Poi furono insieme così che mentre la lancetta si muoveva, invisibile adesso, sull’orologio, seppero che niente poteva accadere mai più a uno di loro senza che accadesse all’altro, che nient’altro poteva mai essere più importante di questo; che questo era tutto e sempre; questo era il passato, e il presente a qualunque cosa fosse per venire. Questo non avrebbero dovuto averlo, eppure l’avevano. L’avevano ora e prima e sempre ed ora ed ora ed ora. Oh, ora, ora, ora, quest’ora solo, e sopra tutto ora, e non c’è altro ora che tu, ora, e ora è il tuo profeta. Ora e per sempre ora. Vieni, ora, ora, perché non c’è altro ora che ora, sì, ora. Ora, per favore, ora, ora solo, nient’altro, solo quest’ora, e dove sei tu e dove sono io e dove è l’altro, e non il perché, non hai il perché, solo quest’ora; e ancora e sempre, per favore, e poi sempre ora, sempre ora, a partire da ora sempre lo stesso ora: uno soltanto. Non c’è che un solo ora, un solo, che ora va, ora si solleva, ora veleggia, ora ricade, ora turbina, osi gonfia, ora ti lascia, ed è sempre ora, sempre, sempre ora.
(E. Hemingway, Per chi suona la campana)
C’era la fretta che arrivasse primavera, e ora che l’abbiamo ci hanno costretto a guardarci dentro.
I BOTANICI, Solstizio, Garrincha Dischi
7 aprile
A questo servono gli esordi. Avere un’idea dentro e poi sputarla fuori e vedere che effetto fa, se può servire a raccontare solo la propria storia o a raggiungere anche quelle degli altri. Nel loro Solstizio, I Botanici, trovano un equilibrio fra il modo in cui esprimono le loro incertezze, i dissidi e scene della vita quotidiana, sfruttando la verve un po’ emo un po’ punk, e il modo con cui farsi ascoltare, approccio più pop e meditato, costante tensione fra la forza con cui si rompe tutto e la razionalità con cui si ricostruisce. Si tratta della riscoperta di un genere che si è dovuto scontrare con un necessario ricambio generazionale e si sta guadagnando nuovi interpreti. La materia di cui parliamo, di cui anche Magari sì e tutte le altre canzoni su cui ruota Solstizio si compongono, è la stessa dei Gomma, più disposta al compromesso col tempo che vive ma, non per questo, meno sincera. Vogliono esserne parte ma non lo sono del tutto, in questa situazione di ‘mezzo’, fra la parte ruvida e quella più delicata, I Botanici tracciano la propria strada: tu mi dici che le cose non cambiano mai / ma ora è inverno e tu non ci sei.
SOLKI, Peacock Eyes, Ibexhouse / Audioglobe
7 aprile
Abbiamo dimenticato da un pezzo il significato e il ruolo dell’attitude nella musica, forse non l’abbiamo mai compresa visto che ci siamo trovati in un mondo che ha perso parecchi movimenti e ciò che li rendeva tali. Non che sia stato necessariamente un male, diciamo che abbiamo perso una parte importante nella comprensione del tutto. I prodotti che consumiamo, siano dischi, libri o – anche – persone, sono valutati più per il loro contenuto finito che per il modo in cui, questo contenuto, viene trasmesso. Peacock Eyes è un disco con un’attitudine profonda, strettamente legata alla sua struttura più intima, definendosi a vicenda. Quello che i Solki ci presentano è una forte rappresentazione di ciò che vuol dire dare uno spettro completo al proprio genere di appartenenza, trasfigurandolo a proprio piacimento e volere, per questo motivo è necessario parlare di attitudine e non solo di composizioni. Serena Altavilla è la chiave malinconica che trasforma il tono dei brani, soave quando esplora la sua natura blues (Liza’s for All), improvvisamente rabbiosa e dura quando il ritmo si fa più stringente, come nel caso di Fuck Youth. Alterità supportata costantemente dalle oscillazioni della chitarra di Lorenzo Maffucci, trasformista completo, si tratti di creare canzoni più forti o di cambiare improvvisamente la tonalità all’interno della stessa, e dalla batteria in tempesta di Alessandro Gambassi. Se possiamo parlare di dream punk è proprio per questo, da un lato la capacità di fare un album interessante, inedito nel nostro panorama, dall’altro l’attitudine, quella forza che ti chiede un’adesione totale perché ti insegna quale parte scegliere, finalmente.
HAPPYNESS, Write In, Moshi Moshi Records
7 aprile
Ho scoperto gli Happyness per caso, una notte che non ricordo Spotify mi aveva buttato fuori il clamoroso disco d’esordio del 2015 Weird Little Birthday, una di quelle illusioni tipiche della dura competizione dell’alt rock americano, per cui per emergere è necessaria una costanza più alta degli altri. Basta un passo falso perché tutta l’attenzione scompare più rapidamente di quanto non sia arrivata. Per questo parlare di Write In risulta complicato, per le aspettative e quanto ci credevamo. Si tratta del tipico complesso dell’avere davanti, nelle casse, un disco completo e quasi senza pecche, ma che manca della scintilla per spingerti un po’ più in là. Il clima è piuttosto chiaro, è un disco silenzioso, che ha abbandonato le eccessive distorsioni del debutto per sussurrarti nelle orecchie. Costante sì, ma nel perseverare una dimensione fin troppo calma. Pezzi come Anytime o Anna Lisa’s Calling cercano di dare più movimento a un panorama tendenzialmente più rilassante e calmo (The C Is A B A G), ma sono gli unici movimenti rimasti, per una band che ha cambiato nettamente strada nel modo di suonare, salutando i colpi da Sonic Youth e Foxygen per una via più meditata, che esprime meglio ciò che sono. Una scelta coraggiosa che ripaga, ma spezza un po’ l’incantesimo di quella notte.
CABRERA, Una montagna in casa, DreaminGorilla Rec / Out Stack / Screamore / Stay
11 aprile
I Cabrera sono tornati, dopo l’esordio sul full lenght del 2015 di Da qui si vede tutto e l’EP Nessun rimorso. La formula rimane immutata, songwriting tendente all’emo, post rock per dare la giusta dose di oscurità ai brani che spesso sembrano avere un risvolto romantico, a stemperare il momento di maggior tensione. Una montagna in casa, rispecchia le scelte fatte in fase di scrittura e registrazione, linea a cui si fanno fedeli e che qualche volta li rende un po’ fragili e meno incisivi di quanto dovrebbero. Di questo parliamo, di un movimento che trasfigura l’intento che sembrano voler perseguire a metà, anche loro come I Botanici, fra due parti che attraggono ma sposarne soltanto una semplicemente non renderebbe. Oceano I e il suo proseguio naturale (Oceano II) si distinguono per questo carattere, deciso nel prendere finalmente una direzione chiara sui propri intenti e il futuro che li aspetta. Dovranno prendere una decisione, questi ragazzi modenesi, per farci vedere tutto quello che ancora sta nascosto dietro la montagna, simbolo manniano che incanta ma rischia sempre di lasciarti solo con un’illusione. Instancabili animali da palco che possono spingersi ancora più oltre.
OKLAND, S/t, Autoproduzione / Sounday
18 aprile
Che bello il debutto degli Okland, trio electro / avant pop di Torino, da aggiungere di diritto fra i nomi delle migliori novità di questo 2017. Con una formula delicata ed efficace i quattro brani colpiscono pienamente arrivando, cioè, in quel punto che causa una lotta fra l’adrenalina e, invece, quella sorta di Nirvana per il dominio dei movimenti. Dissonanze che caratterizzano l’intera esecuzione, nei riflessi dub di Dive, in collaborazione con Deb, e in quelli più verso la techno di Celeno. Nessuna delle tante componenti che racchiude ogni brano arriva mai a comandare, ne costituisce un punto di vista, ulteriore, su una composizione già ampia di suo. Indra possiede nella sua struttura le potenzialità per andare oltre i riferimenti evidenti alla scena elettronica legata all’avant-garde, e colpisce proprio per questo. Frutto purissimo di ricerche individuali che poi si confrontano, una insieme all’altra, nella tensione fra un approccio classico o più moderno a seconda dello strumento che, a turno, prende il ruolo di protagonista. Parliamo di elettronica, è vero, ma è proprio per la difficoltà a richiuderlo in un solo genere che Okland raggiunge il suo obiettivo.
A L M E E V A, Unset , InFiné Music
19 Aprile
Una storia complicata quella di Almeeva, producer francese con alle spalle una vita tra l’hardcore e la musica elettronica. Unset è il terzo EP prodotto da InFiné Music, già casa di Apparat e Bernard Szajner, con cui condivide l’estetica tendente al minimalismo e al gusto cinematico per le atmosfere dilatate. La vocazione al recupero di sonorità ninenties e a suoni più glam pervade tutte le composizioni, la cover di What is Love, rieditata al tempo che viviamo, è solo una delle dimostrazioni utili a confermare la nostra tesi. In brani come Clense e Some Revelation il tono si fa più cupo e denso, complice la drum machine che prende un posto di rilievo nella definizione del ritmo, vicina alla techno ma solo per il beat che si riproduce, perché la sensazione è diversa, allargata e smaterializzante. Intervenendo con colpi di synth, o la rimodulazione della voce, Gregory Hoeppfner mostra quel legame con Szajner e Sacha Ring, piazzandosi al centro di entrambe le poetiche, per liberare definitivamente la propria vocazione in Thames, compendio finale su espansioni e certezze, di un artista che con Cold Cave condivide storia e gusto per l’oscurità, ma preferisce dargli una piega che, più che isolare ognuno nel proprio incubo, consenta una condivisione di gesti e possibilità reciproche. Fuori dal club, dentro al minimalismo da sala cinematografica.
TECHNOIR, NeMui, Cane Nero Dischi
21 Aprile
I Technoir sono un duo dalle tante origini e influenze. C’è Alexandros, la parte meccanica, che mescola tracce electro del computer con il jazzy della chitarra, e poi Jennifer, voce tutta rythm n’ blues con tinte di puro soul. Cultura genetica da rielaborare con le nuove potenzialità dell’elettronica, strumenti che scottano e fanno scorrere sangue nei cavi, quando al sax si accosta la drum machine (Tiny Dots). Non stiamo ascoltando un disco d’avanguardia, che cerca di sfruttare certi campionamenti per avere un risultato che sconvolga l’ascoltatore. NeMui è qualcosa di diverso, senza tempo, un racconto su storie di persone che si amavano in tempi lontani e che tornano a risuonare, nello scambio di microfono di Elements Collide, ballata a metà fra Nina Simone, D’Angelo e certi scardinamenti cronologici tipici di Flying Lotus, mostrati anche nella confluenza hip hop di In the middle of Nowhere. Anticipato con tre EP, che qui vengono finalmente raccolti, mostra l’unitarietà necessaria e quel discorso d’insieme che aggiunge a ogni brano un tratto in più, contestualizzandolo definitivamente alla galassia di sfumature che compongono, e rendono piacevole, NeMui.
VRCVS, s/t, To Lose La Track
22 aprile
Riprendete sotto gli occhi le cicatrici e i lividi che avete battuto per mantenerli sempre viola tempo fa, poi metteteci le potenzialità di una notte di vento e avrete una piccola parte dell’idea che costituisce il debutto di VRCVS (pronunciato URCUS), moniker di Filippo Rieder, batterista dei FBYC. Insieme a tanti amici (Havah, The Death of Anna Karina, Nient’altro che macerie) Vrcvs ridescrive le città che più gli sono familiari tramite l’utilizzo di un’elettronica sognante, che sfibra il cemento e rende tutto più liquido. Le parole appena sussurrate, di questi testimoni, di colore nero, semi profezie quasi impercettibili su piccole storie che si abbandonano al cambiamento, vittime anche loro del passare del tempo. Ne consegue una profondità maggiore, un labirinto da cui è sempre più difficile uscire ma, in fondo, anche così umano nell’ammettersi che certe cose fanno male (Tu mi uccidi), anche quelle foto in cui eravamo più giovani e si stanno ingiallendo. La musica in questo modo è sofferta, ma viva, a un passo sempre più nero, in cui tutto ciò che diventa materiale può, potenzialmente, ferire.
VÖK, Figure, Nettwerk Music Group
28 aprile
È arrivato, finalmente, il momento di testare gli islandesi Vök sul long distance, dopo alcuni singoli e gli EP Circles e Tensions che tanto dicevano sulle loro potenzialità. Con Figure, la band di stanza fra Hafnarfjörður e Akranese, continua il cammino di questo dream pop ipnotico, studiato e denso di sfumature. La voce femminile di Margrét Rán, fra Björk e la lunga strada che lega la terra di ghiaccio con le correnti più calde e britanniche, è una base solida su cui diramare le prove evoluzioni. Una delle specialità della musica islandese è sempre stata sfruttare i paesaggi, i durevoli silenzi delle stagioni e i lunghi bui a loro favore, statuto onirico e mutevole che si esprime nella resa di una musica di dilatazioni e improvvisi mutismi leggeri sul finire di Floating. Fluttuare è il termine esatto per descrivere ciò che si vive, il tono rimane sempre fra il sogno e la veglia, non eccede mai, gli si dà la confidenza che merita un corpo sconosciuto, teneramente erotico come una carezza che ti sfiora all’improvviso, ma anche saldo quando prende le redini (Show Me). Per questo motivo i Vök non deludono, la struttura si è impreziosita, sposando una direzione complessa ma completa.
GOLDEN RAIN, S/t, bulbart label / Pocket Records
28 Aprile
Psichedelia pop, suggestioni dark e materiale ipnotico sono alla base dei brani dell’EP dei Golden Rain, duo nato a Napoli e composto da Zaionair (Almamegretta, The Sleeping Cell, Minimod) e Mario Grimaldi (Valderrama5, The Sleeping Cell). Esempio di un movimento che si sta sempre più ambientando nel nostro panorama, i Golden Rain sfruttano un numero incessante di influenze per dare alle proprie creazioni uno statuto conturbante, dall’indie di Lovers al dream di When I Go Away, ricordando riferimenti più legati a generi meno elettronici quando la struttura è, in realtà, quasi completamente meccanica. Mentre The Same Moon, pietra angolare dell’intera composizione, si attacca a una new wave più dichiarata. Con questo EP i Golden Rain ci mostrano come le esperienze, una volta che si comprende il loro ruolo e vengono messe a funzione di un nuovo progetto, possano dargli un’identità chiara e tutta da sfruttare.