Attenzione: potreste incappare in qualche spoiler
A un certo punto The Young Pope tira fuori i nomi dei Daft Punk, di Stanley Kubrick e Salinger, come i più importanti artisti – rispettivamente nel campo della musica elettronica, della regia e della letteratura – negli ultimi anni. Papa Jude Law sostiene che siano i più importanti (da non confondere con i più bravi) perché della loro identità e vita privata si è saputo o si sa poco: Salinger viveva da ritirato, i Daft Punk non hanno mai rivelato al mondo i loro volti. E così salta fuori l’idea per l’ufficio marketing del Vaticano: nessuna fotografia, nessuna immagine del Papa da riprodurre su portachiavi e piatti, il volto del Pontefice deve restare un mistero, luci basse durante i grandi discorsi in Piazza San Pietro. La donna che si occupa di marketing in Vaticano trova l’idea geniale. La figura del Papa deve somigliare a quella di una rockstar.
Questa vocazione rock è arrivata sullo schermo diritta sin dai primi minuti della serie diretta da Paolo Sorrentino, quando Lenny Belardo – aka Papa Pio XIII – sogna il primo discorso alla finestra, e compare come una vera e propria rockstar arringando contro una folla urlante che sembra quasi essere accorsa a un concerto dei Rolling Stones. E poi prosegue sin dalla prima sigaretta di Belardo. Si scopre un Papa rigido, capriccioso, a tratti talmente intransigente da sembrare ateo, come nei migliori racconti di Dostoevskij. Il giovane Papa di Sorrentino ricorda un giovanissimo Stavrogin alle prese con la più alta carica di una delle religioni più diffuse sul pianeta.
Un protagonista complesso, interpretato magnificamente da Jude Law, tanto che già si sono tirati fuori i primi paragoni con il Kevin Spacey di House of Cards, per quella vena di cinismo da comando a cui ammiccano entrambi. Nella realtà Lenny Belardo diventa Papa per pura fortuna, mentre Frank Underwood muove le carte sotterranee dei giochi politici per arrivare a diventare Presidente degli States. Tuttavia l’ispirazione di Spacey/Underwood sembra starci a tratti, almeno per quanto riguarda la caratterizzazione del personaggio. Ma se House of Cards mantiene una regia più classica e con ritmi intensi (il primo episodio è diretto dal magnifico David Fincher), Sorrentino a volte prova a eccedere e stupire, con tocchi talvolta un po’ troppo andanti sul sentimentale, e ritmi meno serrati e intensi di HOC.
Quando va indietro nel tempo – per esempio – a indagare l’infanzia del giovane Papa, e l’incontro con Suor Mary (interpretata da Diane Keaton), sembra di calarsi improvvisamente dentro una fiction all’italiana con una dispersione del ritmo da serial. Resta tuttavia intatta la vocazione da grande bellezza del regista italiano, che intermezza immagini di magnificenza della città di Roma che fanno rabbrividire la glaciale Washington dipinta da Fincher (ma qui è questione di sensibilità). Sorrentino fa il Sorrentino anche per un prodotto tv insomma, e questo può piacere o non piacere. Metti il gusto per l’eccesso di Paolo Sorrentino a dipingere un racconto dentro uno dei palazzi di potere più eccessivi della storia dell’umanità e avrai il gioco servito.
Non ci sono piume ma escono fuori dal cappello canguri, crocefissi, giardini, e fuochi d’artificio figurati. Per ora tuttavia non è ancora chiaro se questo serial sia un puro esercizio di stile del regista italiano o se la trama si aprirà con l’andare avanti delle puntate. La differenza con HOC sta proprio qui, Underwood agisce all’interno di una storia, non si limita a fumare sigarette alla finestra con la moglie, mentre l’immagine del giovane Papa che accende una sigaretta ha una forza visiva che sembra non aver bisogno di una vera e propria trama. E così pure i discorsi in salsa dostoevskijana sull’ateismo – vero o presunto – del Papa posseggono una forza a sé stante.
Eppure – diciamolo – anche questa è un’immagine di forte impatto visivo.