a cura di Ilaria Atzeni
Dopo Revenge, Coralie Fargeat torna in azione con un body horror, The Substance, suo secondo film, vincendo un meritatissimo premio per la Migliore Sceneggiatura al Festival di Cannes 2024.
Elizabeth Sparkle, interpretata da Demi Moore, è una stella dalla bellezza ormai troppo segnata dal tempo per essere servita sul piatto di un pubblico smanioso di carne fresca e giovane. Una stella, come quella sull’asfalto di Los Angeles in onore della sua fama ormai invecchiata, ora calpestata da migliaia di persone tra un selfie e un hamburger cascato. Così ha inizio il film: un uomo, dopo aver fatto cadere accidentalmente il proprio hamburger, pulisce frettolosamente dalla salsa il tributo a Elizabeth Sparkle e se ne va, iniziando fin da subito lo spettatore al disgusto presente durante l’intera proiezione.
La Sostanza e la creazione dell’alter ego
Famosa in tutto il mondo per la sua passata carriera nel mondo dello spettacolo, Elizabeth è ora ridotta a iconcina di un programma televisivo di fitness, in cui la brutale esposizione del corpo femminile si cela vigliaccamente dietro a un «prendetevi cura di voi stesse». Quando la donna coglie sgraditamente Harvey (Dannis Quaid), direttore del programma televisivo, definirla, con tono ridicolizzante, un pezzo da sostituire, il ribrezzo e la mortificazione che prova vengono immediatamente percepiti anche dallo spettatore, costretto, dal primo piano sul volto di Harvey, a fissarne l’espressione viscida e morbosa.
Sotto shock e poco lucida, Elizabeth avrà un incidente in auto e finirà in ospedale, dove incontrerà un infermiere e ricercatore scientifico, dalla bellezza quasi artefatta, che le proporrà una soluzione alle sue sofferenze: una sostanza in grado di sdoppiare le cellule a tal punto da creare un alter ego, più bello, più giovane. Non si tratta però di due persone distinte poiché la matrice è una, questo deve ricordarsi Elizabeth: «tu sei una, non puoi fuggire da te stessa». Inoltre dovrà seguire le istruzioni alla lettera: l’attivazione avviene una volta sola e non appena la sostanza è iniettata e l’alter ego creato, sarà necessario che i due lati di Elizabeth, residenti in due corpi diversi, si alternino ogni settimana con precisione, in quanto ciò che viene preso da una parte per mantenersi in vita verrà tolto dall’altra; così ha inizio la tragedia e un conflitto, fino a quel momento puramente interiore, ora fisicamente tangibile.
Sarà tra le pareti prive di colore del suo bagno di casa, sterile come lo è un laboratorio, che la donna sceglierà di uccidere Elizabeth e dare vita alla versione “migliore” di se stessa, Sue, una giovane, sana e irresistibile femmina dal cuore buono e il viso innocente, che il pubblico amerà e che Harvey tanto cercava per il suo programma.
Schiusa da se stessa in modo a dir poco raccapricciante, mostruoso e rabbrividente, con una sensazione che solo lei e lo spettatore hanno vissuto, Sue è ciò che il pubblico, bisognoso di un modello irraggiungibile a cui aspirare, vuole sognare: sguardo dolce e allo stesso tempo provocante, lineamenti perfetti, lunghi capelli, vita stretta, gambe lunghe, glutei tonici. In poche parole, ciò che molti definirebbero la donna “perfetta”, bella e silenziosa; una sorta di femme fatale moderna, privata della sua intelligenza e confinata semplicemente alla sua bellezza, in questo caso non soltanto superficie, ma essenza della sua persona.
Nel momento in cui quella bellezza, unico tesoro che possedeva e fondamento della sua identità, risulta essere ormai in balìa del tempo e delle sue due forze principali, una tendente verso l’esterno (creatrice), e l’altra verso l’interno (distruttiva), Elizabeth vive una profonda crisi d’identità e fa di tutto pur di rimanere aggrappata al ricordo di ciò che è stata, lasciando che sia quest’ultimo a divorarla da dentro.
Chi è ora Elizabeth? Cosa vuol dire esistere? Se lo chiede lei e ce lo chiediamo anche noi, che con lei respiriamo la sua angoscia e il suo smarrimento.
Come affermò Henri Bergson in L’evoluzione creatrice, «per un essere cosciente l’esistere consiste nel mutare, il mutare nel maturarsi, il maturarsi nel creare indefinitamente se stessi». E forse è proprio ciò che fa la protagonista, maturare fino a creare indefinitamente se stessa, ma in un processo di involuzione interiore e moltiplicazione fisica, la cui combinazione esplosiva produce come risultato finale l’orrore all’ennesima potenza. La protagonista, prima, sapeva chi era: l’irresistibile donna di successo amata e invidiata da tutti. Ora non più: è la fine di ciò che è stata.
La doppia vita che ora vive la donna la costringe al conflitto duale tra una Sue immacolata e una Elizabeth sempre più abominevole, doppiezza che di certo non compare per la prima volta presentata in questi termini: ne sono un esempio il Frankenstein di Mary Shelley e il Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, dove la scienza viene utilizzata dall’uomo per materializzare una dicotomia di personalità interna, una crisi tra la parte amabile, soggettivamente e socialmente accettata – il conscio freudiano – e la parte in ombra in senso junghiano – l’inconscio –, ciò che rinneghiamo di noi stessi. Potremmo definirlo il nostro “scheletro nell’armadio”, ed è proprio ciò che Elizabeth rappresenta per Sue (evidente, per esempio, quando la giovane nasconde il corpo della sé decadente, di cui prova vergogna, tra le mura di casa).
Tra Dorian Gray, Superuomo nietzschiano, e delirio
Il ritratto di Elizabeth, in questo, costituisce un simbolo particolarmente evocativo: chiaro riferimento a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, esso manifesta la corruzione dell’anima della donna e, mentre Sue gode del suo sacrificio vivendo istanti di eccessi, libera da conseguenze morali, Elizabeth diviene sempre più orripilante, esplicando fisicamente la sua degradazione interiore e pagando il prezzo della tracotanza e della smania di voler sempre più tempo.
Qui risiede la debolezza di Elizabeth, e forse anche la nostra: nostalgia, tracotanza e un mancato senso di identità alimentano il desiderio di un ritorno al passato, di rivivere eternamente la propria giovinezza, celebrata come unico momento di vita dotato di senso.
Elizabeth rifiuta la vita e il suo naturale corso, illudendosi di star sfidando il tempo controllandolo, quando invece è accaduto esattamente il contrario: è stato il tempo a controllare lei, e mentre avrebbe potuto vivere a pieno la propria vita accettando il saggio insegnamento del Superuomo nietzschiano e, dunque, dando significato ad ogni istante in qualsiasi fase della sua esistenza, la presunzione l’ha portata alla distruzione e, infine, alla morte.
Seppur provando a fare il contrario, in questa sorta di scambio, l’una è costretta a ricordarsi sempre dell’altra: quando Elizabeth sostituisce Sue i cartelloni appesi per tutta la città, i programmi televisivi, i vestiti per casa, le ricordano della vita fresca ed esuberante che in realtà vorrebbe vivere lei e di cui le pare sia qualcun altro a godere. Quando Sue sostituisce Elizabeth, a dominare in lei sono sensazioni quali disgusto e vergogna per quest’ultima: avanzi di cibo per tutta casa sono tutto ciò che è rimasto di una donna ormai fallita e dimenticata. Il loro però non è un alternarsi semplicemente di corpi, ma di stili di vita, modi di pensare, emozioni, diametralmente opposti, con pochi ed essenziali elementi comuni («la matrice è una»).
Da una parte infatti c’è Elizabeth, nel mezzo di una profonda depressione, abbandonata da tutti e sola nella disperazione, nel dolore di un vuoto costante, nel sentimento di colpa e inutilità che sciolgono i suoi giorni nel silenzio; dall’altra Sue, con un senso di onnipotenza smisurato, a tal punto che, nella scena di combattimento tra la giovane ed Elizabeth, la prima scaraventa quest’ultima al muro con una forza decisamente sovrumana, come a suggerire il delirio di grandezza di Sue.
Due lati opposti della stessa medaglia, depressione e maniacalità, con elementi comuni a entrambe: rabbia, vergogna, mancato amore verso se stessa; sintomi psicologici, questi, che, secondo il DSM-IV-TR, ad esempio si ritrovano nel disturbo borderline di personalità, bipolare, depressivo, narcisistico, ma non solo.
La piaga sociale dei disturbi alimentari e il disgusto di un’esistenza priva di senso
La pellicola impone di comprendere e di immedesimarsi, attraverso immagini vomitevoli e senza scrupoli di un impatto devastante (come la coscia di pollo mangiata da Elizabeth che Sue fa uscire dal proprio ombelico), in uno dei disturbi mentali più diffusi, specie tra preadolescenti, adolescenti e giovani adulti. Si tratta dei disturbi alimentari, piaga sociale strettamente legata a paradigmi di bellezza e perfezione notoriamente non fissi, ma mutevoli nei vari periodi storici, prodotto dell’avvento e dello sviluppo di una società dei consumi, che svende i corpi come carne da mettere sul mercato così come si fa coi buoi nei banchi dei macellai.
Mai era capitato che un film rappresentasse i disturbi alimentari e le loro vittime in un modo così spietato e crudo, senza risparmiarci il dolore, l’angoscia, la nausea, la rabbia, l’odio, la vergogna, l’invidia verso un corpo avuto in passato e che ora si è trasformato; per questo è giusta tutta questa crudeltà, è giusta la mancata delicatezza, perché questo è il Binge Eating, e più in generale tutti i disturbi alimentari, e non c’è altro modo di rappresentarlo se l’obiettivo è far comprendere al proprio pubblico fino a che punto ci possa portare l’odiare noi stessi.
Dettagli particolari in primo piano, come la mosca, simbolo di putrefazione fisica e metafora di quella interiore o i denti ingialliti nel sorriso viscido di Harvey, ed esplicite immagini rivoltanti, come la creazione della stessa Sue o ancora più evidente l’abominio (così la chiameranno) che diverrà alla fine, ricordano la riflessione esistenzialista del noto filosofo Jean-Paul Sartre, particolarmente esplicata in La Nausea.
La sensazione di disgusto e ripugnanza, infatti, domina la scena durante l’intera proiezione, smuovendo un rifiuto viscerale nei confronti dell’essere umano e della sua esistenza priva di senso; un’inautenticità assimilata per far calzare al meglio la propria maschera, tanto recriminata da Luigi Pirandello, strumento utile per recitare nel modo più convincente possibile il proprio ruolo, e così sfuggire da se stessi e dalle proprie responsabilità, mancando l’unica occasione che abbiamo di vivere realmente il poco tempo di cui disponiamo.
Conclusione – accettiamo il compromesso?
The Substance è un film che parla di noi: di donne ridotte a meri corpi destinati a deteriorarsi e che passivamente lasciano che sia un sistema deumanizzante e oggettificante a definirle in quanto persone; di uomini, protagonisti di quel sistema, che scomodo non è – che anzi, risulta essere garante di un’assegnazione naturale e “giusta” di ruoli; di una società, includendo donne e uomini in quanto risultato di ciò che i singoli pensano e agiscono, antagonista a un femminismo di cui invece abbiamo bisogno, che dovrebbe rivendicare la donna intelligente e la ridefinizione dei canoni di bellezza; di sanità mentale, rimarcando più volte quanto la mente sia potente e quanto doveroso sia proteggerci, talvolta anche da noi stessi, e imparare ad amarsi, ad amare il proprio corpo, la propria unicità e le proprie peculiarità, perché sono queste a renderci persone distinte e riconoscibili, con un senso che è solo nostro, da trovare o già trovato che sia. È un film che parla di essere umani, delle nostre fragilità, vanità, paure, desideri, arroganze, un film che obbliga lo spettatore a guardarsi dentro e a cogliere quel disgusto viscerale per farsi un esame di coscienza. Mi chiedo dunque, vale davvero la pena lasciarsi pietosamente morire per una vita priva di senso, posticcia, ipocrita? Davvero siamo disposti a barattare il nostro valore, il nostro tempo, la nostra storia, i nostri sogni, per un briciolo di vano consenso?