È uscito il 30 marzo, ma non è mai troppo tardi per parlarne, anche perché si tratta di una band che personalmente ho molto a cuore e credo sia un disco fondamentale per capire in che direzione andrà il nostro amato Indie/Alt rock, che ormai da almeno due decenni racconta i nostri tormenti e le nostre “bagatelle” amorose. Genere che per molti è morto mentre per altri avrà bisogno di una inevitabile svolta elettronica per sopravvivere.
I Vaccines sono nati nel 2010, ultimo lascito di quel primo decennio del 2000 tanto prolifico per questa tipo di scena, a metà tra l’Inghilterra e gli Usa. Per intenderci erano gli anni dei Libertines di Doherty, degli Strokes, degli Arctic Monkeys, dei Maccabees e di tutta quella miriade di band che spuntavano come funghi delle quali Pitchfork e NME principalmente tessevano le lodi.
Esordiscono col botto nel 2011, con What Did You Expect from the Vaccines, album che li ha portati subito in vetta alle classifiche e li ha resi celebri in tutto il mondo, anche grazie a Post Break Up Sex e If You Wanna che sono diventati da subito brani cult per gli estimatori del genere. Presenziano a numerosi festival, girano l’Europa e il mondo fino a quando nel 2012 fanno uscire Come Of Age, portando a termine ciò che avevano iniziato un anno prima e proseguendo sulla falsa riga del primo. Qui Justin Young (voce e chitarra ritmica) e Freddie Cowan (chitarra solista) non sperimentano troppo, vanno sul sicuro ma mostrano di esser cresciuti, declinando in nuovi modi le sonorità sporche ma curate, la batteria incalzante e il basso semplice che li aveva portati alla ribalta. Un esempio concreto della poetica dei Vaccines: giovani e annoiati ma con un ottimo gusto musicale ed estetico. Deludono leggermente le aspettative ma viaggiano comunque spediti sulla cresta dell’onda, perché ormai un po’ di seguito lo hanno e ai fan quest’album piace.
Dopo una lunga tournée e due anni di gestazione, nel 2015 esce il loro fatidico terzo album: quello della maturità, quello del dentro o fuori. Si intitola English Graffiti, ed è qualcosa di veramente nuovo per la band che era stata tacciata di essersi arenata in una palude di pop rock e schitarrate, sperimentano tantissimo dimostrando di saper scrivere bene e di saper suonare, ma il risultato è che si sono snaturati. Rimane quel dinamismo che li caratterizzava e distingueva solo in Handsome, uscito come singolo, unico brano davvero Vaccines.
Dopo quest’ultimo la compagine londinese accusa una perdita di stimoli, mostrandosi in una leggera fase calante, il batterista storico Pete Robertson abbandona, non sono più spensierati e scanzonati tant’è che Justin Young in un’intervista precedente all’uscita di Combat Sports ha dichiarato: “We wanted to make the best record we’ve ever made. We decided we needed to make it fun again.” Ed è così che si presenta questo disco, figlio della voglia di tornare a fare ciò che hanno sempre fatto: divertirsi nonostante tutto, fregandosene e riportando in auge quell’aria da bulletti di paese, che in realtà sono dei teneroni e vogliono un sacco di bene alle loro mamme.
Si parte con Put It On a T-Shirt, esplicito richiamo a quella pratica di stampare le foto su una maglietta in pieno stile “luna park”, brano con un ottimo testo, banalizzato leggermente dal motivetto, ma che tutto sommato apprezzo perché è molto dolce l’idea della t-shirt con la foto da sbattere nel muso a chi diceva che sarebbe stato un amore impossibile. La seconda traccia è I Can’t Quit, primo singolo uscito: un inno alla giovinezza in perfetto stile Vaccines, buono, nonostante gli uuh-uuh troppo pop e un pochino banali.
In quest’album hanno finalmente re-imbracciato le chitarre suonando con l’energia degli esordi, come in Nightclub che parla di hangover e di una fanciulla che nella testa di Young e Cowan fa lo stesso effetto di una notte brava; e anche in Surfing in the Sky, a mio parere la migliore del disco e una tra le più riuscite di sempre, in cui la voce insegue basso, chitarra e batteria che corrono e pestano come quando erano giovani.
In questo disco c’è spazio anche per momenti più leggeri come Take it Easy e Out on the Street, a metà tra l’energico e il soft, che personalmente non ho apprezzato troppo, nonostante siano scritti bene.
A impreziosire il lavoro, la ninna nanna agrodolce Young Americans, che potrebbe essere stata scritta da Alex Turner per la lascivia e la malinconia dolcissima, probabilmente anche grazie alla produzione impeccabile di Ross Orton (lo stesso di A.M.). Nel finale c’è Rolling Stone, ottima come outro, splendido l’assolo di Cowan e i ricami di tastiera del nuovo innesto Tim Lahannan, dove affermano che i Vaccines ci sono, combattono e non si lasciano perdere d’animo.
Credo che quest’album sia il giusto compromesso tra ciò che erano prima e ciò che sono ora, quel misto giusto di freschezza e vintage ma anche un ottimo esempio di buona scrittura musicale. Penso sia un onestissimo quarto album, non sarà l’album del secolo ma non è nemmeno poi così male, considerando il percorso compiuto da questi ragazzi.
(Piccola parentesi sulla copertina che esteticamente non è davvero niente male, interessante quel pugno che è a metà un cazzotto e due mani che si stringono come per tirarsi su.)