè. Bucarest che torna sempre, città labirintica e onirica, e là dove stavolta non c’è Ștefan cel Mare o un dedalo di sotterranei, la ritroviamo sfigurata dalla peste, centro all’avanguardia dell’illuminazione a gas, luogo di incontro tra Occidente e Oriente, capitale sospesa tra le due dimensioni di sogno e realtà. È in questa zona ignota e doppia che si sprigiona la scrittura di Cărtărescu, e la si ama tanto anche per questo, per il modo in cui ci fa fantasticare, e per come ci spinge oltre i limiti della parola. Theodoros è un prodigioso flusso di colori, odori, sapori, sensazioni, la radicale opera di immaginazione di uno scrittore dallo sguardo unico, un surrealista moderno che nel tentativo di estrarre una cartografia della storia umana, spinge al viaggio nella nebbia di miele del sogno.