Non un concerto, quello dei The Zen Circus al Teatro Concordia di Venaria Reale. Ma una festa in cui ognuno si è sentito invitato personalmente. E come ogni festa che si rispetti ha portato con sé qualcosa: chi la voglia di pogare, chi quella di emozionarsi e chi, semplicemente, l’intenzione di fuggire indietro di quindici anni, svestendosi di giacca e cravatta e mandando tutti affanculo per qualche ora. Dopo due sold out a Bologna e Milano, c’erano tutti gli ingredienti per rendere indimenticabile anche la terza data del tour di presentazione del nuovo album Il fuoco in una stanza. I primi a non avere dubbi sono stati – sì sembra strano vista la carriera degli Zen – i più giovani che appena aperti i cancelli si siedono a terra per accaparrarsi le prime file. Mostrandosi già carichi con l’esibizione della band fiorentina La notte, che sta aprendo le date del tour. Dietro di loro, campeggia l’infuocata scritta The Zen Circus come una fedele promessa. Il pubblico più maturo, e qui si vede l’esperienza dei concerti, arriva con calma, prendendo posto alle 21,45 come scritto sul programma.
Ancora troppo presto, però, per il vero inizio del concerto che aumenta la suspence del parterre già impaziente. Le luci calano, come per pacare l’attesa, per rialzarsi sull’intro affidato a Il cielo in una stanza di Gino Paoli. Il pubblico inizia a canticchiare per poi esplodere in Catene, primo singolo del disco e brano scelto per aprire le serate. Il continuo è col botto con Canzone contro la natura e La terza guerra mondiale ed è subito delirio. Il punk-folk riempie l’aria, già satura di sudore e birra. “Più voi fate casino, più noi facciamo casino”, gridano Appino e Ufo dal palco. E nessuno ha niente da ridire, si sa che è proprio così che andrà. La sfida viene ben accolta con Vent’anni e Non voglio ballare. Ma l’andirivieni tra i dischi prosegue. È il momento de Il fuoco in una stanza, ed è come se su quel palco ci fossero tutti: Appino, Ufo, Karim, il maestro Pellegrini, il pubblico in sala, ma anche le madri, i padri, i nonni, i figli, le sorelle, i fratelli, gli amici, chi ancora non si è mai conosciuto e chi forse si incontrerà. In un’unica voce: “Non basta una città intera per sentirti meno sola, libero cos’è per chi libero non è”.
La simbiosi, questa volta più fisica, torna con Andate tutti affanculo e Ilenia: ci si scatena mentre la scaletta è intervallata da pezzi nuovi e aneddoti di Appino, dai bar del lungomare, dai postumi, dalle giornate spensierate a leggere il giornale.
Con La Stagione, l’odore di birra viene coperto dalla consapevolezza degli anni, dei sacrifici, delle vittorie e delle speranze che riscoppiano nel centro del parterre nel pogo per Pisa merda e I qualunquisti. Una successione che svuota la sala, apre il cerchio e dà vita al caos. In decine, tutti senza maglietta, quasi ballando insieme il coronamento della felicità del momento. La fine del concerto è ancora lontana, lo sanno tutti perché la scaletta del tour continua uguale a quella di Milano, ma nessuno si risparmia. Anche Ragazzo Eroe è uno show: quello di Karim che abbandona la batteria e si cala tra la gente. Ma la scaletta ne riserva di cavalli di battaglia, un crescente fino a Figlio di Puttana: bastano davvero poche note per sentire il coro alzarsi. La voce di Appino arriva solo due strofe dopo a condurre le danze. Il ritorno sul palco, richiesto a squarciagola dopo una finta chiusura con Nati per Subire, è ben studiato: si parte con L’Anima non conta, tra occhi chiusi e luci di smartphone al cielo, fino a Viva. Acclamata varie volte durante la serata, attesa da ogni singola cellula che era lì dentro e ballata fino allo sfinimento. E capisci, in quel momento, che l’estate infuocata è ufficialmente arrivata. Non solo in una stanza.
INTERVISTA UFO
Una carriera così lunga e immersiva è segnata dai cambiamenti. Lo dicono i testi, passando dall’Andate tutti affanculo, a parlare di una nuova guerra, arrivando a dare voce a una personalissima “stagione del dolore”, e lo ricorda la musica. Come si è evoluto l’approccio nel raccontare il mondo che vivete?
È un doppio binario. Il cambiamento c’è ed è legittimo. Tutti noi si va avanti nella vita. Cambia il pubblico e cambiamo noi, portandoci ad avere meno timore di raccontare cose più personali. D’altro canto c’è continuità. Sin dai primissimi lavori è stato chiaro il nostro approccio di fotografia dell’esistente. C’è un patto tacito con il pubblico, quello di fare insieme un esperimento di verità e non cambia. Le tematiche nascono con il confronto con le persone. La terza guerra mondiale ha rappresentato un po’ un climax nella nostra carriera. Era un passaggio naturale, da Andate tutti affanculo, involontariamente profetico e Canzoni contro la natura, abbracciavamo uno sguardo finestrato sull’Italia. Raccontando sensazioni che si andavano espandendo e iniziavano a comprendere tutto il mondo. Poi, come in ogni dopoguerra, si riparte dalla dimensione intima, dalla famiglia, dal focolare domestico. Dalla stanza, appunto. Per noi il fil rouge è sempre la descrizione di ciò che ci sta intorno, in un modo che qualcuno definì cinico. Ma in realtà, tra le righe c’è sempre la speranza.
Una virata netta sulle tematiche in questo dopoguerra. Come è stato accolto dal pubblico?
Nasciamo come artisti di strada, la nostra vita si è sempre svolta in simbiosi con il pubblico. È sempre stato sincero con noi, non vedo perché avremmo dovuto fare il contrario. E le soddisfazioni arrivate sono state tante, non solo discografiche o in termini di presenze. La sensazione più bella è vedere come le persone introiettino i testi e sentano propri quei brani. Ciò ci ha permesso di capire come fossimo riusciti a parlare universale nel particolare. Il fuoco in una stanza è un disco che ha toccato nell’anima tanti. Non intimista ma intimo, in cui il tema fondante è la definizione di sé con gli altri. È evidente nella copertina, o in Catene che apre l’album (e anche i live del tour, ndr). Tutto questo è stato capito e ne siamo felici.
Ora siete in giro con il tour di presentazione del disco di 7 date e il primo maggio sarete al concertone di Roma. Seguendovi, sia nelle vostre storie social ma anche sul palco, si ha come l’impressione che siete nati per i live. Sembra che non vedete l’ora di risalire nel camper per girare l’Italia, è così?
La dimensione live ci è mancata tantissimo. Difficile pensare di fare un disco e guardarselo da casa. Il disco serve per fermare e registrare quello che avevi in mente. Ma poi devi proporlo, vedere i feedback, capire come lo senti. Il live è una tappa. Suonare all’Estragon a Bologna è stato fenomenale, la gente cantava pure l’intro. E l’azzardo di aprire con un pezzo nuovo, Catene, è riuscito: chi a casa lo ascoltava in cuffie era lì che ballava. È terapeutico. E noi crediamo molto alla musica come missione sociale, non politica. Al di là delle mode, l’intenzione è trovare il modo di emozionarsi ed emozionare, di trasmettere passione. E se viene colta, beh allora è fantastico.
Proprio parlando di mode, voi stessi avete detto che è troppo tardi per avere ansia di essere in voga, spiegando di essere indipendenti e liberi con le tempistiche dei dischi e le scelte dello stile. Quanto si paga, se si paga, questo a livello di successo?
Non si paga e non si prende. Non è mai stato l’anno degli Zen quindi in un certo senso è sempre stato l’anno degli Zen. Avere le mani libere è bellissimo. Aver fatto 10 LP in completa autonomia è da privilegiati. Poi ci hanno dato per spacciati mille volte, ci hanno dati per morti e rinati, ci hanno declinato nei vari momenti che vivevamo, dal post-rock al cantautoriale. E noi, nonostante le mode, sapevamo che avremmo suonato a prescindere e questo ci dava serenità enorme. Pochi sanno che non abbiamo un contratto con La Tempesta, che i dischi escono quando vogliamo. Certo, ora la scena italiana è cambiata, credo che lo spartiacque sia stato Vasco Brondi che ha mostrato come si potesse diventare noti presto. E ci sono tante band, ragazzi che vanno sul palco e danno il meglio di loro, anche se i grandi musicisti fanno le boccacce. Non dobbiamo lamentarci, anzi credo che non tutti debbano fare gavetta come noi.
L’occhio interessato alle nuove realtà vi contraddistingue. Lo dice l’etichetta alla ricerca di band emergenti Iceforeveryone che come Zen avete creato, che ha dato opportunità a band come i Fast animals and slow kids di incidere. Tu stesso, tra l’altro sei stato a Torino per il premio Buscaglione. Una domanda rischiosa: qual è il percorso giusto per le band di oggi?
Non sono una band di oggi, quindi non posso saperlo (ride, ndr). Diciamo che noi abbiamo sempre vissuto con estremo pragmatismo. Forse oggi si è avvantaggiati dai social. Noi non li avevamo, ci siamo arrivati tardi e quando lo abbiamo fatto c’era poco o niente. Non che l’obiettivo sia fare like o condivisioni: la musica non è una gara a chi arriva prima ed è per questo che siamo critici nei confronti dei talent. Ma se sei mosso da motivazione genuina, fidati si nota. Come La Notte. O i Canova, un bell’esperimento. Quando si sono lanciati in un tour mostruoso di 70 date, che per dei ragazzi sono tantissime, pensai: o sopravvivono o scoppiano. E loro stanno dimostrando di potercela fare, di andare sul palco e riuscire a dare il meglio. Credo sarà uguale per Ghali, quando il tormentone trap si livellerà lui farà altro ma continuerà.
Forse oggi si è perso il concetto di band emergente, si pubblica e si riescono a incassare sold out. Prima la strada era lunga, non credi?
Sì, una volta era uno stigma. Quando ti davano della band emergente era da farsi la croce. Era una condanna e non a breve.
Una gavetta che vi ha portato a essere quello che siete oggi. Ma ci saranno stati anche errori. Ne ricordi qualcuno che si è rivelato nel tempo azzeccato?
Nella nostra carriera di zappe sui piedi ce ne siamo date, forse miliardi. Ma crediamo molto nella teoria dell’errore utile. Anche nell’ultimo album, qualcosa di sbagliato nel basso l’abbiamo lasciato. O, parlando di etichette, mi ricordo che ci fu un momento in cui ci dovevamo passare con la Warner tedesca e ci affidammo a un distributore in Germania. Una sera ci mandò una mail per dirci che era in corso un controllo della Finanza nel suo studio e che stava chiudendo. Nel giro di una serata ci vedemmo persi e mancava un mese dalla deadline per il disco. Ma si fece avanti Giovanni Gandolfi dell’Unhip records: si creò un rapporto stupendo, ancora oggi siamo onorati di comparire nel catalogo dell’etichetta che rimarrà nella storia.
Visti anche i testi con molti rimandi geografici, tra tutti Pisa merda, sembra essere stato indispensabile il fatto che arriviate da una provincia. Realtà territoriale che, forse come propulsore di ambizione o per noia, è da sempre vivaio per le band. Quanto è stato importante?
Hai colto benissimo, lo stampo provinciale per noi è stato fondamentale e lo porteremo sempre appresso. Lo raccontiamo in diversi brani, come Ragazzo Eroe o Sestri Levante. Prima c’era Milano, Torino o Roma. Oggi le cose sono cambiate, l’Italia è un territorio più puntiforme. Brondi è partito da Ferrara, i Fask da Perugia, i Pan del Diavolo dalla Sicilia. Credo che la provincia sia un punto di osservazione privilegiata, forse per l’isolamento che ti permette di coltivare passioni. Il più grande collezionista ed esperto di 78 giri è un falegname che sta in cima a un monte. Noi ci sentiamo molto grati in questo. La provincia è imprescindibile. Prima la lasci poi ci torni, io per esempio vivo in un paese ancora più piccolo.
Avete programmi estivi dopo questo tour di presentazione che sta già collezionando successi e sold-out con Bologna poi Milano?
Non posso spoilerare ma di sicuro c’è molta richiesta per la band, Locusta è già al lavoro. Molti promoter che abbiamo conosciuti negli anni passati sono rimasti contenti. Tra pochi giorni, inoltre, ci sarà il concertone del Primo Maggio. Tutti insistono che è diverso, che lo capirò quando vedrò quante persone ci saranno ma è un concerto e sono sicuro ci troveremo bene. Ora come ora pensiamo ai concerti-macroeventi in giro per l’Italia, li abbiamo fatti anche come celebrazioni di noi stessi. Dopo 18 anni ci sentivamo pure noi di fare il sold-out. Di meritarcelo.