I Wombats hanno avuto una carriera strana.
Tralasciando il fatto che essere dei marsupiali di base a Liverpool non deve essere stato semplice — se non altro in termini adattamento all’ambiente e posizionamento nella catena alimentare — si son sempre ritrovati nella scomoda situazione di quelli che dovevano dimostrare qualcosa ogni volta che rimettevano piede in uno studio di registrazione. Tutto questo nonostante (o forse a causa di — non è una novità: certa gente con la penna tagliente perdona il successo solo se superi un certo numero di zeri, in termini di sterline) un riscontro di pubblico che non ha mai visto cali oggettivi, anzi.
Abbandonati sulle coste inglesi da quella mareggiata indie che dieci anni fa alzò il livello delle acque delle spiagge europee con un lustro abbondante di ritardo — sull’onda causata dallo tsunami che il primo disco degli Strokes aveva messo in moto dall’altra parte dell’oceano — sono riusciti abilmente a dribblare il reflusso che avrebbe voluto inghiottirli di nuovo nelle profondità degli abissi insieme alla frettolosa etichetta di “fuoco di paglia” che era stata loro affibbiata da gran parte della critica e oggi, arrivati al quarto album, son pronti a imbarcarsi di nuovo, sulla superficie limpida, calma e liscia come l’olio di uno UK Tour già felicemente sold out.
Nell’ormai lontano 2007, si presentarono al mondo emerso con uno dei debutti più azzeccati del ventunesimo secolo: A Guide to Love, Loss and Desperation (probabilmente il titolo più azzeccato del ventunesimo secolo) — grazie ai suoi inni giovanili all’insegna di traslochi trans-atlantici (Moving to New York), ribellioni allo status-quo (Kill the Director) e avventure-disco che prendevano il coraggio a due mani irridendo conclamate icone post-punk seppellendole con una risata (Let’s Dance to Joy Division) — era la summa perfetta di tutta un’estetica adolescenziale legata a un movimento (tu chiamalo, se vuoi, genere musicale) che andava volontariamente perdendo ogni tratto di indiependenza, provando a darsi in pasto alle masse, senza rinunciare all’onorevole tentativo di mantenere una certa qualità compositiva.
A qualcuno è andata di lusso (gli Arcade Fire ormai fanno la strategia promozionale guardando — come competitor — non più ai Vampire Weekend, ma agli U2), qualcuno si è scavato il proprio cunicolo protetto e ha tirato dritto per la sua strada rimanendo volontariamente ai margini dello stardom nonostante i continui inviti a partecipare alla festa (in questo senso, sempre siano lodati gli Spoon), di molti — incapaci di dare seguito a tre minuti e mezzo di hype in 4/4 e quattro note — si è perso le tracce (cercasi notizie di gente — che ne so — tipo gli Art Brut o i Rakes… stanno bene? che lavoro fanno adesso?).
I Wombats, per una (non si sa quanto fortuita) combinazione di eventi, l’hanno sfangata più che bene e, nel loro iniziale disperato e autoironico tentativo di catturare lo zeitgeist di inizio millennio, si son ritrovati a esserne parte integrante. Con tutti i pro e i contro del caso, s’intende. Da un lato — come accennavamo — sono (e sempre saranno) in quella posizione precaria in cui ti ritrovi obbligato ad assicurarti che la tua musica stia pompando qualcosa (qualità, fidelizzazione, incassi, gossip — la differenza, dal lato manageriale, è solo apparentemente abissale) a ritmo regolare nelle vene che contano e che portano ossigeno al cervello malato dell’industria musicale, in modo da non veder calare in picchiata il consenso ottenuto così precocemente, dall’altro hanno generato una quantità tale di imitatori annacquati da ritrovarsi — in un mondo in cui, ribadiamo, oltre una certa soglia di vendite la quantità inizia pericolosamente a fare la qualità — tutta una schiera di concorrenza clonata alle porte del laboratorio, ancor prima di capire che era in corso un esperimento sulla loro pelle. Al punto che c’è chi avrebbe suggerito ai tre amici — per riuscire a distinguersi da ciò che erano stati — di iniziare a cambiarla sul serio. La pelle, dico.
Ecco, al riguardo, dopo una decade abbondante di raccolta dati, possiamo sbilanciarci su un dato di fatto (tutt’altro che scontato — la storia della musica ci insegna): nessuno sa fare i Wombats meglio dei Wombats. E questo è esattamente il ruolo in cui li ritroviamo — per l’ennesima volta — nel nuovo Beautiful People Will Ruin Your Life: ritmi secchi e puliti, beat vivaci e chitarre che fanno del riff ammiccante la loro ragione di vita e un gusto per la melodia pura tipicamente british — unito alle solite liriche maliziose quanto smaliziate, piene di espressioni irregolari e strambe e giochi di parole che ballano incoscienti sul precipizio che sta tra stupidità e genio — ci ripropongono, in queste undici tracce, la quintessenza di una band che sa benissimo in cosa è brava.
Nello scegliere i singoli, per esempio: non è un caso infatti se i tre pezzi che hanno anticipato l’uscita del disco sono esattamente le tre tracce con cui si apre la tracklist. Cheetah Tongue è la prima pallottola vagamente psych-pop sparata a squarciagola verso le prime file del palco di un festival estivo a caso e mette subito in chiaro che qui con le rime si ha una relazione aperta e senza troppe implicazioni affettive, visto che obbliga a un bacio forzato “run me over” e “orange cola”. Segue Lemon to a Knife Fight, che va dritta a sfiorare la perfezione indie-danzereccia e suona già universalmente — da un paio di mesi ormai — come il candidato premier al riempimento delle piste nelle discoteche rock del globo terracqueo. A chiudere trittico compare poi Turn, esempio da manuale della capacità disinvolta che il trio di Liverpool (ormai definitivamente “rilocato” ai tre angoli del pianeta — Matthew Murphy a Los Angeles, Dan Haggis a Londra e Tord Øverland Knudsen a Oslo) hanno sempre avuto di catturare, in due righe e un paio di note, istantanee di pura nostalgia decadente, ed è forse la cosa più simile a una ballad che il sentimentalismo lunatico del frontman della band credo riesca a concepire, non fosse per il fatto che — appunto — pare dedicata, piuttosto che a una ragazza, ai bei tempi andati in cui ci si poteva sballare spensierati a bordo piscina ascoltando Drake (?!) con gli amici.
Purtroppo, proprio qui le cose iniziano a complicarsi di qualche perplessità, non tanto musicalmente parlando, quanto — ancora peggio, a dirla tutta — sotto un aspetto riguardo al quale in passato i Wombats avevano dato il loro meglio: i testi. Sì, perché — onestamente — non credo che la scena rock d’oltremanica avesse davvero bisogno di un altro ultratrentenne che confessa senza mezzi termini «I want to get college girl drunk tonight» e il passaggio da una cosa ancora vagamente ascoltabile «You could give an aspirin the headache of its life» al capolavoro di banalità prepuberale che arriva in Black Flamingo («I wanna love you but it hurts hurts hurts») il passo è più breve dei 140 caratteri entro i quali incapsulare il tweet che si meriterebbe in risposta: “Matthew, you’re better than that that that”.
Insomma, costantemente in bilico tra la loro maschera di boy band emozionalmente instabile e un’effettiva quanto innegabile maturità stilistica che lentamente (ma in maniera ostinata) prende forma nel corso del tempo, l’impressione è che i Wombats crescano — proprio nel senso di diventare adulti — a livello compositivo di disco in disco, ma non abbiano proprio la forza (temo nemmeno la volontà) di provare a rivolgersi a un pubblico anch’esso cresciuto. Quelli che ballavano sulle note di Ian Curtis e Peter Hook per celebrare l’ironia della cosa quando avevano quindici/venti anni, adesso vanno per la trentina, eppure la musica del trio anglo/norvegese sembra voler continuare a parlare ai loro nipoti quindici/ventenni piuttosto che ancora a loro, nel tentativo azzardato di commemorare un’età (o quantomeno uno stato socio-mentale — dopotutto si può rimanere giovani, bamboccioni e choosy anche sulla via degli -anta, come ci ricordava qualcuno qualche governo fa) invece che coltivare una fanbase trasversale col passare delle stagioni.
Forse proprio (o anche) in questo senso può essere letto lo speranzoso outing di Murphy, estratto dal comunicato stampa di presentazione del disco: «I kind of wanted to make an album that at least had the chance of being timeless, and not become outdated». Proposito ammirevole, quanto imprudente, appunto. Sotto un certo punto di vista, infatti, potremmo supporre che lo sforzo sia stato come minimo inutile in partenza, visto che la loro storia dimostra che le hit più di successo uscite dalla loro sala prove lo sono diventate — timeless — in maniera del tutto naturale e senza il bisogno di un intervento preventivo della band (senza che la band le scrivesse con questo obiettivo dichiarato e/o con questa ossessione in testa, intendo). Da un altro invece, questo bisogno impellente di creare qualcosa che potesse diventare una pietra miliare dell’indie-rock classico, poteva rischiare di mettere in ombra una delle caratteristiche che ha sempre contribuito a renderli amabili — l’ostinata capacità ed esigenza di non prendersi sul serio — e comunque ha solo prestato il fianco a quelli che da tempo sostengono la teoria secondo la quale — nel loro caso — “classico” altro non sia che un eufemismo per “la stessa cosa che suonano ormai da quando intrattenevano i partecipanti all’autogestione nell’aula magna del liceo”.
Sarebbe, quest’ultimo, un approccio dozzinale e ingiusto al lavoro di una band che si è costantemente (e continua a farlo) dimostrata brillante, ma si sa: brutta bestia, l’invidia. La verità è che il panorama indie inglese da sempre trabocca di turnisti di talento e parolieri ammiccanti, ma raramente ha partorito gente in grado di sputar fuori con tanta nonchalance, contemporaneamente, melodie memorabili e un’eloquenza storta e intelligente, mischiandole insieme in raffinate canzoni pop che sanno essere allo stesso tempo cerebrali e catchy, come hanno saputo fare i Wombats con l’andare degli anni.
Certo, sicuramente hanno perso il fascino lo-fi di un tempo: quel taglio ruvido, sporco e grezzo che per molti ha reso la loro musica così deliziosa, è definitivamente scomparso ed è qui sostituito da una produzione ricca e rifinita con estrema cura. Il lavoro di Mark Crew e Catherine Marks in questo senso è stato sopraffino e Beautiful People Will Ruin Your Life ha dei suoni fantascientifici, eppure — per fortuna, aggiungerei — conserva ancora dei tratti lungo i quali riaffiora prepotente quel magnetismo ingenuo che spesso ci ha tenuti attaccati alla band di Liverpool nonostante l’incombere di quel periodo della vita in cui devi per forza mettere la testa a posto, quella loro attitudine frivola e sorniona, quasi sapessero che la loro musica suona in qualche modo vagamente idiota, ma divertente, e i loro testi — tutto un tripudio di mal di cuore, dubbi esistenziali e difficoltà nella scelta di quali droghe usare per dimenticarseli — rubati agli scarabocchi del diario sognante di una teeneager.
La notizia è che — pur iniziando a dare qualche cenno di cedimento — la formula funziona ancora. Non saprei dire ancora per quanto — se gli scricchiolii che si percepiscono siano degli innocui rumoretti di assestamento oppure preludio di un crollo imminente — ma questo disco ancora regge, sia quando tira fuori sorprendenti gemme dove i Pixies e i Blur si prendono per il culo a vicenda (Ice Cream), che quando mette in piedi pezzi che potrebbero essere usciti da un tentativo degli XTC di coverizzare i Roxette (Dip You In Honey), un po’ meno quando inciampa in melensaggini figlie di una notte di sesso svogliato tra i vari componenti dei Foster the People, mentre Ed Sheeran guarda dal buco della serratura (I Only Wear Black).
«I don’t know why I like you, but I do», cantano i Nostri nel pezzo di chiusura, e questa, in fin dei conti, altro non è che la sensazione dolce-amara che questo album ti lascia come retrogusto: è piacevole e niente più ma nonostante questo ti prende benissimo, non ha nulla di trascendentale però — a voler essere sinceri — anche ben poco di cui vergognarsi, lo dimentichi presto eppure riesce a fare di tutto ciò quasi un punto di forza, visto che — come affetto da un disturbo di memoria a breve termine — ogni volta che lo riascolti finisce per non annoiarti praticamente mai. Ti piace, insomma, ma a un’analisi più approfondita fai una fatica del cristo a trovare delle motivazioni plausibili per definirlo “un gran bel lavoro”, o anche solo ad argomentare un semplicissimo perché.
Se fosse una persona, diresti che “è un tipo”: carino, simpatico, (s)pettinato bene, in nessuna occasione particolarmente irritante e in certi momenti addirittura figo. Di quelli che ti lanciano segnali contrastanti a cui rispondere con occhiate altrettanto ambigue, per poi finire, quando capisci che ha frainteso la cosa oltre i limiti del dovuto, a derubricare il tutto a uno swipe su Tinder o a mettere le mani avanti con un’imbarazzatissima caduta di stile: il classico, deludente luogo comune, riassumibile in una scontata arrampicata sugli specchi, quella che riempie la pausa che sei costretto a inserire tra le parole “no, sai…” e “è che io ti vedo solo come amico”.